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Aggiornamenti sulle prigioni francesi

Da una settimana la Francia ha dichiarato uno stato di “guerra sanitaria” con misure di confino forzato e controlli polizieschi rinforzati in strada – soprattutto nei quartieri dove vive la popolazione non bianca, più precaria e sfruttata, a rinforzare la gestione coloniale già in atto in queste aree urbane. Nei luoghi di reclusione, l’arrivo dell’epidemia da Coronavirus ha determinato l’applicazione di restrizioni ancora più dure. Nelle carceri e nei centri di detenzione per persone migranti i colloqui sono stati interrotti da lunedì scorso (16 marzo). Lo stesso giorno è arrivata la notizia della morte di un detenuto di 74 anni, rinchiuso da dieci giorni nel carcere di Fresnes, a sud di Parigi. Nessuna alternativa per comunicare con l’esterno è stata proposta alle persone detenute, e sono state vietate tutte le attività collettive: nella pratica, i/le prigionieri/e resteranno rinchiusi nelle loro celle 22 ore su 24. Le parole dei/lle prigionieri/e uscite in questi giorni dalle mura delle carceri denunciano l’isolamento forzato a cui sono costretti/e da queste misure, la mancanza totale di misure di igiene e prevenzione all’interno delle carceri e la tutela completamente assente nei loro confronti, allorché le guardie penitenziarie continuano ad entrare e uscire dal carcere, e sono potenzialmente esposte al virus.

La privazione di ogni forma di socialità e di contatto con l’esterno, unite alle violenze e gli insulti dei/lle secondini/e hanno portato a delle rivolte in numerose prigioni di Francia. Domenica 15 marzo, a Metz è stata bloccato il cortile dell’aria, nei giorni successivi disordini sono scoppiati nelle prigioni di Aiton, Angers, Douai, Epinal, Grasse, La Santé, Lille-Sequedin, Maubeuge, Montauban, Nancy, Perpignan, Saint-Etienne, Toulon, Valence et Varennes-le-Grand. Le Eris (Équipes régionales d’intervention et de sécurité – equivalente dei GOM) sono intervenute e in alcuni casi, per esempio a Grasse, i secondini hanno sparato con proiettili veri. A Uzerche, nel sud-ovest, una rivolta scoppia nel pomeriggio di domenica alla fine dell’ora d’aria. Diverse decine di detenuti si rifiutano di tornare in cella, salgono sul tetto mentre alcune centinaia invadono le diverse zone della prigione, costringendo i secondini a scappare dal carcere. Il bilancio finale è di 250 celle inutilizzabili, diversi danni strutturali tra cui l’ufficio del direttore completamente distrutto e i dossier dei detenuti bruciati. L’amministrazione del carcere ha risposto con una serie di trasferimenti punitivi nella notte tra domenica e lunedì. Nella stessa giornata i detenuti si sono rifiutati di tornare in cella e hanno bloccato il cortile dell’aria in altre prigioni, tra cui Maubeuge, Longuenesse, Meaux, Nantes, Carcassonne, Moulins, Limoges, Rennes-Vezin, Saint-Malo, Nice, Fleury-Mérogis.

È di lunedì 23 marzo la notizia che su ingiunzione del Ministero della Giustizia i tribunali di sorveglianza procederanno nei prossimi giorni alla liberazione di 5000 detenuti a fine pena, “che sono stati incarcerati per pene minori e che hanno mantenuto una buona condotta al momento della loro incarcerazione”. Non verranno applicate misure alternative tipo il braccialetto elettronico, visto che i tecnici non lavorano durante il periodo di confino. Nello stesso tempo, come diretta conseguenza dello stato di polizia rinforzato in atto da ormai una settimana, almeno una decina di persone sono state messe in stato di fermo per aver violato le regole di confino con l’accusa di “minaccia alla vita altrui”, con pene di diversi mesi di prigione. La prova che l’ossessione per la reclusione da parte dello Stato non si ferma ma anzi è rafforzata dallo stato di eccezione attuale.

Le notizie che arrivano dalle carceri francesi come da molte altre parti del mondo ci mostrano che non saranno i ridicoli decreti dei governi a liberarci una volta per tutte dal carcere, ma la lotta e la determinazione delle persone rinchiuse. La sola soluzione è la distruzione delle prigioni e la libertà per tutte e tutti!

Per restare informate/i sulla situazione nelle carceri francesi:

https://lenvolee.net/ giornale, blog ed emissione radio anticarceraria

https://radiogalere.org/ emissione anticarceraria il giovedì dalle 20h30 alle 22h00 e il sabato dalle 19h00 alle 21h00

Ribellione dei prigionieri in Iran

da https://www.eurasiareview.com/24032020-prisoners-rebellion-in-iran-oped/

In Iran, il numero di persone prigioniere infette da coronavirus è in aumento. Dato che il carcere è uno spazio chiuso, privo di una corretta alimentazione, con mancanza di adeguate strutture sanitarie e mediche e con un’alta densità di popolazione, l’infezione da Coronavirus minaccia la vita di molte persone prigioniere. Nonostante l’emissione di 2 direttive da parte del capo della magistratura che hanno liberato diversi prigionieri, ai prigionieri politici queste possibilità sono negate. Secondo la magistratura, lo status giuridico di queste persone imprigionate è definito come “detenuto”, comprese le persone che sono state arrestate durante le proteste di novembre.

Mentre il relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani chiede anche il rilascio di tutte le persone imprigionate, il rilascio dex prigionierx politicx è bloccato dai sistemi di sicurezza e giudiziari. Domenica 15 marzo 2020, un prigioniero è stato trasferito dal reparto 14 della prigione di Urmia in un ospedale fuori dalla prigione dopo essere risultato positivo al Coronavirus.

Inoltre, secondo l’Organizzazione dei diritti umani in difesa dei prigionieri politici, a due donne guardie nella prigione di Evin è stato impedito di venire a lavorare negli ultimi sette giorni per sospetta esposizione al Coronavirus. Negli ultimi giorni, i risultati dei test di una di essi è stato confermato essere positivo.

Il 16 marzo 2020, 128 prigionieri nei reparti n. 1, 2, 2 e 4 della quarantena della prigione di Evin hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la loro esposizione alla pericolosa malattia del Coronavirus e al deplorevole stato per quanto riguarda salute e cibo. Tuttavia, quando le persone prigioniere si sono rese conto che dopo 2 mesi dall’epidemia di Coronavirus, non avevano alternative e che le loro morti erano inevitabili, hanno deciso di ribellarsi e fuggire dalla prigione. Secondo il locale Khorramabad Citizens il 18 marzo 2020, i prigionieri nel reparto 3 della Parsylon Khorramabad Prison Mass si sono ribellati e sono fuggiti dal carcere. 250 prigionieri si sono ribellati e hanno cercato di scappare.

Alcuni di loro sono stati brutalmente attaccati dalle guardie carcerarie e uccisi da spari, ma 130 di loro riuscirono a fuggire. Durante la rivolta di Parsylon, i prigionieri hanno rotto la porta della prigione. Hanno confiscato le armi delle guardie, ne hanno ferito due e poi sono fuggiti. La ribellione ha avuto luogo secondo un piano coordinato dall’esterno e dall’interno della prigione. Alcuni amici dei prigionieri di Koohdasht hanno attaccato la prigione dall’esterno in 2 auto, mentre contemporaneamente in uno sforzo coordinato, i prigionieri all’interno della prigione si sono ribellati. Le guardie in questa situazione erano molto spaventate e hanno perso il controllo.

Testimonx sulla scena hanno detto di aver sentito spari continui vicino alla prigione. In seguito alla rivolta dei prigionieri di Khorramabad e alla loro riuscita fuga, le autorità di sicurezza e le Guardie rivoluzionarie hanno iniziato a stabilire la legge marziale nella città di Khorramabad e hanno arrestato le persone. L’IRGC ha anche fatto irruzione nei villaggi vicini per arrestare i prigionieri fuggitivi. La gente di Khorramabad ha aperto le proprie case ai prigionieri in fuga, e molte persone li hanno portati fuori dalla città con le loro auto in modo che l’IRGC non potesse prenderli.

Un cittadino che è stato imprigionato in questa stessa prigione ha detto: “I prigionieri sono fuggiti perché i prigionieri qui li trattano come animali. Hai bisogno di decine di cauzioni e decine di documenti per andartene, e per di più alcune guardie carcerarie devono garantire la tua cauzione.” L’anno scorso Ramin Biranvand, un ventenne prigioniero nel reparto 2 di questa stessa prigione, si è suicidato perché gli hanno richiesto enormi cauzioni, oltre alla garanzia di 6 guardie carcerarie. Alla fine, la mancanza di un ultimo garante gli ha impedito di andarsene e si è suicidato per rabbia. C’è stato un numero infinito di scioperi della fame. Gli assistenti sociali della prigione invece di occuparsi delle richieste degli scioperanti, li hanno messi in una gabbia e li hanno lasciati al freddo.


Tumulto nella prigione di Aligoodarz (a est della provincia di Lorestan)

Secondo Aligoodarz Citizens, i prigionieri della prigione centrale di Aligoodarz, nella parte orientale della provincia di Lorestan, il 20 marzo 2020, hanno fatto una rivolta. Questo è stato il risultato anche di uno sforzo coordinato dall’esterno della prigione. I prigionieri, per salvarsi dal Coronavirus, hanno pianificato il contrabbando di 3 pistole dai loro amici fuori di prigione e hanno costretto le guardie carcerarie ad arrendersi, quindi hanno cercato di scappare. Durante la loro fuga, si sono scontrati con le guardie. Circa 13 prigionieri sono riusciti a fuggire e 4 prigionieri sono stati uccisi dalle autorità.

Il governatore di Aligoodarz, Hamid Keshkoli, ha riconosciuto questa insurrezione e ha dichiarato: “Questa sera i prigionieri stavano cercando di fuggire dalla prigione di Aligoodarz ed è scoppiata una rivolta. La situazione della prigione è ora sotto controllo e, sfortunatamente, un prigioniero è stato ucciso e un altro ferito a una gamba.”

Testimonx oculari hanno riferito che gli agenti hanno sparato ai prigionieri anche dal tetto. Dopo la rivolta, molte ambulanze hanno trasportato ferite dalla prigione all’ospedale. L’IRGC ha bloccato tutte le strade verso la prigione nel timore della propagazione dell’insurrezione all’esterno e delle persone che venivano in aiuto dei prigionieri.

Attualmente, in altre carceri in Iran, le condizioni sono esplosive.

I prigionieri del centro di detenzione di Uzerches si arrampicano sui tetti e chiedono misure per contrastare l’epidemia

da https://lenvolee.net/les-prisonniers-du-centre-de-detention-duzerches-montent-sur-les-toits-et-exigent-des-mesures-contre-lepidemie/?fbclid=IwAR1UUsckm1qj_KR-QZUDnHbYwzufIc5wk76jjRkX6lDOl4bvcUxoGMoLxSY

Domenica 22 marzo nel centro di detenzione di Uzerches, i prigionieri stremati dalle nuove misure di confino e per il fatto di essere tenuti all’oscuro di tutto quello che riguarda la malattia sono riusciti ad accedere al cortile dell’aria e sono saliti sul tetto. In alcuni video che sono stati diffusi su internet, si sentono dei giovani urlare che hanno paura di morire perché le ERIS (Équipes régionales d’intervention et sécurité, equivalente dei GOM) e la polizia sono armati, e loro no; e che sparano con proiettili veri, com’è stato il caso settimana scorsa nella casa circondariale di Grasse. Trasmettiamo qui le loro rivendicazioni:
RIVENDICAZIONI DEI DETENUTI
-Vogliamo un DEPISTAGGIO per ogni detenuto e per ogni membro dell’amministrazione penitenziaria.
-Vogliamo che tutti gli agenti penitenziari senza nessuna eccezione siano muniti di guanti e di maschere (sono loro i più esposti al virus poiché sono loro che entrano ed escono dal carcere).
-Vogliamo essere informati dell’evoluzione della situazione:
A che punto siamo, i colloqui verranno ripristinati?
Che fine ha fatto il sopravvitto?
Che fine ha fatto la biancheria?
Qual è la situazione delle cure mediche in caso di Coronavirus?
-E per finire, per proteggerci, vorremmo che ogni detenuto abbia del gel antibatterico e una mascherina a disposizione (il minimo per quanto riguarda l’igiene attualmente)

Al CRA de Vincennes, le persone prigioniere sono ancora più isolate e ancor meno sicure

da https://abaslescra.noblogs.org/au-cra-de-vincennes-les-prisonniers-sont-encore-plus-isoles-et-encore-moins-en-securite/

Anche se diverse decine di prigionierx sono stati rilasciate da lunedì per prevenire l’esplosione dell’epidemia nel centro, almeno 60 persone sono ancora rinchiuse nel CRA di Vincennes. Le condizioni di igiene e cura rimangono disgustose e pericolose per le persone prigioniere e inoltre sono completamente isolate dai loro parenti e dalle loro famiglie.

I problemi di salute e cura a Vincennes non sorgono con il coronavirus, ma con lo stesso CRA. Rifiuto di cure, persone prigioniere malate o ferite che vengono lasciate nelle loro celle o messe in isolamento, la pratica comune di isolare i prigionieri per sparare loro e cercare di pacificare la situazione…la violenza della polizia e la violenza medica sono quotidiane nei CRA, e le infermiere e dottorx collaborano attivamente con le guardie per il mantenimento dell’ordine in prigione per le persone senza documenti, in modo che le persone prigioniere non si ribellino.

Non importa se una persona prigioniera è malata, ferita, se ha sofferenza mentale, se è stata picchiata dalle guardie: rimane rinchiusa e rischia sempre la deportazione. Molto prima del coronavirus, essere bloccati nel CRA significa rischiare di crepare. Il rischio diventa spesso realtà, come per Mohamed, morto a Vincennes nel novembre 2019.

Oggi, dopo la lotta condotta dai prigionieri tra domenica e lunedì, la situazione rimane orribile. Le persone prigioniere di Vincennes ci hanno inviato un elenco di problemi che la prefettura e le guardie si rifiutano di risolvere, aumentando il rischio per le persone detenute e rendendo il loro confinamento ancora più insopportabile.

1 / Non abbiamo una mascherina /

2 / Abbiamo bisogno di sapone e disinfettanti. /

3 / I contatti tra le persone non sono rispettati: non c’è un metro tra le persone. /

4 / Non abbiamo istruzioni da parte dei responsabili del centro./

5 / Ieri c’erano ancora nuovi arrivi./

6 / Ci sono persone che sono malate al centro: non c’è un’infermiera, arriva solo alle 9:00 e alle 15:00. Normalmente deve essere lì 24 ore al giorno e non c’è più un medico, c’è solo se c’è qualcosa di molto serio./

7 / Il personale dell’azienda privata non entra più nel centro: nessun cibo, nessuna bevanda, i distributori automatici non funzionano più./

8 / Le visite sono interrotte. Non è più possibile ricevere pacchi o indumenti dalla famiglia./

9 / Le persone non vengono più portate al tribunale, che è chiuso./

10 / C’è carne scaduta, pasti scaduti perché il camion che porta il cibo non arriva, mangiamo solo ciò che è rimasto nel congelatore ed è scaduto./

11 / Le persone non hanno più visitatori, quindi niente più soldi, quindi nessuna possibilità di acquistare carte per chiamare: non sappiamo se le nostre famiglie sono morte o vive, se stanno bene./

12 / Ci sono persone che hanno dei problemi mentali qui. Alcuni qui dentro sono infetti: una persona per esempio ha un’epatite B cronica con una terapia, un’altra ha problemi di cuore. Non si fa nulla.

Alcuni CRA sono in procinto di svuotarsi: bene. Ma essi non si svuotano completamente, e per le persone prigioniere che sono all’interno, va ancora più di merda: è importante restare solidali dall’esterno, continuare a far circolare le loro parole e i loro comunicati, sostenere le lotte che non terminano nelle prigioni per le persone senza documenti.

Fino a quando dell’ultimo CRA non resterà che un mucchio di rovine.

“Dobbiamo bloccare durante l’ora d’aria!” Messaggi dax prigionierx di Francia in reazione al confino delle prigioni.

da https://lenvolee.net/il-faut-quon-bloque-en-promenade-messages-de-prisonniers-de-france-en-reaction-au-confinement-des-prisons/

Ieri, mercoledi’ 18 marzo, abbiamo dato delle informazioni sulle prime conseguenze del confino nell’articolo “Il covid-19: la prigione nella prigione” (Le Covid-19: la prison dans la prison). La prima misura di reclusione nazionale annunciata dal ministero dei tribunali e delle prigioni è stata in effetti quella di sospendere i colloqui ovunque sul territorio nazionale, sospendere le attività, limitare i movimenti in detenzione. Mentre all’esterno lavorator@ sono ancora esortat@ ad andare a lavoro per far girare l’economia; mentre le guardie entrano ed escono dalle prigioni ogni giorno; mentre siamo tuttx invitatx a rispettare dei “gesti barriera”… la prima decisione per le persone prigioniere già isolate è stata di rendere ancora più dura le loro condizione di isolamento. Niente più colloqui, ma altrettanta promiscuità in cella.

Ma non c’è che una soluzione all’altezza della situazione: svuotare le carceri.

Facciamo uscire qui diversi appelli ad agire diffusi sui social network tra il 18 e il 19 marzo dai prigionierx di diverse carceri nella regione parigina e in Francia.


Messaggio a tutti i prigionieri di Francia

Domani dobbiamo scendere tutti all’aria e bloccare. Se tutte le prigioni bloccano nello stesso momento, saranno costretti a fare qualcosa, non possono trasferire nessuno, e non possono entrare dentro il carcere per paura.

Il virus si diffonde, già siamo incarcerati, ci annullano i colloqui, non è possibile o accettabile allora mostriamogli il nostro dissenso.

Siamo solidali perché se non siamo noi a fare qualcosa, loro non faranno niente per noi. In televisione, non hanno neanche parlato di noi; per loro non siamo neanche dei cittadini, ma quando bisogna votare ci mandano la scheda elettorale in cella.


Blocchi oggi

Abbiamo paura di morire per il coronavirus, siamo traumatizzati… E rivogliamo i nostri colloqui o almeno un visitatore per detenuto.

Tutte le prigioni di Francia, tutte nell’ora d’aria oggi.


Durante la ronda delle 5, non aprite lo spioncino, tutti quelli che stanno in carcere.

Domani bisogna che tutti blocchino cazzo.

Come mai noi non abbiamo più i colloqui, non abbiamo il diritto di vedere le nostre famiglie, invece loro, tornano a casa la sera a vedere il loro marito, moglie, bambini, e poi il giorno dopo ci portano un bel po’ di coronavirus in galera?

Se siamo bloccati qui, bisogna che siano bloccati qui con noi questi stronzi di secondini

Niente colloqui = Niente fumo

Niente fumo = non siamo contenti

Detenuti scontenti = guerra aperta!!!


Fate girare dappertutto

Fai un annuncio sulla tua story perché tutte le prigioni di Francia blocchino le passeggiate finché lo stato conceda un colloquio alla settimana minimo.

Siamo insieme

A tutti i fratelli in prigione: a partire da giovedì 19 marzo, bisogna che blocchiamo durante l’ora d’aria e tutti i giorni finché lo stato accetta di darci almeno un colloquio alla settimana. Bisogna che ci facciamo sentire e chi dirige sta più in alto dell’amministrazione penitenziaria, è lo stato che dirige. Bisogna fare rumore, ci dice che dura 15 giorni quando sanno benissimo che durerà diversi mesi. Ci tolgono la sola libertà che ci resta: la visita della nostra famiglia. Per i fratelli in prigione, diffondete l’informazione: bisogna bloccare le passeggiate a partire dal 19 marzo. Grazie, e non dimenticatevelo: l’unione fa la forza, insieme ci riusciremo.


Non parlano dei detenuti, con la sporcizia delle prigioni, il virus non se ne andrà cosi’. Sono tutti insieme isolati. Si, si, è pericoloso per i fratelli e le sorelle rinchiusi/e… Bisogna che ci sia un cazzo di sindacato o non so cosa, che facciano qualcosa.

Liberate un po’ le prigioni da questo sovraffollamento carcerario!

Per prima cosa vogliamo che i secondini siano controllati a ogni ingresso in prigione, perché ci fa paura; ne parlavamo tutti giù. Almeno la febbre, prima di ogni ingresso in carcere; perché sono loro che ce lo trasmetteranno. Tutti quelli che entrano in prigione, anche loro che vengano controllati all’ingresso, con un registro… e che sblocchino i colloqui almeno! E se davvero, per ragioni sanitarie, non possono sbloccarli, che diano del sapone a tutti quanti… che trovino una soluzione. Perché vegliamo vedere le nostre famiglie, ci sono i nostri panni da lavare… ci sono tante cose da fare, in effetti. Fategli vedere [i video]! Perché non va bene, quello che hanno fatto ieri, le Elac [le équipe locali di rinforzo e controllo]! E alla fine, ora, hanno fatto dei trasferimenti punitivi, in piena notte, hanno pestato dei ragazzi. Li hanno inc… nelle loro celle… Lascia stare, sono dei bastardi!

Contro la paura e il controllo scoppia la rivolta nelle carceri italiane

da https://mars-infos.org/contre-la-peur-et-le-controle-la-4876

Per ritornare sulla rivolta in corso nelle carceri italiane

Dopo diverse settimane la gestione d’emergenza dell’epidemia di coronavirus si è estesa a tutta l’Italia, partendo dalla creazione di zone rosse sempre più vaste situate sopratutto nel nord. Qui il governo ha testato poco a poco misure sempre più radicali di restrizione della libertà: interdizione di eventi e manifestazioni pubbliche, di manifestazioni religiose e civili (compresi i funerali), chiusura dei cinema, delle palestre e dei supermercati, coprifuoco per i bar, nessun ricovero negli ospedali pubblici salvo che per i casi urgenti, chiusura delle scuole e delle università. Col pretesto di proteggere meglio la popolazione e impedire il contagio, tutte le forme di socialità sono state limitate o completamente vietate per legge.

L’8 Marzo il presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte firma l’ennesimo decreto che vieta tutte le manifestazioni pubbliche o gli assembramenti e tutti gli spostamenti in entrata o in uscita e all’interno della Lombardia e delle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro et Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia. Se l’isolamento e il controllo diventano via via più duri all’esterno, la situazione si fa insopportabile all’interno delle carceri dove, già da due settimane, i colloqui e le attività complementari (lavoro, socialità, permessi…) sono interrotti fino a nuovo ordine, col pretesto di contrastare meglio il contagio nelle prigioni, sopratutto per proteggere i secondini. Col decreto dell’8 marzo, l’interdizione è generalizzata: stop ai colloqui, niente semilibertà né permessi speciali, tutto ciò fino al 31 maggio. L’interdizione dei colloqui, che già normalmente si svolgono nello stress, con le code davanti alle prigioni nell’attesa di poter rientrare e sottomettersi all’umiliazione della perquisizione, significa la privazione di ogni forma di contatto con l’esterno e una condizione di isolamento quasi totale. Ciò significa anche la privazione della possibilità di avere accesso a prodotti e beni di base (cibo, vestiti, soldi…) che sono di importanza fondamentale per la vita in carcere. Questa misura nelle ore che seguono al suo annuncio risveglia la rabbia dei detenutx e dei loro parenti.

Le prime rivolte di fronte a questa situazione scoppiano nella serata di sabato 7, alla diffusione pubblica della versione integrale del decreto in corso di convalida. È a Salerno e Napoli, nelle due carceri della città, Secondigliano e Poggioreale, che i detenutx salgono sui tetti e delle intere sezioni sono distrutte. La risposta delle istituzioni penitenziarie arriva con la chiusura dell’acqua, dell’elettricità e l’intervento in massa di forze dell’ordine e la violenza della polizia.

Fuori dalle prigioni nel frattempo arrivano i familiari e i solidali, per gridare la loro solidarietà ai prigionierx in lotta e bloccare la strada affinché la loro voce sia ascoltata. La rivolta si espande molto velocemente, nella serata di domenica 8 si contano 20 prigioni in rivolta, poi 27 nella notte, più di 30 nella giornata di lunedì 9. Davanti a ciascuna delle prigioni insorte gruppi di familiari e persone solidali si raggruppano, dappertutto si vede levarsi il fumo e arrivano le grida “Libertà!Amnistia!”. Gli elicotteri sorvolano gli edifici in fiamme, fin quando in diverse prigioni le squadre antisommossa e i GOM (equivalenti delle ERIS) si preparano a entrare e ristabilire l’ordine a colpi di manganello.

Nella prigione di Sant’Anna, a Modena, nel centro-Italia, la sommossa comincia domenica nel primo pomeriggio. Secondo le informazioni che arrivano dall’interno, i detenutx si sarebbero barricati e avrebbero incendiato diversi edifici, obbligando il personale (guardie e infermieri) a uscire. Si sente dire che l’ufficio di immatricolazione è stato incendiato… Poi la repressione arriva ed è tra le più violente. I parenti riuniti davanti alla prigione raccontano di aver visto le guardie condurre fuori dei detenutx ammanettati colpendoli e di aver sentito degli spari. Ottanta detenutx sono trasferitx, numerosi altri condottx all’ospedale, di cui molti in rianimazione. Secondo le ultime notizie sette o più probabilmente otto detenuti avrebbero perso la vita durante la sommossa o dopo il loro trasferimento. Secondo la stampa ufficiale si tratterebbe di “overdose” di farmaci che i prigionieri avrebbero rubato in un assalto all’infermeria durante la rivolta. Due altri prigionieri sarebbero morti per la stessa ragione nel carcere di Verona (Veneto) e Alessandria (Piemonte) il 9 e altri tre il 10 mattina nella prigione di Rieti. Si avverte bene la paura dei giornalisti benpensanti, che cercano di screditare le rivolte all’interno senza riportare le rivendicazioni politiche dei prigionierx: amnistia e libertà per tuttx.

Ma più la stampa borghese e lo Stato tentano di soffiare sul fuoco della rivolta per spegnerlo, più esso si espande nelle altre regioni. A Pavia la sera del 7 dei prigionierx in rivolta riescono a prendere le chiavi ai secondini e a liberare gli altri detenutx, poi a prendere in ostaggio un secondino e il comandante della polizia penitenziaria. Anche qui i rivoltosi appiccano il fuoco. In ogni nuova rivolta dei prigionierx tentano di evadere e qualche volta perfino ci riescono, per esempio a Palermo, a Frosinone e a Foggia, dove 70 persone scappano e l’intervento dei militari non può nulla: 20 persone sono riacchiappate ma 50 sono ancora in libertà, gli si augura buona fortuna.

Le cifre che iniziano a circolare parlano di 300 detenutx evasx di cui solamente una trentina ripresi.

Da sud a nord le prigioni non smettono di bruciare, lunedì mattina è il turno di Milano, Bologna, Lecce e molte altre. Il governo ha dichiarato tutta l’Italia “zona rossa” e continua il silenzio della direzione dell’Amministrazione Penitenziaria. La repressione avanza ma la solidarietà dall’esterno non si lascia scoraggiare: in molte città, davanti alle prigioni, parenti e solidali gridano il loro incoraggiamento e bloccano le strade per impedire gli spostamenti di secondini e militari. A Bologna i detenutx prendono il controllo della prigione, mentre le forze dell’ordine tentano di disperdere i solidali che manifestano in massa all’esterno. A Melfi (Basilicata), gli insortx tengono in ostaggio un gruppo di secondini. A Milano, dopo San Vittore, è il turno delle prigioni di Opera e Bollate, a Roma dopo la prigione di Rebibbia la rivolta esplode a Regina Coeli. Di fronte a queste resistenze la repressione si accanisce.

Noi non abbiamo bisogno di fare delle analisi delle rivolte in corso, esse parlano da sole riguardo al crollo di un sistema che imprigiona e controlla con la paura e la minaccia. Noi dobbiamo e vogliamo essere davanti a tutte le carceri per sostenere gli insortx e i loro parenti, perché di questi luoghi non restino che ceneri.

Fuoco alle galere!

Qui sotto una lista non esaustiva delle prigioni in rivolta:

Salerno (Campania)
Napoli (Campania)
Cassino e Frosinone (Lazio)
Carinola (Campania)
Frosinone (Lazio) + evasioni
Modena – 8 detenuti morti
Poggioreale – Napoli
Secondigliano – Napoli
Vercelli (Piemonte)
Rebibbia – Roma
Bari (Puglia)
Alessandria (Piemonte) – 1 detenuto morto
Palerme (Sicilia) + evasioni
Brindisi (Puglia)
Ariano Irpino (Campania)
Cremona (Lombardia)
Pavia (Lombardia)
Genova (Liguria)
Reggio Emilia (Emilia Romagna)
Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia)
Trani (Sicilia)
Augusta (Sicilia)
Foggia – (Puglia) + evasioni
Verona – (Veneto) 1 detenuto morto
San Vittore – Milan (Lombardie)
Bergamo (Lombardia)
Matera (Basilicata)
La Spezia (Liguria)
Larino (Molise)
Lecce (Puglia)
Rieti (Lazio) – 3 detenuti morti
Vallette (Piemonte)
Dozza – Bologna (Emilia Romagna)
Santa Maria Capua Vetere (Campania)
Opera – Milano (Lombardia)
Bollate – Milano (Lombardia)
Regina Coeli – Roma

“Un violador en tu camino”: lezioni della rivoluzione femminista cilena

Fonte: https://kohljournal.press/Feminist-Chilean-Revolution

di Camila Stipo

Il 18 ottobre 2019 il Cile ha visto l’inizio di una grande rivolta sociale, ora ribattezzata rivoluzione da moltx. Il suo slogan, “no son 30 pesos, son 30 años” (non 30 pesos ma 30 anni), mostra che il problema non era nell’aumento di 30 pesos della tariffa del trasporto pubblico; piuttosto, è indicativo di una questione profondamente radicata con i 30 anni che seguirono la fine della dittatura, in cui il governo non riuscì a produrre cambiamenti reali e ad affrontare le forti disuguaglianze tra le classi sociali. Che invece sono peggiorate.

Pertanto, e dopo alcune settimane di agitazione causate dalle evasioni di massa delle tariffe di trasporto pubblico da parte degli studenti delle scuole secondarie, il 18 ottobre sono scoppiati incendi in diverse parti della capitale. Come risposta il governo ha imposto uno stato eccezionale e fissato un coprifuoco. Queste misure non sono bastate a reprimere i disordini sociali e massicce proteste hanno preso il sopravvento. Gli scontri con le forze di sicurezza hanno portato a notizie preoccupanti da parte di Amnesty International e Human Rights Watch, con entrambe le organizzazioni che denunciano gravi violazioni dei diritti umani. Tra questi, le immagini che avrebbero attirato maggiormente l’attenzione erano quelle del danno oculare massiccio e senza precedenti causato dai proiettili antisommossa.

Col passare dei giorni e delle settimane, la violenza nelle strade si è intensificata. Nonostante il governo abbia revocato il coprifuoco dopo una settimana, gli scontri sono diventati più gravi e sono aumentati i resoconti strazianti delle torture, comprese le lesioni agli occhi. Catturate dalle telecamere dei telefoni cellulari, le operazioni irregolari della polizia sono state mostrate, in mezzo al caos e all’ingovernabilità nelle strade. È in un tale contesto che molte persone potrebbero perdere la fiducia, un sentimento accresciuto dai discorsi che mettono in guardia contro una possibile dissoluzione della democrazia. È anche in un tale contesto che la performance “un violador en tu camino” (uno stupratore sul tuo cammino) potrebbe trovare strada nella sfera pubblica.

“Un violador en tu camino” è stato creato dal collettivo femminista “Las Tesis”, originario della città di Valparaíso. Una canzone accompagnata da una semplice danza ha denunciato la violenza sessuale di cui le donne sono vittime, nonché la complicità di diverse istituzioni governative – “el violador eres tú” (lo stupratore sei tu), o addirittura “el estado opresor es un macho violador ”(lo stato oppressore è un macho stupratore). La performance ha avuto un tale impatto che è stata replicata in maniera massiccia in diverse città cilene e, ad oggi, in Perù, Argentina, Colombia, Uruguay, Messico, Spagna, Germania, Australia, Stati Uniti, Regno Unito, Francia , Canada, Grecia, Libano, India, Turchia, tra le altre aree geografiche.

Il forte impatto della performance non si limita alla sua portata internazionale. L’intervento è riuscito a annullare il clima di disperazione e violenza che aveva conquistato il Cile, anche se solo temporaneamente. In questo senso, “un violador en tu camino” è stato un canale di protesta sociale, riposizionando al contempo le richieste femministe al centro del dibattito.

È importante sottolineare che un’ondata femminista prende forma in Cile dal 2016, senza precedenti nella sua visibilità. Con slogan di massa come #Niunamenos (non più una morte per femminicidio) e il rapido aumento dei gruppi femministi intorno alle urgenti problematiche delle molestie per strada, della violenza di genere e della legalizzazione dell’aborto, tra gli altri, gli ultimi tre anni hanno visto una proliferazione di donne che si organizzano in Cile.

Nonostante il valore e il significato conferiti alla sommossa del 2019, pare esserci anche un lato oscuro: non solo essa avrebbe offuscato le richieste femministe, ma avrebbe anche messo a rischio le donne. La violenza sessuale esercitata dalle forze di sicurezza statali che hanno colpito soprattutto le donne (come affermato nel rapporto Human Rights Watch) è stata accompagnata dalla ripresa della disputa sullo spazio pubblico, minando in tal modo ciò che le donne avevano faticosamente rivendicato nel corso degli anni. Per molte donne il pericolo di essere semplicemente nelle strade ha generato l’ansia di uscire e partecipare all’organizzazione sociale e alle proteste. Inoltre molti uomini accusati di violenza di genere partecipano regolarmente a quegli spazi e momenti di azione collettiva, che alienano le donne che hanno subito l’abuso, che scelgono la non partecipazione piuttosto che essere nello stesso spazio dei loro aggressori.

Oltre a quello condotto da HRW, pochi studi supportano queste affermazioni. Ma le reti di organizzazioni di donne hanno messo questo problema sul tavolo per anni. Innumerevoli donne hanno presentato denunce in diversi momenti e incontri avviati da organizzazioni femministe. Ciò fa eco alle esperienze di altri processi e contesti rivoluzionari, in particolare, come sostengo in seguito, quelli sviluppati nelle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa.

Come documentato da vari autori in diverse aree geografiche del MENA non è raro che i processi rivoluzionari rimandino le esigenze delle donne, considerandole richieste di secondo ordine o “specialistiche”. Tuttavia non solo queste richieste rappresentano quelle di almeno metà della popolazione, ma si estendono a una visione critica della cittadinanza politica. Ad esempio, una delle attuali richieste rivoluzionarie in Cile si rivolge a un sistema pensionistico privatizzato che non è in grado di garantire pensioni decenti alla popolazione pensionata. Sebbene ciò influisca sulla grande maggioranza de* lavoratori e lavoratrici cilene, il problema è particolarmente critico quando si tratta delle pensioni delle donne, poiché molte di loro hanno dedicato la propria vita al lavoro di assistenza domiciliare, impedendo loro di accedere ai risparmi di sicurezza sociale e a un piano pensionistico in grado di coprire le proprie esigenze.

In questo senso, l’intervento di La Tesis è un assemblaggio del contesto politico femminista. In primo luogo, si tratta di una forma non violenta di protesta, senza che sia meno diretta, accusatoria e decisiva. Attraverso la creatività, interrompe l’angoscia delle rivoluzionarie femministe causata dalla violenza nelle strade, mentre affina la consapevolezza dei mali sociali che devono essere affrontati. “El estado opresor es un macho violador” (lo stato oppressore è un macho stupratore) funziona a doppio livello. Da un lato, denuncia la complicità dello stato con la violenza di genere. D’altra parte, si riferisce metaforicamente alla cittadinanza come a una donna maltrattata che non può e non deve più sottostare alla violenza del suo violentatore.

L’intervento ha anche aperto uno spazio per l’organizzazione femminista attiva, con migliaia di persone che hanno rivisitato la performance. Per partecipare, è necessario comunicare, provare, concordare e incontrarsi faccia a faccia. Pertanto, con il forte supporto dei social network, la performance contribuisce al rilancio dei gruppi femministi che si erano allontanati dalla sfera pubblica e chiama all’organizzazione donne che non facevano parte prima dei movimenti femministi.

Inoltre questa performance rivendica e stimola la creatività come strumento di combattimento; le sue autrici hanno invitato le femministe a modificare i testi a piacimento per adattarli meglio ai diversi contesti e le donne hanno ascoltato questo richiamo a livello globale. Gli interventi adattati che sono stati organizzati comprendono esibizioni di donne anziane e versioni strumentali come il flamenco, e presentano una vasta gamma di capi, dall’abbigliamento da lutto a un’estetica latinoamericana intrisa di colori vivaci. Attraverso la canzone originale, l’intervento è chiaro nelle accuse che si estendono alla polizia, allo stato, ai giudici e al presidente, e gli adattamenti globali nominano le istituzioni della chiesa, il sistema neoliberale, i militari e altri come complici dell’abuso.

Infine, e forse soprattutto, Las Tesis è riuscita a far emergere la questione delle donne come una responsabilità inevitabile, portando un significato visivo e uditivo allo slogan “la rivoluzione será feminista o no será” (la rivoluzione sarà femminista o non lo sarà). Sebbene il potenziale di trasformazione e l’impatto a lungo termine di questo intervento non siano ancora stati sperimentati, è già possibile trarre una serie di lezioni dalle sue conseguenze a breve termine che possono essere estrapolate da e verso altre aree geografiche e in tempi rivoluzionari diversi.

Il primo punto è quello di organizzare insieme. I momenti rivoluzionari sono momenti di amicizia, solidarietà e sostegno tra tutt@ coloro che si trovano ai margini dello stato, della società e dei loro apparati. Tuttavia ciò non dovrebbe avvenire a spese delle donne che si organizzano in gruppo, per timore che vengano escluse da una nuova ridistribuzione del potere, come è successo più volte nel corso della storia. In secondo luogo, la creatività apre infinite possibilità di mobilitazione sociale, al di là delle modalità tradizionali di organizzazione. E in terzo luogo, è importante respingere la retrocessione delle richieste delle donne in secondo piano, indipendentemente dalle circostanze. Ciò che è “urgente” è semplicemente tale perché è stato deciso dalla regola patriarcale che si posiziona come misura e standard, anche per quanto riguarda le esigenze sociali. E’ un tipo di discorso che dobbiamo combattere e contro cui dobbiamo rivoltarci.

 

La paura non ci appartiene: che la lotta delle campagne trovi eco in tutta Italia. Blocchiamo il paese!

Fonte: Campagne in lotta

Bloccare in contemporanea, per ore, i varchi di uno dei porti commerciali più importanti d’Italia e una zona industriale strategica, in un Paese come quello in cui viviamo, è una scelta ben precisa e ponderata. In un contesto in cui le leggi razziste e fasciste reprimono con sempre maggior forza le forme di conflittualità tipiche di quelle lotte che negli ultimi anni hanno fatto tremare il paese; in un tempo in cui ci si indigna, ci si dichiara antirazzisti e si parla, dai palchi e sugli schermi, di opposizione al DL Salvini, per chi è costretto a vivere segregato in ghetti e campi l’unica arma efficace per farsi ascoltare è bloccare i flussi di merci che alimentano il sistema che ci strozza.

Lo sanno bene le centinaia di lavoratori e lavoratrici dell’agroindustria che nella grande giornata di lotta del 6 dicembre, a Foggia ed in Calabria, hanno scelto di mettere in gioco i propri corpi, il proprio cuore, il proprio coraggio perché consapevoli che il tempo delle chiacchiere è finito: non si può attendere oltre. Lo hanno fatto nonostante la giornata sia stata segnata da molti momenti estremamente gravi. Sono riusciti a trasformare la rabbia, per i compagni investiti a Gioia Tauro – un gesto razzista di estrema arroganza, intrapreso per forzare il blocco – e per un altro picchiato e portato via dalla polizia a Foggia, in forza per continuare. Hanno tramutato in determinazione le aggressioni subite nelle cariche, con le annesse manganellate e lacrimogeni.

Lo hanno fatto nel periodo prenatalizio, in cui la macchina capitalista che gestisce la circolazione di merci, denaro e persone secondo i suoi interessi e per il profitto si mostra in tutta la sua imponenza e ferocia. Hanno scelto di bloccare dei colossi dal valore non solo materiale, ma altamente simbolico. Un importante porto di transhipment nel Mediterraneo, un luogo che è anche una frontiera e che come tale è un emblema di ciò che ci opprime e ci divide, e che il giorno prima aveva ricevuto la visita del patron di MSC (multinazionale con sede in Svizzera…alla faccia del prima gli italiani) Aponte a sottolineare quanto cruciale sia il progetto della ZES e l’investimento sull’aumento dei volumi di scalo – mentre molti lavoratori portuali, a cui va la nostra solidarietà, sono ancora in attesa di essere riassunti. Dall’altro uno snodo stradale che dal casello della A14 porta alla zona industriale di Foggia, in cui sono presenti, oltre alle fabbriche di trasformazione del pomodoro, anche la divisione aerostrutture di Leonardo SPA, gigante della produzione ed esportazione di quelle armi che giocano un importante ruolo nel determinare flussi migratori, povertà e distruzione, e uno dei centri commerciali più grandi del sud Italia, il GrandApulia, tempio dello shopping consumistico soprattutto in questo periodo dell’anno.

Come sempre, alla determinazione, al coraggio, alla fermezza delle rivendicazioni dei lavoratori le istituzioni hanno risposto da un lato con indifferenza e vaghezza, continuando a ignorare la necessità urgente di regolarizzazione per tutti e la cancellazione degli ultimi due decreti, dall’altro mostrando la forza e utilizzando tutta la violenza dell’apparato repressivo. Di sicuro le istituzioni non hanno gradito l’ingente perdita economica che il blocco di questi due punti cruciali ha provocato: 4 km di camion in fila davanti al Porto, fino allo svincolo autostradale, e la mancata distribuzione di merci per lo shopping natalizio al GrandApulia.

Il bilancio finale è di quattro denunce, tra cui quella al lavoratore che è stato investito davanti al Porto di Gioia Tauro, il quale ha ricevuto cure sommarie e un trattamento decisamente ostile, a differenza dell’investitore che si è tranquillamente allontanato dal blocco, e quella al lavoratore picchiato dalla polizia, trattenuto per ore in Questura a Foggia e poi rilasciato grazie alla determinazione del presidio creatosi in solidarietà davanti ai cancelli della stessa questura. Nonostante una costola rotta, è stato costretto dal personale del Pronto Soccorso di Foggia ad attendere ore per farsi visitare. In entrambi i casi, il personale ospedaliero si è dimostrato complice della repressione, cercando in tutti i modi di ostacolare non solo le cure ma l’attestazione della verità di quanto accaduto.

Non diversamente, d’altronde, hanno fatto i pennivendoli delle varie testate giornalistiche al servizio del potere. L’immagine della giornata che emerge dai resoconti mediatici e dalle bocche di chi rappresenta il potere è ancora una volta distorta ad arte per far passare chi scioperava come un violento manipolato da forze oscure. Non si parla di lotte autorganizzate, perché, si sa, gli africani non sono capaci di ribellione autonoma, e c’è sempre qualche bianco ‘figlio di papà’ che li pilota; ancora una volta si mente sulla violenza della polizia, non scrivendo dell’attacco deliberato e immotivato alle persone che stavano manifestando ma inventando inesistenti lanci di pietre da parte dei lavoratori, associando in ogni articolo la questione immigrazione a quella della sicurezza e dell’ordine pubblico come d’altronde ci hanno abituato a sentire e leggere da decenni a questa parte. Abbiamo imparato a non stupirci della vigliaccheria e del razzismo di molti giornalisti, non ci impauriscono le loro bugie e diffamazioni: arriverà il tempo in cui vi faremo pagare tutto.

Dulcis in fundo, le dichiarazioni di CGIL e PD hanno superato a destra anche i partiti fascisti e razzisti, gettando fango sulla lotta dei lavoratori, delegittimandone l’enorme importanza, affermando accuse gravissime che vanno a braccetto con quelle di Fratelli d’Italia e Lega. A quanto pare le leggi ingiuste si possono violare solo in alcuni casi, quando a farlo sono i rappresentanti italianissimi dell’accoglienza degna su cui si pensa di poter capitalizzare alle urne, e l’antifascismo va bene solo nella versione edulcorata e di facciata di piazze mute e disciplinate, mentre si attaccano lavoratori che resistono perché non accettano di essere presi in giro. Si cantano canzoni partigiane, si fa un gran parlare di quanto ingiusto sia il DL Salvini, ma quando i diretti interessati decidono di protestare contro la legge razzista e fascista, ecco che li si colpisce con la violenza e la vigliaccheria tipiche di chi è abituato a giocare con la vita degli altri per ottenere un tornaconto di visibilità e carriera. Gli avvoltoi, da sempre, sono quelli che approfittano e lucrano sulle lotte per i loro sporchi interessi: non certo i lavoratori che si organizzano da soli per cambiare l’esistente, per fare in modo che tutti, non solo gli immigrati, possano avere una vita migliore. Non paghi delle becere accuse lanciate, CGIL e USB, quegli stessi sindacati che con tanta energia amano definirsi in prima linea a fianco dei lavoratori migranti, non hanno esitato nei giorni successivi alla manifestazione a minacciare e intimidire biecamente coloro che hanno partecipato alla giornata di lotta, dimostrando, una volta in più, la loro complicità con il razzismo istituzionale e il suo apparato repressivo.

Ciò che giornali e politici hanno evitato di riportare sono le concrete rivendicazioni che gli scioperanti hanno portato ai due blocchi: l’abrogazione delle ultime leggi immigrazione e sicurezza e la reintroduzione del permesso umanitario; i permessi di soggiorno per chi non ce li ha; l’apertura di canali di ingresso e transito per lavoro e ricerca lavoro oltre che per motivi di carattere umanitario; l’abolizione della residenza come requisito per il rinnovo e per l’accesso ai servizi essenziali; la creazione di un permesso di soggiorno unico europeo che permetta alle persone di muoversi liberamente in Europa; lo smantellamento dell’attuale sistema di accoglienza, detenzione e rimpatri, e il superamento del sistema dei centri d’accoglienza, delle tendopoli e dei campi di qualsivoglia natura in favore dell’accesso alle case. Tutte proposte con le quali chi pretende di essere un difensore dei diritti dovrebbe concordare.

Siamo disgustate da tanta ipocrisia, falsità, violenza. Ancor di più questo ci convince che quella che stiamo percorrendo è la strada giusta e la solidarietà che ci arriva da chi in altri luoghi d’Italia e d’Europa lotta per i documenti e sul lavoro ci scalda il cuore e ci fa sentire meno sole, più forti.

Ne siamo sempre più convinte, se ci impediscono di vivere liberi da sfruttamento e repressione, dove e con chi vogliamo, bloccare il serpente che ci stritola è l’unica cosa da fare. Sempre di più, in maniera sempre più diffusa e pervasiva, alla vostra violenza risponderemo con unione, coraggio e determinazione.

BASTA SEGREGAZIONE, CONFINI E SFRUTTAMENTO! DOCUMENTI PER TUTTI E TUTTE!

VIVA LE LOTTE AUTORGANIZZATE!

Comunicato del Circolo Anarcofemminista Ni Amas Ni Esclavas sulla rivolta nella regione chilena

da https://hacialavida.noblogs.org/post/2019/11/26/comunicado-del-circulo-anarcofeminista-ni-amas-ni-esclavas-sobre-la-revuelta-en-la-region-chilena/

A un mese dall’inizio della rivolta sociale in $hile[1], siamo statx testimoni di molti episodi di violenza politica esercitata dalle forze di polizia e FF.AA. contro milioni di persone scese in strada a manifestare il malcontento e il rifiuto di un modello socioeconomico instaurato a costo della morte e dello sfruttamento di generazioni che hanno pagato le conseguenze del suo sviluppo negli ultimi 46 anni. L’azione diretta contro l’innalzamento del biglietto metro di 30 pesos, durante la quale migliaia di studenti hanno organizzato evasioni di massa, ha incoraggiato un’intera società a sollevarsi contro un sistema iniquo, a organizzare la rabbia accumulata e attaccare chi ci ha oppressx per secoli. Le varie lotte sociali sono emerse con le rispettive richieste, riuscendo a convogliarsi in un fronte comune contro lo stato e il capitale, privilegiando l’empatia e la solidarietà in una rivolta che non si ferma, né di fronte alla sproporzionata repressione né agli accordi per la pace. Non cadiamo nella trappola della nuova costituzione, elaborata a porte chiuse da una classe politica sconnessa dalla realtà e che ancora una volta esclude le persone protagoniste del tanto anelato cambio sociale.

Come anarcofemministe ci uniamo a questa grande lotta, crediamo che sia di somma importanza mettersi in gioco per l’autodeterminazione, il mutuo aiuto, l’azione diretta e l’organizzazione territoriale (essendo questi i pilastri che sorreggono questa trasformazione sociale), rendere visibili gli inganni istituzionali che storicamente la classe politica e imprenditoriale montano attraverso sotterfugi legalisti che favoriscono solamente coloro che hanno cooptato il potere, infestare con le nostre idee i distinti scenari e comunità che oggi più che mai sono terreno fertile per la diffusione delle nostre idee antiautoritarie.

Ripercorrendo la storia delle manifestazioni, proteste o rivolte in questa regione chiamata $hile possiamo individuare un obiettivo comune ancora oggi latente: la fine dell’abuso storico di una classe politico-economica che a suon di collusioni istituzionali, partitiche e imprenditoriali ha portato alla precarizzazione della vita della classe lavoratrice in ogni sua dimensione. Se facciamo questo percorso storico vediamo inoltre uno stato che dal principio ha tentato di silenziare, compromettere e schiacciare la rivolta sociale con il terrore, la repressione e la violenza. Questo terrorismo di stato si è dispiegato prima contro i popoli indigeni della regione, per eliminarli dalla scena della nascente patria, per il bene della fondazione dello stato nazionale $hileno con tutti i suoi dispositivi di controllo, per costruire un paese a immagine e somiglianza dell’Europa: bianco, civilizzato e progressista.

Il massacro razzista attuato dallo stato non è riuscito nel suo intento e questo è evidente nella resistenza da nord a sud dei popoli indigeni che storicamente hanno dovuto lottare e difendere le proprie terre, la propria cultura e le loro stesse vite dinanzi a uno stato che ha cercato sistematicamente di cancellarli dalle mappe. Successivamente questo stesso stato che ha promosso un avvenire sicuro e prospero, ha rivolto il massacro verso la sua propria gente, non a una gente qualsiasi bensì a quella che, da quando $hile è $hile, ha dovuto vivere in condizioni indegne, alla gente precaria, maltrattata, marginalizzata e dimenticata, gente che nel momento in cui alzava la voce si è vista scaternare il fuoco, la repressione, la tortura, la sparizione e la morte! Meccanismi che possiamo incontrare nella storia recente della regione chilena con l’instaurazione della dittatura civico-militare di Pinochet che a suon di minacce, proiettili e torture ha fatto del $chile il primo paese neoliberale del mondo, consolidando così una delle forme del capitalismo più sfacciato, autoritario e dispotico, forma che oggi lo stato non ha potuto continuare a occultare sotto il suo grande tappeto di convenzioni politiche, lobby, politiche pubbliche fatte di briciole e inganni giornalieri! Oggi lo stato chileno mostra la sua vera faccia, quella che lungo 30 anni di ‘democrazia’ ha provato a lavar via il sangue che scorre nelle sue istituzioni, nei suoi eserciti, tra le sue leggi, sul suo scudo e la sua bandiera; pallottole, pallini, lacrimogeni, gas urticante e proiettili che mostrano questa patria traboccante di sangue, sangue che di nuovo, nella rivolta iniziata il 18 ottobre 2019, torna a scorrere sulla protesta sociale, con più di 20 morti, 200 perdite oculari, torturatx, imprigionatx, sequestratx e stupratx.

L’azione militare brutale e mortale contro la cultura mapuche non si è fermata dopo la ditattura. Il suo obiettivo è disarticolare la storia dei popoli indigeni per riprodurla all’interno di una logica colonialista. In questo senso si ritiene valida la storia mapuche solo a partire da una rivalorizzazione del popolo detto chileno all’interno della sua etica e cosmologia, basate sul valore della terra e della natura. “Mapuche: gente di questa terra”, un motto che senza dubbio renderà giustizia ai disastri provocati da uno stato oppressore e assassino che ha definito il popolo mapuche terrorista. Dall’attuale crisi sociale provocata da una precaria e abusiva politica neoliberale, è stato dimostrato il sostegno alle persone Mapuche nella loro lotta autonoma, sostegno basato su organizzazioni sociali e appoggio reciproco che è emerso spontaneamente tra i nostri pari, identificandoci come anarcofemministe con gli ideali anticapitalisti della loro lotta. Attualmente lo stato ha giustificato la violenza approvando leggi che rafforzano ancora di più la repressione e criminalizzazione della protesta; ricattando e assassinando coloro che ritiene una minaccia al suo modello attuale.

È così che hanno discriminato e violentato il popolo mapuche da tempo immemore, nascondendolo all’opinione pubblica, criminalizzando e offuscando ciò che questo sta esigendo da anni: la liberazione, ricostituzione e autonomia del territorio mapuche, che dopo esser stato usurpato giace in mano di privati che lo distruggono e sfruttano. Il governo instilla nell’opinione pubblica disinformazione e menzogne attraverso i mezzi di comunicazione; menzogne che vorrebbero nascondere le montature contro la causa mapuche (una delle ultime è il caso del comunero Camilo Catrillanca [2], che il 14 novembre 2018 ha dimostrato fattivamente il comportamento assassino dei sicari dello stato). Allo stesso modo la ‘machi’ Francisca Linconao[3] che nel 2013 è stata accusata senza fondamento usando la legge anti-terrorista, è stata assolta per mancanza di prove nel 2018. Non sono oggi cessate le montature, la repressione e la violenza nei confronti del popolo indigeno, con la differenza che ora ad apportare il proprio sostegno non sono soltanto gruppi minoritari; ormai gran parte dei movimenti sociali, così come individualità che scendono in strada a manifestare, hanno compreso che l’oppressore è lo stesso in entrambe le cause: lo stato capitalista, patriarcale e colonialista.

Le rivolte e la disobbedienza civile messe in atto in questi giorni hanno evidenziato tutte le ingiustizie, le disuguaglianze e le violenze su cui si struttura lo stato del $hile, senza tralasciare la violenza politico-sessuale attuata attraverso stupri, molestie, denudamenti e insulti contro donne e dissidenze sessuali; uno dei congegni per seminare terrore, umiliazione e paralisi delle forze contrarie allo status quo! Si è dimostrata di nuovo, proprio come sotto la dittatura, la violenza machista storica che gli stati (tutti) hanno esercitato dal principio del mondo civilizzato; si è dimostrato che in una alleanza machiavellica gli stati hanno dispiegato atti di vessazione nei confronti delle individualità che rifuggono il sistema eteronormato e che resistono nelle loro esistenze differenti. Dopo una gran visibilità dei movimenti articolati dai femminismi, diventa un dovere continuare a espandere il nostro pensare, evidenziando violenze e combattendole congiuntamente.

Perciò ci dichiariamo contro lo stato, contro i suoi dispositivi, meccanismi e forme!

Rifiutiamo la violenza dello stato oligarchico, liberale e patriarcale contro il popolo mapuche, le marginalità, le donne, le persone omosessuali, le dissidenze sessuali e coloro che sono dimenticatx, proprio come la nostra infanzia catturata dal Sename.[4]

Esigiamo libertà e giustizia per tuttx, compagnx, prigionierx e cadutx.

Crediamo che l’unica maniera di continuare a combattere e resistere per riprenderci le nostre vite è l’organizzazione e le assemblee territoriali! Non crediamo nei loro contratti di pace, tantomeno nelle loro convenzioni costituenti sotto uno stato che storicamente è stato il nemico di tutti i popoli!

La lotta continua, la rivolta resiste!

Organizzati e riprendiamoci le nostre vite!

Círculo Anarcofeminista Ni Amas Ni Esclavas

Novembre 2019

[1] La dicitura ‘$hile’ è diffusa nel paese e marca la distinzione tra il Chile reale e lo stato neoliberale che deturpa il suo popolo e territorio in favore del capitale ($hile con $ simbolo del Peso)

[2] Camilo Catrillanca, 24enne mapuche della regione meridionale de La Auracanía e tra i leader della ATM (Alianza Territorial Mapuche), è stato ucciso da una pallottola sparata da Carabineros della squadra speciale denominata Comando Jungla il 14 novembre 2018. La sua morte ha generato proteste e scontri nelle maggiori città chilene. Il primo anniversario del suo assassinio è perció coinciso con le sollevazioni attuali.

[3] Francisca del Carmen Linconao Huircapan è una ‘machi’, un’autorità spirituale, guida e guaritrice. La causa intentata contro l’azienda forestale Palermo ha portato a una sentenza favorevole al popolo mapuche, costituendo un precedente giuridico pericoloso per lo sfruttamento indiscriminato dei territori da parte dei privati. Nel 2013 è stata ingiustamente incriminata in un caso di omicidio e nel 2016 incarcerata insieme ad altrx 10 comunerxs sulla base della denuncia falsa di un testimone estorta sotto minaccia di funzionari di polizia.

[4] Servicio Nacional de Menores, organismo di protezione delle persone minori dello stato chileno, tristemente noto per i sistematici maltrattamenti adottati nella totalità dei centri del territorio nazionale, nonché per gli innumerevoli casi di violenza sessuale (nel 50% dei casi).

Libano: una rivoluzione contro il settarismo. Cronaca del primo mese della rivolta

da https://crimethinc.com/2019/11/13/lebanon-a-revolution-against-sectarianism-chronicling-the-first-month-of-the-uprising

Dal 17 ottobre, il Libano ha assistito a manifestazioni a livello nazionale che hanno rovesciato il primo ministro e trasformato la società libanese. Queste manifestazioni fanno parte di un’ondata globale di rivolte (tra cui Ecuador, Cile, Honduras, Haiti, Sudan, Iraq, Hong Kong e Catalogna) in cui gli sfruttati e gli oppressi stanno sfidando la legittimità dei loro governanti. In Libano, un accordo settario di condivisione del potere risalente alla fine della guerra civile ha creato una classe dominante di signori della guerra che usano il clientelismo per mantenere il potere vincendo le elezioni, confermando la nostra tesi secondo cui la politica è guerra con altri mezzi. In questo resoconto completo degli eventi del mese scorso, un partecipante sul campo descrive dettagliatamente la rivolta libanese, analizzando come abbia minato le strutture patriarcali e trasceso le divisioni religiose per riunire le persone contro la classe dominante.

di Joey Ayoub

Come tutto ha avuto inizio

Per il popolo libanese, la settimana del 17 ottobre 2019 è stata tra le più movimentate della memoria recente.
Nella notte tra il 13 e il 14 ottobre, gli incendi hanno devastato il Libano e parti della Siria. Abbiamo perso fino a 3.000.000 di alberi (1200 ettari) in un paese di 10.500 chilometri quadrati (4035 miglia quadrate), quasi raddoppiando la media annuale della perdita di alberi in sole 48 ore. La risposta del governo è stata disastrosa. Il Libano aveva solo tre elicotteri, donati da civili che li avevano messi a disposizione, lasciati fermi in aeroporto perché il governo non aveva fatto la manutenzione. Sebbene il governo avesse stanziato fondi per la manutenzione, i soldi erano “scomparsi”, come accade per molti fondi in Libano che sono nelle mani della classe dominante settaria. Alla fine gli incendi sono stati domati dall’intervento congiunto di impiegati pubblici volontari (la protezione civile non è pagata da decenni) tra cui persone provenienti dai campi profughi palestinesi, volontari a caso, aerei inviati da Giordania, Cipro e Grecia e, fortunatamente, dalla pioggia. Sarebbe potuto andare molto, molto peggio.
Non soddisfatti della propria incompetenza, i politici libanesi hanno fatto fare da capro espiatorio ai siriani, diffondendo voci secondo cui i siriani stavano appiccando gli incendi e si stavano trasferendo in case libanesi abbandonate (evidentemente i siriani sono a prova di fuoco…). Alcuni dei maggiori politici, come il capo del Movimento patriottico libero (FPM) Mario Aoun, si sono lamentati del fatto che gli incendi hanno colpito solo le aree cristiane, ignorando il fatto che la regione Shouf, dove sono avvenuti molti degli incendi, è in realtà una zona a maggioranza drusa.
Invece di affrontare le ripercussioni degli incendi e prevenire quelle successive, lo stato ha esacerbato la situazione. Il 17 ottobre, lo stato ha approvato un disegno di legge per tassare le telefonate via Internet tramite servizi come WhatsApp. Lo hanno definito come un tentativo di ottenere entrate aggiuntive per sbloccare oltre 11 miliardi di dollari di “aiuti” promessi alla conferenza CEDRE (Conférence économique pour le développement par les réformes et avec les entreprises, ndt) a Parigi:
“Il vicepresidente della Banca mondiale per il Medio Oriente e il Nordafrica Ferid Belhaj ha affermato che se il Libano volesse vedere presto i soldi del CEDRE, dovrebbe prendere sul serio l’attuazione delle riforme”.
Queste “riforme” erano essenzialmente misure che punivano ulteriormente la maggioranza di meno abbienti, salvando la minoranza di ricchi.

Il Libano aveva già subito una serie di crisi economiche legate alla corruzione e al debito nazionale – la maggior parte del quale (circa il 90%) è detenuto dalle banche locali e dalla banca centrale – provocando corse agli sportelli bancari, carenza di carburante e scioperi. Quasi 90 miliardi di dollari sono concentrati in soli 24.000 conti bancari in Libano, vale a dire qualcosa tra i 6000 e gli 8000 titolari di conti in Libano hanno oltre otto volte la quantità di denaro che il governo spera di “sbloccare” con CEDRE. Sebbene molti media si siano concentrati sulla cosiddetta “tassa di WhatsApp”, in realtà è stata la combinazione di tutti questi fattori e molti altri a ispirare l’indignazione.
La notte del 17 ottobre, migliaia di persone sono scese nelle strade delle città del Libano, tra cui Beirut, Tiro, Baalbek, Nabatiyeh, Saida e molti altri luoghi in proteste spontanee. Le proteste sono state così partecipate che lo stato ha annullato immediatamente l’imposta. Quella notte, una donna di nome Malak Alaywe Herz ha preso a calci la guardia del corpo armata di un politico; il video è diventato virale e, come in Sudan, una donna è diventata un’icona rivoluzionaria. Entro il 18 ottobre, parti del centro di Beirut erano in fiamme e gran parte del paese era completamente chiuso da blocchi stradali, molti dei quali erano fatti con pneumatici incendiati.

Da quel momento mi sono unito alle proteste di Beirut e da allora ci vado quasi tutti i giorni. Come organizzatore delle proteste del 2015, cresciuto in Libano e che ne ha scritto dal 2012, ho capito subito che queste proteste sarebbero state diverse. Non ero l’unico preso da quel sentimento raro: la speranza. Al contrario, essa era ovunque. In questo resoconto, cercherò di spiegare perché queste proteste hanno già creato cambiamenti irreversibili nel paese, cambiamenti che le élite al potere dei signori della guerra e degli oligarchi stanno lottando per invertire.

La duplice natura dell’insurrezione

È importante considerare come l’insurrezione in corso abbia dimensioni sia riformiste che rivoluzionarie. È una rivolta contro l’ingiustizia e la corruzione e una rivoluzione contro il settarismo.
La dimensione riformista assume la forma di proteste contro la corruzione. Una richiesta comune, espressa nel canto kellon yaani kellon (“tutti significa tutti”), è che il governo si dimetta. Il 20 ottobre, quattro ministri associati alle forze libanesi (LF), un partito guidato dall’ex signore della guerra Samir Geagea, si sono dimessi; da allora, la LF ha cercato, piuttosto senza successo, di cavalcare l’onda delle proteste. La prima grande vittoria sono state le dimissioni del primo ministro Saad Hariri martedì 29 ottobre, facendo crollare efficacemente il governo come lo avevamo conosciuto, anche se, al momento della stesura di questo documento, è ancora il primo ministro custode [tecnicamente in carica, ndt].
Non ci sono richieste unificate provenienti dalle strade; in molti modi, c’è resistenza alla formulazione di un elenco di richieste. Detto questo, ci sono diverse richieste popolari, che richiedono principalmente la fine della corruzione e la politica settaria, che sono giustamente viste come intrecciate. Le vediamo nelle interviste di strada condotte dalle stazioni televisive, sui social media e tra i manifestanti stessi. Come hanno scritto Kareem Chehayeb e Abby Sewell, oltre alle dimissioni del governo, due richieste comuni sono state per “elezioni parlamentari anticipate con una nuova legge elettorale, per elezioni che non si basino sulla proporzionalità settaria” e “per un’indagine indipendente su furto e appropriazione indebita di fondi pubblici “. Quest’ultima richiesta è stata brevemente sintetizzata da un uomo di Arsal: “Non c’è una guerra. Si tratta di soldi. Hai rubato i soldi, restituisci i soldi”.

Le proteste sono anti-settarie in molti modi diversi. Trascendono ciò che potremmo pensare come una divisione sinistra/destra e includono persino i sostenitori tradizionali dei partiti politici settari. Questa rabbia è in atto da quasi tre decenni; i traumi intergenerazionali sono ancora più antichi. Dalla fine della guerra civile, la classe transnazionale dei signori della guerra-oligarchi del Libano ha perfezionato le regole del gioco. Lo stato funge da base attraverso la quale questa classe può fare affari con se stessa e principalmente con le élite del Golfo, dell’Iran e dell’ovest; le reti clientelari mantengono strutture di potere a beneficio di questa classe, mantenendo i segmenti della popolazione dipendenti da loro; le infrastrutture pubbliche sono state lasciate marcire mentre la rapida privatizzazione limita la libertà di movimento tra le regioni e paralizza regolarmente l’intero paese; e, più recentemente, la paura della violenza che trabocca dalla Siria è stata regolarmente evocata, tre decenni dopo la stessa guerra civile del paese, per imporre il senso di impotenza al popolo libanese.
Per farla breve: mentre cercavano di riprendersi da 15 anni di guerra civile, gli abitanti del Libano hanno trascorso gli ultimi tre decenni a barcamenarsi nella vita di un paese in cui avevano ben poco diritto di parola. Un’implosione era inevitabile, ma il modo in cui è accaduta sta sfidando le interpretazioni più ciniche della vita politica libanese, comprese quelle degli stessi libanesi.

Reclamare le nostre strade

Quando la guerra civile finì sotto la “tutela” (leggi: occupazione) del regime siriano, i poteri si sono ricomposti per creare una parvenza di politica al fine di promuovere il messaggio che gli anni ’90 sarebbero stati il ​​decennio della ricostruzione. A Beirut ciò ha comportato la privatizzazione praticamente di tutto. Il centro storico, che gli arabi di tutta la regione chiamano Al-Balad (letteralmente “il paese”) è stato trasformato in Solidere, la società privata fondata dalla famiglia Hariri. Questo “neoliberismo realmente esistente” era addolcito da un discorso ottimistico: la narrazione era che solo attraverso legami commerciali si poteva tenere a bada la minaccia della guerra civile. Questo era il tempo in cui nacque la nostra generazione, la generazione del dopoguerra che mi piace chiamare la “generazione del ripensamento”. Siamo cresciuti ascoltando storie dei “bei vecchi tempi” prima della guerra, quando Beirut aveva una linea del tram e le persone potevano vendere merci negli spazi pubblici. Inutile dire che quel quadro roseo degli anni prebellici non considerasse le molte crisi avvenute a livello regionale e nazionale, crisi che alla fine hanno portato alla guerra civile nel 1975.
Ma gli anni ’90 hanno visto anche altri sviluppi. Il parlamento ha approvato una legge di amnistia nel 1991, perdonando la maggior parte dei crimini commessi durante la guerra, consentendo a coloro che avevano il potere di entrare nel governo. La maggior parte degli attuali pesi massimi della politica erano signori della guerra o imparentati con i signori della guerra, oppure divennero attivi nell’era postbellica o nei suoi primi giorni o dopo la Rivoluzione dei cedri del 2005 che espulse l’esercito siriano.
Queste figure politiche includono Nabih Berri, leader del movimento Amal dagli anni ’80 e presidente del parlamento dal 1992; Michel Aoun, presidente della repubblica, leader del Free Patriotic Movement (FPM) tornato dall’esilio nel 2005, e suocero di Gebran Bassil, che è anche leader dell’FPM e ministro degli esteri; Samir Geagea, leader delle forze libanesi (LF) dagli anni ’80, liberato dal carcere nel 2005 e rivale storico di Aoun; Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah dal 1992; Walid Jumblatt, leader del Partito progressista “socialista” (PSP) dal 1977; e Samy Gemayel, leader del partito Kataeb e nipote di Bachir Gemayel, un signore della guerra assassinato nel 1982 mentre era presidente eletto. Inoltre, possiamo considerare Saad Hariri, leader del Future Movement (FM), ripetutamente primo ministro [Hariri è stato in carica come primo ministro dal 9 novembere 2009 fino al 13 giugno 2011 e poi di nuovo dal 18 dicembre 2016 al 29 ottobre 2019, ndt] e figlio del primo ministro assassinato Rafik Hariri, come uno degli oligarchi più importanti dell’era postbellica, insieme a Tammam Salam, ex primo ministro e figlio di Saeb Salam, sei volte primo ministro prima della guerra civile, e Najib Mikati, anche lui ex primo ministro e di solito citato come l’uomo più ricco del Libano.
In breve, il Libano è governato da dinastie politiche che sono state forgiate nel fuoco della guerra civile o durante la sua “ricostruzione” del dopoguerra. Questo è ciò che i manifestanti nella città settentrionale di Tripoli hanno denunciato il 2 novembre con il canto “noi siamo la rivoluzione popolare, voi siete la guerra civile”.

Tripoli, la luce della rivoluzione

Tripoli, la più grande città del Libano settentrionale, è stata in prima linea nella rivolta. Quasi ogni giorno dal 17 ottobre, migliaia di manifestanti a Tripoli sono scesi in piazza per chiedere la caduta del regime settario. Per citare un manifestante di 84 anni, “C’è così tanta povertà e privazione qui che non importa come andrà a finire, le cose andranno comunque meglio”. Oltre alle spettacolari esibizioni di mobilitazione popolare, Kellon Yaa Kellon e “la gente vuole la caduta del regime” risuonano quotidianamente.
Tripoli, una città a maggioranza sunnita, ha apertamente sfidato la narrazione settaria dichiarando che sta con Nabatiyeh, Tiro e Dahieh, tutte città a maggioranza sciita. Quando Hezbollah e Amal Shabbiha (criminali governativi) hanno attaccato i manifestanti a Nabatiyeh il 23 ottobre, Tripoli ha risposto “Nabatiyeh, Tripoli è con te fino alla morte”. Il canto “Rivoluzione popolare contro guerra civile”, rapidamente adottato nel resto del Libano, presenta una narrazione in cui coloro che ancora si aggrappano alle loro identità settarie come reliquie della guerra civile si oppongono a coloro che stanno cercando di costruire un futuro inclusivo di tutti indipendentemente dalle sette religiose. Le proteste di Tripoli hanno indicato dall’inizio che questa rivolta sarebbe stata diversa.

Tripoli ha mantenuto uno slancio diverso a causa delle strutture organizzative emerse. Come a Beirut, i manifestanti a Tripoli hanno allestito ospedali e forum di discussione delle persone oltre a occupare l’edificio comunale. Le mobilitazioni sono state così inclusive che, per la prima volta che ne sono a conoscenza, i manifestanti di altre parti del Libano sono andati a Tripoli per partecipare alle proteste, in risposta a un invito aperto. Il 22 ottobre, poco prima che i manifestanti iniziassero a cantare “la gente vuole la caduta del regime”, un uomo con un megafono ha dichiarato “se [il governo] chiudesse tutte le piazze, siete tutti benvenuti in Nour Square [la piazza principale]”. Per la prima volta, Tripoli è diventata il centro dell’indignazione nazionale libanese. Nour significa “luce” in arabo; lo scrittore libanese Elias Khoury ha chiamato Tripoli la luce della rivoluzione.

Per cogliere il significato di tutto ciò, è necessario capire che parti di Tripoli e il distretto di Akkar a nord di essa hanno storicamente sopportato il peso maggiore della violenza statale mentre venivano demonizzate dall’opinione pubblica e dai media come snodi dell’estremismo sunnita. Sia lo stato libanese che Hezbollah hanno adottato le proprie versioni della narrazione post guerra dell’11 settembre, e le aree a maggioranza sunnita del Libano settentrionale, tra le più povere del Libano e vicine alla Siria, sono diventate capri espiatori. Eppure, nonostante questi tentativi da parte dei partiti settari, la creazione di questo capro espiatorio del Nord non è riuscita a ostacolare questo movimento. Si possono trovare commenti settari online, di solito mescolati con commenti anti-rifugiati, ma non hanno influenzato in modo significativo lo slancio visto per le strade.
Questo è il motivo per cui lo status di Tripoli come capitale de facto della rivoluzione ha messo a disagio attori politici come l’FPM. La stazione televisiva di FPM, OTV, ha regolarmente demonizzato i manifestanti a Tripoli e Akkar, impegnandosi in una campagna di disinformazione sin dall’inizio. Un titolo affermava che Tripoli stava “copiando” la città siriana di Homs (brutalmente schiacciata dal regime di Assad nel 2014), suggerendo che i militanti di Idlib si stessero facendo strada. Un altro esperto di OTV ha proclamato “proprio come siamo andati in Siria e seppellito la loro rivoluzione, seppelliremo questa rivoluzione in Libano” (L’FPM non ha mai partecipato militarmente in Siria, ma ovviamente lo ha fatto il suo alleato Hezbollah). Quando un attivista a Beirut ha risposto ai sentimenti dei rifugiati anti-siriani cantando “Bassil out, rifugiati in”, OTV ha preso quel filmato e ha aggiunto il titolo “Formazione americana, incitamento saudita, infiltrazione siriana”.

La connessione con la Siria è profonda. I manifestanti a Tripoli hanno cantato “Idlib siamo con te fino alla morte”, in riferimento alla città siriana che continua ad essere bombardata dalle forze aeree russe e siriane; I canti siriani sono stati adottati e riproposti in tutto il Libano. Come ha scritto un attivista siriano, “l’establishment politico del Libano, in particolare la parte che è ancora al potere, è sempre più infastidito da Tripoli e fa di tutto per mettere in cattiva luce la città e i suoi abitanti”. Il capro espiatorio di Tripoli potrebbe essere visto come un’estensione della risposta del governo libanese alla rivoluzione siriana, in particolare da parte di Hezbollah, Amal e FPM. Sebbene ufficialmente non affiliato, il governo libanese ha preso una piega dura contro i rifugiati dall’elezione di Aoun nel 2016, non che il governo fosse pro-rifugiati prima. In particolare Bassil si è associato a questa retorica, da cui il canto pro-rifugiato anti-Bassil.
Il distretto di Akkar è stato senza dubbio il capro espiatorio di politici e media anche più di Tripoli. Sebbene le proteste siano iniziate insieme al resto del Libano, la copertura mediatica rimane minima. Il 30 ottobre, i manifestanti ad Akkar, come altrove nel paese, hanno fatto eco al famoso canto siriano “yalla erhal ya Bashar” (affrettati a lasciare, Bashar [Assad]), adattandolo a “yalla erhal Michel Aoun”, come ascoltato per la prima volta in Beirut. Quella stessa notte, le forze di sicurezza hanno attaccato una marcia ad Akkar mentre i manifestanti cercavano di bloccare le strade. La risposta violenta delle forze di sicurezza ha portato i manifestanti a contrapporre la risposta relativamente mite delle forze di sicurezza di Beirut alla loro risposta ad Akkar.

La sollevazione del sud e dell’est

L’altra parte della storia è ambientata nel sud, in particolare a Nabatiyeh e Tiro (nota come Sour in arabo), così come nella valle della Bekaa ad est.
I manifestanti a Nabatiyeh sono stati tra i primi a manifestare la notte del 17 ottobre. Entro il 18 ottobre alcuni stavano già sfidando tabù di vecchia data. Il solo suggerimento che un manifestante ha fatto in diretta televisiva che Nabih Berri, il cui movimento Amal domina politicamente la regione accanto a Hezbollah, sia stato per troppo tempo presidente del parlamento – ha terrorizzato il giornalista che lo intervistava; il tweet che documenta questo fatto è stato eliminato. Per capire perché ciò sia accaduto e perché ciò che sta accadendo nel Sud e nell’est sia così importante, dobbiamo discutere della shabbiha.

La shabbiha è stata storicamente un fenomeno siriano. La parola stessa deriva da “fantasma” o “ombra”; è spesso associata alle Mercedes nere S600 (chiamate al-shabah) che sono state usate per rapire dissidenti e manifestanti siriani. Più tardi, il termine assunse una connotazione più generale, descrivendo gli uomini disposti a essere violenti in nome dei loro zu’ama (singolare: za’im), signori della guerra o capi principali locali, che spesso ricevono ordini dall’alto. Questo può significare qualsiasi cosa, dal picchiare i manifestanti a rapirli, torturarli e persino ucciderli. Quest’ultimo fatto non è più così comune in Libano, motivo per cui il termine shabbiha ora descrive qualsiasi attore filo-governativo disposto a infliggere violenza sui manifestanti.

Questa immagine [https://twitter.com/joeyayoub/status/1185511737317056512] ad esempio, mostra una banda shabbiha pro-Amal a Tiro il 19 ottobre; un video [https://twitter.com/chehayebk/status/1185506613584650240] di quella stessa mattina mostra queste shabbiha che attaccano i manifestanti. A causa della loro natura, è spesso molto difficile identificare la shabbiha e quasi impossibile “dimostrare” una catena di comando. Ma per motivi sia storici che contemporanei, sono state associate al Movimento Amal e a Hezbollah (sebbene la shabbiha armata di FPM abbia anche attaccato i manifestanti in almeno un’occasione).
Anche se Beirut ha subito due grandi attacchi della shabbiha, vale la pena notare che pure gli eventi del 29 ottobre, quando centinaia di uomini Amal/Hezbollah sono andati nel centro di Beirut per picchiare manifestanti e giornalisti e distruggere le tende allestite da manifestanti, impallidiscono rispetto a ciò che si sta diffondendo nel sud. Il 23 ottobre Amal/Hezbollah shabbiha ha attaccato i manifestanti a Nabatiyeh, ferendone oltre 20. Ciò ha così scioccato i manifestanti che una mezza dozzina di membri del consiglio comunale si sono dimessi il giorno successivo sotto pressione. In risposta all’attacco del 23 ottobre, il 24 ottobre è stato chiamato “il giorno della solidarietà con Nabatiyeh” e un meme è stato diffuso con le parole “Nabatiyeh non si inginocchia, chiedi ai sionisti”. Nella “Domenica dell’Unità” (3 novembre), i manifestanti a Kfar Remen, storicamente noti per la loro resistenza comunista all’occupazione israeliana nel Libano meridionale, hanno incontrato i manifestanti di Nabatiyeh. Alcuni manifestanti in fuga dalla polizia affiliata a Hezbollah di Nabatiyeh sono andati a Kfar Remen per unirsi alle proteste.
Questa è una svolta straordinaria per una regione del Libano che è spesso considerata il territorio incontrastato di Hezbollah e Amal; lo stesso vale per la valle della Bekaa. Ma le sfide alle potenze dominanti sono continuate. Abbiamo ascoltato canti come “Non vogliamo un esercito in Libano tranne quello libanese” (una sfida all’attuale potere militare dominante, Hezbollah), nonché solidale con Tripoli e il resto del Libano. Abbiamo visto la violenza della shabbiha a Bint Jbeil, una città al confine meridionale che ha sofferto molto sotto l’occupazione israeliana e poi durante la guerra del 2006. Tiro si unì anche la prima sera, cantando “la gente vuole la caduta del regime”; entro il 19 ottobre, la shabbiha stava attaccando violentemente i manifestanti. I giornalisti sono stati costretti a fuggire dalla scena mentre la shabbiha picchiava indiscriminatamente chiunque sulla sua strada. Un testimone ha descritto come la mukhabarat (polizia segreta) seguiva i manifestanti accanto alla shabbiha.
Per quanto riguarda la valle della Bekaa, la copertura mediatica è stata relativamente bassa. Ci sono state proteste a Zahleh, Baalbek, Taalbaya, Bar Elias, Saadnayel, Chtoura, Majdal Anjar, Al-Fakeha, Hasbaya, Rashaya e Al-Khyara, tra gli altri luoghi.

Le reazioni a questi attacchi della shabbiha furono un primo segno della rottura della proverbiale barriera della paura. I manifestanti a Beirut hanno cantato “Tiro, Tiro, per te noi risorgeremo” (che fa rima in arabo), uno slogan che è diventato rapidamente comune in tutto il paese.
Da allora, abbiamo visto ripetersi uno schema ormai familiare: la repressione è seguita dalla resistenza, che a volte è seguita dai sostenitori settari che si presentano in gran numero, ma altre volte porta i dimostranti a prendere il sopravvento. Questa è una parte importante della rivolta; c’è anche un chiaro tentativo da parte dei manifestanti di “convertire” i sostenitori del partito settario sotto lo stendardo unificato della politica anti-settaria. Fino ad ora, ciò si è rivelato relativamente efficace: mentre non possiamo mai valutare chi sostiene ufficialmente i partiti settari e chi no, prove aneddotiche e testimonianze dirette suggeriscono che la maggioranza della popolazione sia almeno d’accordo con il malcontento più ampio che motiva i manifestanti.

L’Establishment risponde

Questi attacchi potrebbero essere descritti come la parte fondamentale della strategia del governo di usare il bastone e la carota. Per quanto riguarda la parte della carota, è stata piuttosto confusa. Gli attori principali [dell’Establishment, ndt]  hanno cercato di offrire una risposta coerente alle proteste, soprattutto perché non sono d’accordo tra loro e stanno provando, come al solito, a navigare a vista basando la propria politica giorno per giorno. La natura decentralizzata e orizzontale delle proteste ha ostacolato i tentativi dello stato di demonizzarle o cooptarle.
Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha tenuto un discorso il 19 ottobre. Al momento della stesura di questo documento, Nasrallah ha già parlato quattro volte dall’inizio della rivolta, un fenomeno insolito in sé. Sebbene Nasrallah non detenga una posizione ufficiale nel governo libanese, è visto come un regista di fatto a causa del potere militare di Hezbollah. Ma nonostante abbia una reputazione tra i suoi seguaci di essere relativamente sobrio nei suoi discorsi, il suo primo discorso è stato caratterizzato da autentica rabbia, arroganza e condiscendenza. Ha detto direttamente ai manifestanti che stanno sprecando il loro tempo e che questo “mandato” (la sua scelta di parole potrebbe anche essere tradotta come “era” o “patto”) non cadrà, in riferimento all’accordo del 2016 che ha portato Michel Aoun a diventare il presidente e Saad Hariri a diventare Primo Ministro (Ricordiamo che Nabih Berri non ha lasciato la sua posizione di Presidente del Parlamento dal 1992). Ha persino accusato i manifestanti di essere finanziati da ambasciate straniere, portando i manifestanti a rispondere dicendo “Sto finanziando la rivoluzione”, che da allora è diventato un meme ed è apparso anche sui segnali stradali. Un videomaker libanese ha risposto pubblicando un video dello stesso Nasrallah che afferma che Hezbollah è finanziata al 100% e armata dall’Iran.
Mantenendo il sostegno al governo, Nasrallah ha messo il suo peso dietro due degli uomini più impopolari della politica libanese: Gebran Bassil dell’FPM e Saad Hariri dell’FM. Ciò ha rivelato l’establishment come opportunista e corrotto. Proprio come i partiti politici settari si sono uniti nel 2016 per sconfiggere Beirut Madinati [la lista civica “Beirut è la mia città” raggiunse il 40% ma arrivò dietro la coalizione dei partiti di governo, ndt] alle elezioni comunali, si sono nuovamente uniti per sconfiggere la rivolta popolare. Ma Nasrallah ha commesso un grave errore. Dicendo che questo governo non cadrà, ha aggiunto pressione su Hariri affinché si dimettesse. Hariri era già l’anello più debole di questa coalizione, poiché doveva fare appello ai suoi rivali, il FPM e Hezbollah, per rimanere al potere contro i desideri dei suoi stessi sostenitori. Il 29 ottobre Hariri alla fine si è dimesso, apparentemente sorprendendo Hezbollah. In tredici giorni, i manifestanti avevano imposto il crollo di un governo che aveva richiesto mesi e mesi per essere formato.
Nelle settimane dall’inizio della rivoluzione, la classe dei signori della guerra e degli oligarchi si è impegnata per affrontare una crisi che non aveva previsto.
Ma come detto sopra, altri partiti politici hanno cercato di cavalcare l’onda della rivoluzione. Ciò è stato particolarmente evidente con Geagea e la LF, la storica rivale della FPM – una rivalità che risale alle sanguinose battaglie di Geagea-Aoun durante la guerra civile e che fu riaccesa dopo il 2005. La LF ha visto un’occasione d’oro quando è iniziata la rivoluzione: abbandonando un governo impopolare, l’LF credeva di poter indebolire i suoi rivali, poiché entrambi i gruppi si appellavano agli stessi voti settari. Ci sono stati anche sostenitori di LF che hanno bloccato le strade; questo ha creato un enigma per i manifestanti antigovernativi. Dopo le dimissioni di Hariri, alcuni manifestanti preferiscono concentrarsi sui grandi attori attualmente al governo – Aoun e Berri, rispettivamente presidente e portavoce del parlamento – eppure lo slogan “kellon yaani kellon” continua a dominare le proteste. Nonostante ciò che i sostenitori dell’FPM/Amal/Hezbollah vogliono credere, l’LF non è popolare tra i manifestanti; ha un supporto trascurabile nella maggior parte dei luoghi che hanno visto le proteste. Vi è un forte consenso sul fatto che nessun partito politico settario sarà sostenuto, non importa quanto duramente ci provino.
È ancora troppo presto per sapere quali saranno i prossimi passi del governo. Al momento della stesura di questo documento, il governo del “custode” deve ancora nominare nuovi ministri e il parlamento ha in programma di discutere una legge che garantisca un’amnistia generale che copra reati quali abuso di autorità, negligenza e crimini ambientali. La situazione si sta sviluppando molto rapidamente.

Energia Creativa

Le proteste in Libano sono state incredibilmente creative. Gli studenti di Tripoli hanno usato le gru per portare altri studenti fuori dalle scuole; i panini distribuiti a Beirut sono stati etichettati “finanziati da Arabia Saudita/Francia/Stati Uniti” per deridere quelli che sostengono che i manifestanti siano finanziati da potenze straniere; uno dei tanti posti di blocco è stato trasformato in un salotto con divani, un frigorifero e persone che giocavano a calcio e compariva su AirBnB (gratuitamente); i manifestanti hanno occupato Zaitunay Bay, un lungomare privato costruito sulla costa rubata di Beirut, e hanno proiettato il film V per Vendetta (ovviamente il 5 novembre); le immagini dei leader settari sono state demolite e bruciate; la gente ha sbattuto le pentole, facendo eco ai cacerolazos del Cile, per le strade e dalle loro case; i volontari hanno istituito mense a Beirut e Tripoli; uno storico cinema abbandonato è stato recuperato e riproposto come cinema, aula e luogo di ritrovo per artisti; la gente formava una catena umana da nord a sud; i manifestanti che bloccavano le strade cantavano “baby squalo” a un bambino bloccato nel traffico; i manifestanti indossano regolarmente maschere di Guy Fawkes, Dalì e Joker; gli organizzatori hanno creato forum aperti per riunire i manifestanti di Tripoli, Saida, Nabatieh, Zouk, Aley e Beirut. I manifestanti hanno “bloccato” una stazione ferroviaria per scherzo, per evidenziare una questione importante: le ferrovie del Libano sono state distrutte durante la guerra civile e mai ricostruite. La privatizzazione degli anni ’90 è avvenuta a spese di spazi e servizi pubblici, motivo per cui gran parte delle proteste hanno cercato di rivendicarli, impegnandosi in azioni di guerriglia gardening e simili.
L’idea generale qui è che i manifestanti debbano reinventare costantemente le loro tattiche al fine di rendere difficile per lo stato tenere il passo. Ad esempio, è in corso un dibattito sull’efficacia dei blocchi stradali. L’obiezione principale è che i politici non vengano danneggiati dai blocchi tanto quanto le persone comuni che cercano di andare al lavoro o mandare i loro figli a scuola. Allo stato attuale, questa tattica è ancora in uso, ma non è più quella principale. Nei giorni scorsi, i manifestanti si sono trasferiti per occupare o protestare di fronte a edifici governativi e altri simboli del potere: tutto, dalle case dei politici alle centrali elettriche nazionali (la maggior parte del Libano non ha ancora elettricità 24/7), passando per le principali telecomunicazioni e operatori di dati, banche, comuni e così via. Ora ci sono dozzine di azioni diverse su base giornaliera, con la maggior parte delle azioni annunciate solo un giorno prima. Al momento della stesura di questo articolo, studenti delle scuole superiori e dell’università – e alcuni studenti ancora più giovani – hanno protestato per tre giorni a Saida, Beirut, Jounieh, Tripoli, Koura, Bar Elias/Zahleh, Mansourieh, Hadath, Baalbek, Nabatiyeh, Al-Khyara, Al-Eyn, Mazraat Yachouh, Furn El Chebbak, Akkar, Tannourine, Batroun e Byblos/Jbeil, tra gli altri luoghi.
C’è stato anche uno sforzo online per contrastare le false notizie diffuse dai sostenitori del governo e degli stessi partiti politici, nonché per aiutare i manifestanti a rimanere informati più in generale: el3asas (“la guardia della città”) sta verificando la diffusione delle notizie sui social media e dalle agenzie di stampa ufficiali; una piattaforma online chiamata Daleel Thawra (“directory della rivoluzione https://www.daleelthawra.com/”) sta tenendo traccia delle varie azioni, attività e iniziative; TeleThawra (“TV della rivoluzione”) offre un’alternativa al Télé Liban di proprietà del governo libanese; Fawra Media (“Outburst Media”) mira a documentare “le persone e i gruppi che sostengono la rivoluzione libanese”; Sawt Alniswa (“Voice of Women”) è una rivista a conduzione femminile pubblicata settimanalmente; e Megaphone News è uno dei principali media indipendenti dal 2017.

Onde d’urto sotterranee

Questi sviluppi hanno aperto uno spazio per le persone e le narrazioni che sono generalmente soppresse a livello nazionale o di partito.
Oltre ai suddetti attivisti, palestinesi e siriani hanno partecipato attivamente alle proteste, in particolare nelle due maggiori città, Beirut e Tripoli. Alcuni elementi dei media settari ne hanno approfittato per ribadire le loro accuse secondo cui le proteste sono “infiltrate da stranieri”. Consapevoli di ciò, da allora molti palestinesi e siriani hanno imparato a muoversi nella politica libanese, principalmente mantenendo un profilo basso. Oltre a una protesta nel campo profughi di Ain El Helweh, dove i palestinesi hanno espresso direttamente solidarietà con le proteste libanesi, i palestinesi di Saida, Beirut, Tripoli e altrove dove finora hanno partecipato, hanno fatto attenzione a “restare in disparte nelle manifestazioni libanesi per evitare di essere accusati di istigare o usurpare il movimento di protesta ”. Ciò, in particolare, ha reso più difficile per gli xenofobi giocare il loro solito gioco, dato che è impossibile distinguere tra popolo libanese, palestinese e siriano a meno che non agitino le loro rispettive bandiere nazionali. (Questo testo: https://globalvoices.org/2018/02/01/lebanons-scapegoating-of-refugees-did-not-start-with-syrians-but-with-palestinians/ offre alcune informazioni sulla tattica del capro espiatorio).
Abbiamo anche visto, in misura minore, i canti dei manifestanti in solidarietà con gli egiziani, i sudanesi e altre parti arabe del Medio Oriente e della regione del Nord Africa, e c’è una certa consapevolezza, per lo più espressa sui social media, delle proteste in corso e della violenza in Iraq, Hong Kong, Rojava e Cile. Anche se rapidamente dimenticate a livello nazionale, abbiamo anche assistito a rivolte il primo giorno nelle carceri di Zahle e Roumieh in solidarietà con i manifestanti, nonché per richiamare l’attenzione sulle orribili condizioni carcerarie del Libano e per ripetere la richiesta di una legge di amnistia generale, quando in molti casi le persone vengono arrestate per presunti legami con gruppi jihadisti, possesso di droga e così via.
Allo stato attuale, non vi è stata alcuna grande partecipazione da parte dei lavoratori domestici migranti, che sono generalmente confinati nelle case familiari libanesi oppure stanno languendo in orribili prigioni sotterranee con diritti politici minimi o nulli sotto il famigerato sistema Kafala (sponsorizzazione) del paese. È improbabile che ciò cambi nel prossimo futuro, date le restrizioni imposte loro, ma se lo slancio delle proteste continua, potrebbe aprire abbastanza spazio politico per formare nuove connessioni.

La rivoluzione è femminile

Fino ad ora, le proteste si sono concentrate sulla lotta alla corruzione diffusa e al sistema settario. Ma il ruolo delle femministe, tra cui LGBTQ+ e / o attiviste non libanesi, suggerisce un tentativo da parte dei segmenti di manifestanti di creare un movimento più progressista e inclusivo. Le femministe hanno tenuto marce separate per evidenziare le strutture patriarcali che opprimono in modo sproporzionato le donne e le persone LGBTQ+, in particolare il fatto che le donne libanesi non possono ancora trasmettere la loro nazionalità ai loro coniugi e figli e il fatto che le leggi settarie del paese che regolano tali affari come il matrimonio, il divorzio, la custodia e così via discriminino le donne. Sia le donne che gli uomini hanno marciato per il diritto di trasmettere la nazionalità, a Tiro, a Tripoli e altrove.
Le donne hanno anche usato i loro corpi per proteggere altri manifestanti dalla polizia [https://twitter.com/lebnenereine/status/1184908295770968064]e prevenire l’escalation della violenza. Come ha affermato Leya Awadat, una delle partecipanti a queste “mura femministe”, “In questa società sciovinista, si vede male che gli uomini picchino pubblicamente le donne” (con l’enfasi sulla parola “pubblicamente”), quindi lo hanno usato a loro vantaggio.
Anche le persone LGBTQ+ sono state oggetto di insulti omofobi. Uno shabbiha che ha attaccato i manifestanti il ​​29 ottobre è stato ascoltato in diretta televisiva urlare “Gli uomini sono fottuti uomini!” Un ospite della OTV ha affermato che i manifestanti vogliono distruggere il settarismo in nome di una sorta di “agenda gay”.

Le marce femministe si incontrano sempre con le marce principali. L’idea non è quella di creare movimenti separati, ma piuttosto di far conoscere la loro presenza all’interno delle più ampie richieste di giustizia e uguaglianza. Le femministe hanno guidato molti dei blocchi stradali e lanciato molti slogan, oltre a mantenere una presenza attiva nelle attività quotidiane che aiutano a mantenere lo slancio di questa rivolta. Un modo per riuscirci è riappropriarsi di slogan e canzoni, sia tradizionali che recenti, e rimuovere le loro connotazioni sessiste. La famosa canzone “hela hela” contro Gebran Bassil insulta sua madre – è molto comune nel mondo di lingua araba usare le donne o i loro genitali come insulti – quindi le femministe l’hanno cambiata per insultare sia Gebran che “suo zio” (il presidente, Michel Aoun), creando un canto che da allora ha preso piede. Si sono riappropriate anche di una canzone tradizionale usata per mandare le donne al matrimonio, cambiando il testo in “andò a protestare, andò a chiudere le strade, andò a far cadere il governo”.

Cosa accadrà adesso?

Contrariamente a quanto alcuni avevano ipotizzato, adesso “l’elefante nella stanza” non è più il settarismo. Mentre il rischio di tensioni settarie rimarrà probabilmente per il prossimo futuro, il rischio più immediato è l’incombente crisi economica. Secondo me, questo è il motivo per cui forme di lotta più radicali stanno emergendo solo timidamente. La paura che le cose peggiorino molto è realistica; è molto difficile parlare di modi alternativi di organizzarsi, anche trascendendo le meschine (e pericolose) distinzioni libanesi/non libanesi, quando la preoccupazione principale della maggior parte delle persone è la probabilità di ritrovarsi con la scarsità di medicine e carburante e forse anche di carenze alimentari. Mentre una politica più radicale può svilupparsi organicamente se la situazione economica peggiora, è anche possibile invece che si rafforzino gli elementi più nazionalistici e settari della politica libanese. Queste ultime tendenze hanno decenni di esperienza al potere, mentre le forme più aperte di politica sono relativamente nuove, appena costruite per le strade e online.
Di conseguenza, una percezione dominante tra i manifestanti è che dobbiamo essere sia arrabbiati che cauti.
Detto questo, le mense, i presidi sanitarii gratuiti e il recupero di siti storici e aree costiere privatizzati sono tutte iniziative che implicitamente affermano ciò che possiamo chiamare i beni comuni. Ciò è cruciale da comprendere in un paese che non ha avuto beni comuni nella memoria recente, dove l’ideologia “pro-mercato” dominante precede l’istituzione dello stato nazionale del Libano.
Sebbene si possa sostenere che gli attori principali siano all’incirca una dozzina di personaggi pubblici, la ragione per cui le reti clientelari hanno funzionato finora ha anche a che fare con l’esistenza di un sottogruppo della popolazione che beneficia di queste reti. Si posizionano come intermediari tra gli oligarchi e coloro che cercano wasta (bustarelle, nepotismo, “chi conosci”) per ricevere servizi non forniti dallo stato. In altre parole, alcune persone hanno incentivi finanziari per mantenere le reti clientelari contro la creazione di qualsiasi cosa che possa essere chiamata istituzione pubblica. Riformare e poi rovesciare un tale sistema sarà difficile. Rovesciare un tale sistema mentre ci si confronta con il brutale potenziale dello stato sarà ancora più difficile.
Ma se la libera coalizione di progressisti anti-settari non affronta questo problema, è probabile che lo stato farà fare da capro espiatorio a quelli che ha già preso di mira: rifugiati e lavoratori siriani e palestinesi, lavoratori domestici migranti (principalmente dall’Etiopia, dallo Sri Lanka e dalle Filippine, in modo schiacciante donne), persone LGBTQ+ (cittadine e non cittadine), prostitute e simili. Qualsiasi individuo che non si adatta al paradigma patriarcale-capitalista-settario è a rischio di violenza fisica, psicologica e simbolica.
Infine, e questo è collegato al punto precedente, sconfiggere il settarismo politico e “il modo settario di fare le cose” è visto come una priorità immediata. Questo sistema, che risale al 1860 in una sua manifestazione o in un’altra, sta perdendo la sua aura di essere intoccabile con le generazioni del dopoguerra, sia i Millennial che, in particolare, la Generazione Z – coloro che hanno vissuto per tutta la vita ascoltando i loro genitori lamentarsi “Dov’è il governo? ”quando devono pagare due bollette separate per l’elettricità (privata e pubblica) e tre bollette separate per l’acqua (acqua corrente pubblica e privata, acqua potabile privata in bottiglia). Man mano che i signori della guerra invecchieranno, (due dei più potenti, Aoun e Berri, hanno rispettivamente 84 e 81 anni) vedremo l’inevitabile declino del settarismo dell’era della guerra civile. Ma mentre questo potrebbe essere inevitabile, la domanda è se i progressisti anti-settari riusciranno a costruire alternative sostenibili che possano sfidare il vecchio ordine.