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Il coronavirus nel Pianeta Azienda Agricola

La probabile iniziale diffusione del coronavirus in uno dei tanti “mercati umidi” in Cina, luoghi dove si vendono e/o macellano animali selvatici vivi per il consumo alimentare, non è una novità nella recente storia delle epidemie: “Si pensa che almeno il 60% delle malattie contagiose umane abbia origine nell’organismo di qualche specie animale. Polli, maiali, topi, cavalli, scimmie, pipistrelli, zibetti, dromedari e altre specie ancora, selvatiche o domestiche, sono infatti un serbatoio biologico di virus e altri agenti patogeni che possono diventare pericolosi anche per noi” [1]. Questa diffusione non avviene in un contesto neutro ma il “salto di specie” dei virus opera nell’ambito di un sistema di produzione fondato sugli allevamenti intensivi, l’esportazione di questi animali in regioni geografiche molto lontane, la deforestazione e così via: “Invadiamo le foreste tropicali e altre aree selvagge, che ospitano numerose specie di piante e animali, e con loro molti virus sconosciuti. Tagliamo gli alberi, uccidiamo gli animali o li mettiamo in gabbia per venderli al mercato. Distruggiamo gli ecosistemi e priviamo i virus dei loro ospiti naturali. Quando questo accade, ai virus serve un nuovo ospite. Spesso siamo noi», ha scritto sul New York Times David Quammen, autore del più affascinante saggio sulle epidemie, Spillover (Adelphi, 2014) [2].
Rob Wallace, autore del libro “Big Farms Make Big Flu”, afferma che “Il vero pericolo di ogni nuovo focolaio è il fallimento o, per dirla meglio, il rifiuto di comprendere che ogni nuovo caso di Covid-19 non è un incidente isolato. L’aumento dell’incidenza dei virus è strettamente legato alla produzione alimentare e ai profitti delle multinazionali. Chiunque voglia comprendere come mai i virus stanno diventando più pericolosi deve indagare il modello industriale dell’agricoltura e in particolare la produzione del bestiame”[3]. A questo proposito sembra che praticamente nessuno abbia voglia di comprendere come i virus siano pericolosi e le pandemie difficili da affrontare con misure poliziesche di repressione e di contenimento di circolazione e libertà individuali. Nel dibattito attuale sul coronavirus spicca l’assenza di questo grande rimosso della discussione politica, anche di quella più alternativa e anticapitalista. “In particolare la produzione di bestiame”, ricorda Wallace, è il punto centrale di un sistema che genera possibili epidemie: sarebbe difficile pensare che possa accadere il contrario, vista l’enormità di uno sfruttamento così intensivo, spietato e globale che ogni minuto massacra milioni di esseri viventi, devasta ettari su ettari di terreni, tutto per il profitto di poche aziende capitalistiche. Sempre Wallace ci ricorda come “Il pianeta Terra è ormai diventato il Pianeta Azienda Agricola, sia per biomassa che per porzione di terra utilizzate. L’agroindustria sta puntando a mettere all’angolo il mercato alimentare. La quasi totalità del progetto neoliberale è basata sul supportare i tentativi da parte di aziende provenienti dai paesi più industrializzati di espropriare terreni e risorse dei paesi più deboli. Come risultato, molti di questi nuovi agenti patogeni precedentemente tenuti sotto controllo dagli ecosistemi a lunga evoluzione delle foreste stanno venendo liberati, minacciando il mondo intero”.
In questo scenario, che pure possiamo chiamare “antropocene” o più semplicemente alla vecchia maniera “capitalismo”, il rimosso della questione dello sfruttamento animale, cacciato via dalla porta delle analisi critiche di sinistra, ritorna dalla finestra. Ammassare milioni di animali in pochi metri quadrati in un capannone, mutilarli e poi inscatolarli e venderli sul mercato magari come “piatti ricchi di cultura che raccontano il territorio” è un processo tanto normalizzato quanto è impensabile ritenere che non possa riportarci delle conseguenze anche nelle nostre comode e civilizzate abitazioni occidentali metropolitane. Impensabile che non ci sia un prezzo da pagare, questa volta in termini di pandemia, oppure “semplicemente” delle conseguenze provocate dall’inquinamento ambientale. Il tempo del negazionismo non è ancora finito, si continua a rimuovere il problema, catalogando le “abitudini alimentari” come una mera questione di consumo, quindi secondaria rispetto al problema della produzione.
I compagni marxisti ci ripetono che il consumo etico, in questo caso il rifiuto di mangiare gli animali, non sarebbe una risoluzione del problema: certo, ci sono anche altri modi per combattere l’industria agroalimentare, sarebbe bello vederli praticati a livello diffuso e con una adeguata riflessione politica. Sembra non essere ancora il tempo, nel mezzo di una pandemia causata ancora una volta dal dominio umano esercitato sulle altre specie presenti sul “Pianeta Azienda Agricola”, come dice con amara ironia Wallace. Aspettiamo un altro vaccino che copra solo temporaneamente questa nuova malattia, ce ne saranno altre ancora ma non sembra che si voglia nemmeno lontanamente risolvere il problema a livello strutturale. Anche la denuncia del criminale e progressivo smantellamento del sistema sanitario nazionale non è sufficiente a un deciso cambio di rotta, perché il modello di scienza medica è sempre subalterno al primato del profitto e dell’industria, ragion per cui la gestione di ogni emergenza è ugualmente succube a questo dominio indiscusso e indiscutibile; se così non fosse ci si aspetterebbe – e si pretenderebbe – che le alte sfere istituzionali che governano lo Stato italiano si prendessero carico almeno con qualche credibilità degli oltre 80.000 decessi annui provocati dall’inquinamento atmosferico, per dirne una soltanto, tanto più che non si riesce nemmeno a smontare quell’enorme carrozzone mortifero che è l’ex ILVA di Taranto.
Mentre si moriva a decine per tumore nel rione Tamburi della cittadina pugliese, non risulta che fosse proclamata nessuna “zona rossa” per contenere la strage, e così in tanti altri simili casi diffusi per tutto il Belpaese. Continuiamo a leggere appelli all’unità e alla coesione, hashtag che ci dicono che #andratuttobene ma una volta finita questa emergenza non ci sarà nulla che potrà mai continuare ad andare bene, nemmeno nell’idillico scenario di un Sanders al potere negli USA, nemmeno se i partiti socialisti e di sinistra si mettessero alla guida di tutti i governi del mondo: se infatti l’idea “realistica” è quella della redistribuzione di una parte della ricchezza tra le porzioni subalterne della società, l’unico panorama che ci si prospetta è quello palliativo del consolidamento del potere e delle istituzioni di un sistema la cui unica razionalità è quella della generazione di profitto. Non è il momento storico delle socialdemocrazie al potere, ma anche se lo fosse, non cambierebbe un bel niente, avremmo lo stesso la sovvenzione all’industria agroalimentare per lo sforamento delle “quote latte”, la pubblicità in Tv del Parmareggio e del Pollo Amadori, la distruzione del pianeta terra e il soffocamento della specie umana mentre sta sterminando tutte le altre.

lino caetani

[1] Come nasce un’epidemia https://oggiscienza.it/2020/02/07/come-nasce-epidemia/

[2] Ibidem

[3] Da dove è arrivato il Coronavirus, e dove ci porterà? Un’intervista con Rob Wallace, autore di “Big Farms Make Big Flu”

https://www.infoaut.org/approfondimenti/da-dove-e-arrivato-il-coronavirus-e-dove-ci-portera?fbclid=IwAR2VjFH1Mc28Mv3FbgEfTm83hRhpNe9LrGsg_DdwcoZ9RETizhTawFBNT14#.Xm9gFQHhPxE.facebook

L’animale che dunque sono

Da Ecate newsletter queer a cadenza mensile che tratta di Ars Magica e saperi non convenzionali.

di orso majico

Nel film “The lobster”, ambientato in un futuro distopico e totalitario, le persone single sono costrette a mettersi in coppia e se non ci riescono vengono portate in una misteriosa e terrificante “transformation room” nella quale sono appunto trasformate da esseri umani in altri animali a scelta. Questo evento traumatico viene presentato nella pellicola come uno spauracchio assoluto: perdere la propria umanità, uscire dalla specie che domina il pianeta e si differenzia dalle altre per intelligenza, coscienza di sé, capacità di controllare e modificare la natura. Un vero e proprio incubo insomma. La trama di questo film mi interessa perché a mio modo di vedere svela la pervasività di un dispositivo che funziona proprio nel senso inverso da quello messo in scena in The lobster: è la nostra società ad essere una immensa “transformation room” dentro la quale gli animali umani vengono processati in una continua soggettivazione che intende innanzitutto separare l’essere umano dall’animale, pensato tout court come radicalmente opposto rispetto all’umano. Gli umani di qua, a governare il pianeta intero, gli animali di là, a essere fonte di sostentamento, cibo, profitto per l’unico essere vivente che ha pieno diritto ad una buona vita. Dalla pulce al leone, dal maiale al babbuino, sono tutti non-umani, tanto è vero che siamo soliti parlare in senso colloquiale dell’uomo e degli animali, come se non appartenessimo anche noi allo stesso regno animale, come se non fossimo anche noi una tra le tante specie animali presenti su questo pianeta.

Il dispositivo di creazione dell’Uomo è un elemento fondante della società occidentale ed è stato definito da Giorgio Agamben come quella “macchina antropologica” che ridefinisce continuamente i rapporti tra umano e animale. La soglia di confine tra i due poli è sempre fragile e labile, per cui viene riposizionata all’interno dei rapporti di potere esistenti. Oggi possiamo vedere dovunque gli effetti di questa separazione, di questo mancato riconoscimento tra animali, siamo spinti a oscurarne le ragioni e stimolati a non mettere mai in discussione questa differenza di grado tra noi e le altre specie, una differenza che solo grazie alla sua affermazione violenta è potuta essere giustificata dalla ideologia umanista e dalle scienze antropologiche. I pacchetti di animali presenti nel supermercato sotto casa, pezzi di corpi messi dentro un frigorifero per essere ingeriti da noi umani (il macello, quest’altra realissima transformation room…) vengono chiamati “carne”, reificati all’estremo, resi lontani ed estranei da ogni possibile vicinanza e affettività emotiva. L’intelligenza amorevole del maiale, la gioia saltellante di una mucca, la misteriosa vita di un pesce nell’abisso del mare: sparite, scomparse, modificate e inscatolate in oggetti di consumo.

Tanto è forte questo dispositivo che solo dopo centinaia di anni (pochissimi nella storia del pianeta ma sostanzialmente tanti nella storia di quella che chiamiamo civiltà umana) si è arrivati ad una considerazione minima del rispetto verso le altre specie con la nascita del primo protezionismo animalista nell’ottocento. Le filosofie antispeciste oggi sono ampiamente minoritarie e subiscono una fortissima spinta ad essere recuperate dal sistema vigente (quello patriarcale, capitalista, bianco e occidentale) e ridotte a stili di vita e di consumo, diete per il fitness o semplicemente in una forma di sterile pietismo. A volte la stessa attenzione per la riduzione della violenza riservata agli altri animali si ribalta paradossalmente in un aumento della funzionalità dello sterminio per moltiplicazione: la richiesta di allevamenti non intensivi, di “carne felice”, di trattamenti di macellazione virtuosi, ha prodotto un incremento complessivo dell’industria della carne mentre si è dato contemporaneamente un contentino alle masse che cominciavano ad impressionarsi troppo di fronte alle immagini di come vengono massacrati animali inermi appena nati.

D’altra parte è veramente difficile sostenere psicologicamente una immedesimazione e una maggiore empatia con le altre specie di fronte a quello che accade ora in ogni parte del globo: miliardi di polli reclusi e uccisi nelle gabbie, pulcini stritolati appena nati, miliardi e miliardi di pesci allevati per essere subito sterminati. La nostra fragile psicologia non regge questo riconoscimento, così come lontani ci appaiono gli altri esseri umani che muoiono in una guerra sotto le bombe o di fame nel deserto. Il dispositivo di creazione dell’umano contro l’animale si rafforza e diventa più raffinato e operativo. La scienza antropologica ha sempre lavorato affinché la presunta superiorità dell’umano fosse dimostrata al di là di ogni ragionevole sospetto nonostante la realtà evidenzi il contrario: quando i cervelli degli animali di alcune specie sono troppo grandi per dimostrare che l’uomo è in uno stadio evolutivo superiore allora si parla delle nostre abilità fisiche e dell’utilizzo di utensili, cosa che pure fanno tanti gruppi animali lontani dall’umano. Anche le nostre specie cugine come le scimmie devono essere inserite in un processo evolutivo supposto come finalistico e allora sono presentate come un abbozzo primitivo dell’umano.

Non ci si riconosce neanche tra parenti, perché la scienza è uno dei tanti dispositivi di potere e di dominio. E allora dove potremmo mai recuperare una possibile sorellanza con l’animale che è in noi? Sono tanti i dispositivi che operano una separazione nella nostra società affinché alcune categorie oppresse siano disumanizzate e trattate alla stregua degli altri animali. Quando si evita questo riconoscimento reciproco tra umani e si crea l’altro irriducibile a noi, ecco che altri esseri viventi passano dall’altro lato della separazione con l’animale e divengono improvvisamente sacrificabili. Grossi maiali ebrei da mettere al forno, scimmie nere da rendere schiave, vacche femmine da usare per il consumo del dominio maschile.

Non c’è niente da fare, gli animali sono tra noi, e forse lottando per la fine delle oppressioni potremmo renderci anche conto che gli animali siamo noi. Se quel giorno dovesse arrivare, se dovessero rompersi le barriere che separano e ostacolano la solidarietà tra gli oppressi dentro e fuori la nostra malvagia specie, allora la transformation room di The Lobster cesserebbe di essere il nostro più inimmaginabile incubo e il divenire animale diventerebbe un momento essenziale della liberazione. Come auspicavano Gilles Deleuze e Felix Guattari nella loro delirante profezia filosofica dei “Mille Piani”: siate la pantera rosa, e che i vostri amori siano come la vespa e l’orchidea, il gatto e il babbuino.

Il welfare animale nella campagna delle presidenziali USA

Negli Stati Uniti è tempo ormai di candidature per le elezioni presidenziali e tra le varie tematiche su cui si confrontano i politici democratici, tra di loro e con l’amministrazione Trump, fa capolino anche la questione del “welfare animale”. Bisogna innanzitutto fare presente come da un lato questo interesse per il benessere e la salute delle altre specie sia condizionato nel quadro di proposte politiche molto limitate e cautamente riformiste all’interno di un quadro, quello dell’industria agroalimentare, che di per sé persegue finalità di sfruttamento e di sterminio a scopo di profitto. Desta comunque interesse fare un ragionamento generale su come queste tematiche siano sempre più al centro dell’attenzione e del dibattito politico americano mentre in Europa sono ancora fuori dal confronto istituzionale se non per quanto riguarda alcune proposte dei partiti ecologisti. Un esempio lampante può essere quello dell’appena nominato governo cosiddetto “giallo-rosso” che da un lato ha annunciato una svolta in direzione di una “green economy” con investimenti a favore dell’ambiente fuori dai vincoli di deficit, mentre dall’altro ha nominato una ministra dell’agricoltura che ha rilasciato dichiarazioni inequivocabili sul tema. La politica renziana Teresa Bellanova, intervistata da Lilli Gruber nel talk show “In onda”, ha infatti affermato come le priorità del suo ministero siano relative al contrasto dei virus come la Xylella e alla certificazione di qualità dei prodotti alimentari. Gli animali praticamente non esistono se non come strumento di consumo e di espansione dell’industria made in Italy, così come nessun cenno è stato fatto alla disastrosa situazione dei lavoratori e delle lavoratrici migranti nelle campagne, tra chi lavora senza documenti e senza casa a cottimo sotto il sole cocente della Puglia o della Calabria. Un esordio, quello della ex bracciante Bellanova, totalmente in linea con il suo predecessore leghista Centinaio. Tornando agli USA, il dibattito sulle cause dell’inquinamento e del relativo aumento del riscaldamento climatico ha finalmente messo in primo piano con dati inoppugnabili anche il ruolo degli allevamenti intensivi, per cui diventa difficile anche per i candidati democratici del paese dei mangiatori di cheesburger continuare a fare finta di niente. Nella sinistra USA ci sono politici come Bernie Sanders che hanno presentato per le primarie democratiche un programma di “animal welfare” piuttosto vago ma comunque abbastanza significativo: https://feelthebern.org/bernie-sanders-on-animal-welfare/ Si va dalla richiesta di una diminuzione della crudeltà sugli animali da allevamento fino alla protezione di alcune specie particolari e in via di estinzione. Altri programmi simili sono presenti nelle piattaforme per le primarie democratiche di altr* candidat*. La piattaforma più articolata è quella di Juliàn Castro https://veganista.co/2019/08/19/julian-castro-unveils-groundbreaking-animal-welfare-plan/ che si sofferma sui test animali per i cosmetici, sulla caccia così come sulla stessa riduzione degli allevamenti industriali. Cory Booker, senatore del New Jersey, è un vegano dichiarato (esempio abbastanza raro nel mondo della politica istituzionale) e ha una piattaforma simile a quella di Castro: https://corybooker.com/issues/animal-welfare/ Tra i pezzi grossi delle primarie c’è sicuramente Joe Biden: nella piattaforma dell’ex vicepresidente di Obama non c’è traccia di punti riguardanti il welfare animale ma abbiamo comunque alcuni suoi atti del passato che lo hanno visto battersi contro la macellazione equina, la caccia di animali esotici e dei delfini. Una delle sue principali concorrenti alla nomination è Elizabeth Warren: la candidata del partito democratico si contende con Bernie Sanders (sulle linee di politica generale) la palma del programma più radical e spostato a sinistra. Per quanto riguarda le politiche verso gli animali, invece, diversamente da Bernie, la Warren appare come una convinta nemica della liberazione animale, una specista di tutto tondo: ha infatti sponsorizzato una campagna a favore dell’industria casearia https://veganista.co/2019/07/09/the-dairy-pride-act-is-a-full-blown-attack-on-vegan-businesses-so-why-did-elizabeth-warren-back-it/ finanziata dalle lobby agroalimentari e si è pronunciata in modo nettamente negazionista rispetto al ruolo degli allevamenti nei cambiamenti climatici. Chiedete alla Warren di parlarvi del Green New Deal ma non ditele che il cheesburger che si sta mangiando è la causa dell’inquinamento che sta distruggendo il pianeta. Queste sono dunque le principali posizioni dei politici democrat. Il vincitore o la vincitrice delle primarie si troverà di fronte un avversario tradizionalmente collocato su posizioni speciste e di sterminio animale, nonché di un forsennato negazionismo climatico tout court. L’amministrazione di Donal Trump si è spesa infatti in questi anni attraverso il suo dipartimento per l’agricoltura per aumentare la velocità della macellazione dei suini nelle linee dei mattatoi, attualmente “limitate” a soli 1.106 maiali massacrati all’ora https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-12-06/usda-plan-to-speed-up-slaughter-line-is-challenged-as-flawed Inoltre, l’amministrazione Trump si è spesa contro la protezione delle specie in via di estinzione: https://eu.usatoday.com/story/news/politics/2019/08/12/donald-trump-administration-weaken-endangered-species-act/1985543001/ Insomma, chiunque affronterà Trump alle prossime elezioni presidenziali troverà un candidato ben agguerrito a difesa di tutti i privilegi specisti, anche quelli più odiosi e facilmente evitabili.

lino caetani

Foreste in fiamme e corpi da macello

Questa estate 2019 è stata disastrosa per il pianeta. Incendi in Siberia, ghiacciai che si sciolgono in Groenlandia, temperature record ovunque, fino ai roghi devastanti nella foresta amazzonica, che hanno dato il colpo di grazia a un ecosistema già ampiamente provato: gli incendi di quest’anno non sono infatti straordinari ma confermano una tendenza ventennale [1]. I negazionisti dei cambiamenti climatici sono ormai ridotti al silenzio e i capitalisti preparano la loro fuga verso bunker protetti dal disastro in isole lontane e al riparo dalla catastrofe. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite mette in fila le cause principali che sono alla base dei cambiamenti climatici: al primo posto (non è più soltanto qualche documentario girato da registi underground a dirlo) ci sono gli allevamenti animali [2].

Anche l’indignazione da social ha dovuto stavolta fare i conti con la realtà delle cause che hanno condotto agli incendi di Amazzonia, Congo, Angola: serve spazio per bestiame da macellare, e per la coltivazione dei mangimi con cui ingrassarlo. L’evidenza dell’impatto dell’industria della carne sull’ecosistema amazzonico ha potuto farsi spazio – principalmente a causa della coltre di fumo che ha avvolto San Paolo – nelle prime pagine dell’informazione di tutto il mondo; ormai insomma non è più possibile tergiversare richiamandosi alla complessità del fenomeno del riscaldamento globale. Le fiamme vengono appiccate, e primariamente per incrementare la produzione di carne.

Sono irrecuperabili i danni alla biodiversità, al clima, alle popolazioni indigene che sono conseguenza della strategia di deforestazione decennale di queste terre. Una immagine molto circolata in rete recita “non è fuoco, è il capitalismo”: un riassunto tanto lapidario quanto innegabile.

Se la grande mano del capitale muove processi economici, umani, ambientali incontrollabili in cosa consiste allora fare dell’anticapitalismo in tempi di crisi ecologica? C’è a nostro avviso una dissonanza che sorge quando si associa il consumo di animali allo sfruttamento del pianeta: anche se la nostra lotta è (crediamo) anticapitalista, qualcosa ci frena dal rifiutare l’uso della carne in toto, una nostalgia ci coglie ancor prima di fare qualsivoglia tentativo. Le coscienze si riempiono di voci che recitano “ne mangio solo due volte alla settimana”, “non si combatte il capitalismo con scelte di consumo”, “non c’è consumo etico sotto il capitalismo”.

Beh, siamo d’accordo, quello del consumo non è terreno per alcun tipo di conflitto, ma pare che si dimentichino diversi fattori in gioco, soprattutto per chi utilizza le categorie marxiane:

1) quello degli animali non è forse lavoro? Parliamo di corpi di fatto schiavizzati (quella animale è forza-lavoro non pagata e obbligata), esistenti solo in funzione della produzione di un valore sul mercato dei corpi-carne. Come sottolinea Jason Hribal “Consideriamo la ‘carne’. Carne, muscoli, ossa, grasso, questa è la sua forma fisica. Ma la carne non è questo. Piuttosto, la carne è la merce composta dalla forma fisica e creata attraverso la forza lavoro. I principali fornitori di forza lavoro sono polli, mucche e maiali. I fornitori secondari sono gli umani che gestiscono le operazioni e raccolgono i profitti. Se stai acquistando un maialino, stai acquistando la sua forza lavoro futura: sia per produrre beni o riprodurre più forza lavoro. Produrre carne è lavoro tanto quanto lo è guidare i non vedenti o tirare una carrozza. Adam Smith non ha scelto un cavallo come il suo esempio di lavoratore. Ha scelto una mucca.” [3]

2) La scelta vegana non è una scelta di consumo, è un posizionamento politico radicale contro tutti i tipi di oppressione: è il tentativo costante di disinnescare la postura antropocentrica e secolarizzata che respiriamo e riproduciamo quotidianamente. Tirare fuori la scusa dell’insufficienza del “consumo etico” nel capitalismo è semplicemente inaccettabile quando parliamo della libertà e della liberazione dei corpi animali, del rifiuto di ingabbiarli, torturarli, mangiarli. Gira molto nei social questo meme che ironizza sull’inefficacia delle pratiche individuali come andare in bici, riciclare e ridurre il consumo di carne, mentre enfatizza l’unica vera soluzione ovvero fare fuori fisicamente la “classe aziendale corrotta”. A parte il velleitarismo pseudo grillino (la kasta corrottah!1!1!!!) dell’immaginare che all’uccisione di un simbolico re crolli anche il castello ci sembra che manchi (da parte di chi usa il meme in maniera autoassolutoria) la volontà di scomodarsi verso un discorso davvero materialistico, che consideri cioè la catena dello sfruttamento attraverso cui il re ha fatto costruire il castello.

Il capitalismo ha goduto (e gode) dell’appoggio simbolico e materiale di sistemi oppressivi a esso precedenti. Questi sono tra gli altri patriarcato, razzismo, specismo. Non ci sogneremmo mai di dire che il nostro agire personale (aka politico) può essere esente dal tentativo costante di smantellare i sessismi e i razzismi di cui ci nutriamo e le oppressioni sessiste/razziste che esercitiamo o di cui siamo oggetto. Sebbene sappiamo che queste stesse oppressioni sono sistemiche e che sorreggono una complessa costruzione di poteri materiali, economici, ideologici, non ci sentiamo perciò esentat* dalla lotta continua, personale (e a volte per fortuna collettiva) contro le sue manifestazioni. Ecco, non si vede succedere lo stesso quando parliamo invece dello sfruttamento animale, le cui cause e dispositivi sembrano aleggiare in un iperuranio tanto lontano che l’oppressione che continuiamo a (letteralmente) masticare quotidianamente non ha alcun valore nella strategia politica.

Se non vediamo la responsabilità nello scegliere di nutrirsi di un corpo morto (che il capitale si è curato di depurare dalle implicazioni violente e dagli strascichi macabri rendendolo un semplice ‘pezzo di carne’, un prodotto come tanti) allora forse dovremmo davvero abbandonare tutte quelle micro-lotte che ingaggiamo ogni giorno nei confronti della normalizzazione della violenza sia essa patriarcale, razzista, abilista, adultista. O in alternativa potremmo accantonare lo sbeffeggio vegefobico o l’autoassoluzione e ammettere che quel gesto non deve avere necessariamente un peso determinante sull’economia dello sterminio animale mondiale, ma che ha senso innanzitutto perché rifiutiamo che la messa in vita, la messa a lavoro e la macellazione intenzionale e programmata di miliardi di esseri senzienti possa essere parte di un sistema accettabile (accettabile quanto una fetta di prosciutto nel panino).

Note

[1] https://news.mongabay.com/2019/08/satellite-images-from-planet-reveal-devastating-amazon-fires-in-near-real-time/)

[2] Alcuni dati da http://www.fao.org/3/a0701e/a0701e.pdf

Il settore dell’allevamento (diretto e indiretto) copre più del 30% della superficie terrestre, e oltre il 70% di quella coltivabile. Prima causa dell’emissioni climalteranti dei gas serra (18%), più dell’intero settore trasporti. Consumo dell’8% delle risorse idriche mondiali, principalmente per l’irrigazione delle colture destinate all’alimentazione degli animali da macello/produzione. Maggior fattore di inquinamento delle acque, della crezione dele cosiddette ‘zone morte’: suolo reso infertile dallo sversamento delle deiezioni dell’industria dell’allevamento. Nei soli USA l’industria della carne è responsabile del 55% erosione di suolo, 37% dei pesticidi, 50% antibiotici, e un terzo delle emissioni di azoto e fosforo nelle risorse d’acqua dolce.

[3] https://www.all-creatures.org/articles/ar-animals-working-class.pdf pag.19

 

Vegan: stile di consumo o azione politica?

di Marco Reggio
Intervento all’interno del percorso ‘Politicizzazione del dibattito ecologico’ del Borgofuturo Social Camp3

Veganismo ed ecologia
Le condizioni in cui sono costretti a vivere gli animali non umani vengono costantemente nascoste all’interno della società, in particolare all’interno del dibattito ecologico.
Il veganismo, come espressione più immediata della denuncia della violenza sistemica contro gli animali, è invisibilizzato anche all’interno del dibattito ecologico, e soprattutto di quello climatico.
Alcuni dati:
– il 20% delle emissioni di gas serra proviene dall’allevamento
– una parte sostanziale della deforestazione è dovuta alla creazione di aree coltivate a mangimi per l’allevamento intensivo
– la produzione di fertilizzanti sintetici per la coltivazione dei mangimi animali impiega grandi quantitativi di energia fossile (soprattutto CO2)
– L’allevamento produce il 37% del metano e il 65% del protossido di azoto mondiali

Veganismi individuali e veganismi politici
Quando il veganismo è concepito come uno stile di vita l’individuo è considerato primariamente come consumatore, e non come membro della società. Seguendo questo approccio il veganismo è una pratica individuale che mira a migliorare la salute di chi lo pratica, o che permette alle persone di ‘fare la propria parte’ nel contrasto all’inquinamento o alla malnutrizione.
Anche quando ha a che vedere coi diritti animali, non ci si spinge più in là del boicottaggio commerciale. Lo stile di vita vegano si basa sull’idea che lo sfruttamento animale può essere fermato attraverso un’opera di conversione uno-a-uno alla dieta cruelty-free.
Si può però partire dall’assunto per cui la violenza contro gli animali non è il frutto della crudeltà individuale, e quindi non può essere eliminata richiamandosi al buon cuore dei singoli.
Un problema sistemico richiede un intervento sistemico; ecco perché non è più l’azione individuale a essere al centro della questione. Al contrario essa costituisce l’espressione individuale di un posizionamento politico. Posizionamento che può perciò manifestarsi come solidarietà nei confronti degli animali prigionieri, o di quelli che ogni giorno tentano di ribellarsi, o come un’espressione di coerenza con le lotte di liberazione animale.

Veganismo Queer
Come scrive Rasmus R. Simonsen nel suo Manifesto Queer Vegan, “dichiarare il proprio veganismo può pertanto essere accostato al coming out di in-dividui queer. Ad esempio, quando informai i miei genitori che intendevo diventare vegano, mia madre scoppiò in lacrime e disse: ‘Come potrò ancora cucinare per te?!’. Nel mio contesto familiare, il perturbamento non intenzionale causato dalla mia scelta suonò, a dir poco, straniante [queer]: il ruolo di mia madre come nutrice veniva, a suo modo di vedere, messo a repentaglio, e ogni pasto che avrei consumato in famiglia avrebbe sfidato abitudini alimentari antropocentriche. Rifiutando non tanto il cibo animale quanto, peggio ancora, la modalità stessa dello stare insieme che si realizza intorno al desco familiare, sarei diventato un ‘guastafeste’ (killjoy), ‘quello che si mette di traverso nella solidarietà organica’ che si instaura nell’atto di mangiare (Ahmed, 2004, 213). La mia decisione aveva messo in dubbio la funzione della tavola, a cui Ahmed si riferisce come a un ‘oggetto parentale’ (Ivi, 46), al luogo della coesione familiare; il cameratismo, la forza affettiva che mi legava al resto della famiglia non poteva più essere data per scontata. Opponendosi all’uccisione di esseri di altre specie, i vegani possono effettivamente, e ironicamente, trasformarsi negli ‘assassini’ della ‘gioia familiare’ (Ivi, 49). Niente più pasti ‘felici’ insieme. Non solo: dato che in futuro mia madre non avrebbe più potuto continuare a svolgere lo stesso ‘lavoro di servizio’ femminile (Cudworth, 2010, 82) per me e per gli altri componenti della famiglia, la mia scelta metteva in discussione anche l’ordine eterocentrato dello spazio domestico.”

L’assimilazione non è un’opzione
“Invece di continuare a insistere su una presunta ‘norma’ del veganismo, mi preme sottolineare lo straniamento del veganismo, come ciò che, per citare Edelman, ‘stride contro la normalizzazione’ (2004, 6), problematizzando il ‘privilegio dell’eteronormatività’ che è, al tempo stesso, il privilegio dell’antroponormatività come ‘principio organizzatore delle relazioni comunitarie’ (Ivi, 2). Diventare vegan* significa allora diventare queer in tutta la sua ‘spregevole differenza’ (Ivi, 26). Se davvero vogliamo lanciare una sfida potente ed efficace al sistema che sta alla base dello sfruttamento animale è fondamentale esaminare ed esplicitare tutto l’insieme dei discorsi che lo costituiscono e comprendere che è necessario abbandonare l’idea secondo cui il veganismo possa entrare a far parte della prassi dominante senza essere ‘accolto’ all’interno di un progetto di normalizzazione. Dovremmo pertanto evitare di riferirci al veganismo come a uno stile di vita, dal momento che esso condivide l’etica queer ‘senza speranza’ proposta da Edelman ed entrambe queste posizioni si oppongono alla perpetuazione e alla riproduzione dell’ordine sociale antropo/eteronormativo.”

Vegefilia/vegefobia
La reazione rispetto al veganismo è duplice: da un lato il sistema tende a includerlo, assimilandolo come opzione di consumo, dall’altro mostra insofferenza e tende all’esclusione attraverso discriminazioni delle persone vegane.
La vegefobia, come altre espressioni che utilizzano il suffisso -fobia, è il rifiuto di un comportamento che porta con sé un contenuto politico. La vegefobia riguarda tanto il rifiuto del vegetarianismo per i diritti animali quanto la discriminazione verso le persone vegetariane. Sentimenti come la paura, il disprezzo e perfino l’odio possono far parte di questa discriminazione.
Se i vegetariani subiscono rifiuto è perché il loro agire mette in discussione il consumo di carne animale, anche senza bisogno di verbalizzare la propria opinione. Non consumare carne è un modo di mettere in discussione la dominazione umana, e questo interrogare i privilegi dominanti può portare a reazioni violente nei confronti delle persone vegetariane.
La vegefobia quindi non è semplicemente l’ostilità verso il vegetarianismo come stile di vita ma riguarda il fatto che quest’attitudine interroga l’idea della dominazione umana, rimandando quindi all’antispecismo.
La compresenza di assimilazione ed esclusione può sembrare schizofrenica ma non lo è. In effetti questo binarismo è un fenomeno classico delle modalità con cui il capitalismo tratta le forme di dissenso. Se guardiamo più da vicino ci accorgiamo che l’inclusione è in realtà una forma di inclusione condizionale: il veganismo è accettato se non disturba, se non sfida l’antropocentrismo, se non mette in dubbio l’attuale sistema di produzione e se non mostra solidarietà con altre lotte.

Perché alcuni tipi di veganismo sono ostracizzati o nascosti?
Ecco alcune risposte non-definitive:
– Le rivendicazioni per la liberazione animale o per i diritti radicali degli animali sono più difficili da portare avanti rispetto ad alcune correzioni legate all’impatto ecologico dello stile di vita occidentale
– questi veganismi interrogano il rapporto tra le specie, che è qualcosa di molto più profondamente radicato nel nostro immaginario collettivo rispetto a, per esempio, l’utilizzo di combustibili fossili o della plastica.
– questi veganismi sono connessi a un sistema, la norma sacrificale, che è necessario per mantenere l’ordine sociale capitalistico, e che costituisce lo schema fondamentale per altri sistemi (esempio emblematico è il modo in cui l’animalizzazione venga usata nelle politiche neocoloniali degli stati occidentali)

La Norma Sacrificale
Secondo la definizione di Federico Zappino la norma sacrificale è un processo di ‘naturalizzazione dell’uccisione di vite non-umane che assurge a produttrice di soggettività, desideri, relazioni e altre norme’.
La norma sacrificale produce due tipi di soggetti (umano/animale): soggetti sacrificabili (macellabili, ad esempio) e soggetti che non possono essere sacrificati. È grazie a questa norma che la precarietà e la vulnerabilità degli umani e dei non-umani è trattata in maniera diversa: la minor precarietà dell’umano rispetto all’animale è dovuta al fatto che il primo la attenua sulla base delle tecnologie e degli abusi di potere che servono a massimizzare quella del secondo.
La norma sacrificale, come altri dispositivi di oppressione (per esempio la norma eterosessuale), è pre-esistente al capitalismo, in senso storico e logico. Il modo di produzione capitalistico è caratterizzato precisamente dall’abilità di utilizzare sistemi che lo precedono a suo vantaggio. Inoltre, da un punto di vista strettamente materiale, non dobbiamo dimenticare che il modo di produzione capitalistico si basa sullo sfruttamento dei corpi animali e delle loro capacità riproduttive (non è una coincidenza che la parola capitalismo derivi dal latino ‘caput’, capo di bestiame).

È possibile un capitalismo vegano?
Se pensiamo al veganismo come uno stile di vita, la risposta è sì: le aziende multinazionali possono espandere i loro profitti soddisfacendo un nuovo settore commerciale.
Se pensiamo al veganismo come espressione della solidarietà intraspecie (o come una sfida politica alla strategia di predazione e distruzione del pianeta) è difficile pensare a un capitalismo che possa mai essere antispecista.
Ovviamente c’è una radicale differenza di visione tra la prospettiva ecologica (anche radicale) e quella dei diritti animali. Nel primo caso gli animali non sono pienamente soggetti, e quindi i rischi dell’allevamento intensivo possono essere corretti, anche drasticamente, ma senza rinunciare del tutto allo sfruttamento. Nel secondo caso è invece impossibile non esigere la totale abolizione dello sfruttamento.
Ad ogni modo, anche i movimenti ecologici di ispirazione umanista/antropocentrica dovrebbero seriamente considerare se l’esortazione a ridurre il consumo di carne sia una strategia realistica. Considerando quest’esortazione alla luce della norma sacrificale o suprematismo di specie, potremmo guardare al dibattito sull’uso di corpi animali come una questione binaria: o gli animali vengono mangiati, o non vengono mangiati. In questa prospettiva capiamo perché gli inviti alla riduzione del consumo di carne spesso non producono grandi effetti, anzi servono come scusa per continuare a supportare l’attuale sistema di produzione.

Veganismo e giustizia ambientale
Quale può essere il contributo fondamentale delle lotte per la liberazione animale alla giustizia ambientale (considerata come un’istanza politica, o come una questione da ri-politicizzare)?
Il movimento per la liberazione animale, anche attraverso un veganismo critico, può rendere evidente l’effetto che uno dei pilastri dell’economia globale (lo specismo) ha sulla distruzione del pianeta, tanto da un punto di vista simbolico quanto materiale. Ecco perché il suo contributo è essenziale per radicalizzare le richieste di giustizia ambientale.

Comunicato dall’accampamento del macromattatoio di Binéfar (lunedì 22 luglio)

Abbiamo due comunicazioni importanti dall’assemblea:
1. Stanno già entrando camion pieni di maiali vivi che stanno assassinando nel macromattatoio. Sono ancora nel periodo di prova dell’impianto, ma manca poco all’apertura.
2. In questo momento siamo 8 persone nell’accampamento. Se non formiamo immediatamente un gruppo significativamente più grande non potremo mantenere l’accampamento, il luogo è troppo ostile per così poche persone. Ieri mentre documentavamo l’esterno del macromattatoio siamo state intimidate dalla sicurezza di Pini, che ci ha seguito in auto riprendendoci. Se fossimo di più potremmo far fronte a questa situazione di logoramento, ma in 8 siamo più vulnerabili.
Non insisteremo sull’importanza del mantenimento dell’accampamento e del mobilizzarsi come attiviste. Siamo impegnate nella lotta contro il mattatoio più grande d’Europa, ma se non vediamo risposta da parte del movimento per la liberazione animale ci vedremo costrette a smantellare in maniera definitiva l’accampamento.
Ad ogni modo ringraziamo tutte quelle persone che ci appoggiano e vorrebbero essere qui ma non possono a causa delle circostanze.
Pertanto se nei prossimi giorni non vedremo presenza di attiviste a Binéfar l’accampamento chiuderà.

Fonte: https://www.facebook.com/StopMacromataderodeBinefar/?_fb_noscript=1

Il presidio permanente a Huesca contro l’apertura del più grande mattatoio d’Europa

di Concha Lòpez

Presto, se nulla lo impedirà, entrerà in funzionamento a Binéfar (Huesca) il più grande mattatoio d’Europa, che avrà la capacità di uccidere 32.000 maiali al giorno. Uno dopo l’altro, entrando vivi, impauriti, cercando di proteggersi a vicenda, annusando il sangue, percependo la morte, incapaci di scappare, urlando disperatamente. Uno dopo l’altro fino a 32.000 al giorno. Quasi otto milioni all’anno. Una fabbrica di morte. La più grande in Europa. Alcuni diranno che sarà un orgoglio per Binéfar, per Huesca, per la Spagna.

A Huesca lo sfruttamento degli animali è in piena espansione. Il bestiame è diventato un mezzo per riempire la Spagna svuotata, sebbene sia piena di sofferenza, dolore, pestilenza, contaminazione. Perché quella discarica non sarà solo il sito di un autentico olocausto animale, ma sarà anche al centro di un degrado ambientale come pochi altri. Secondo il rapporto tecnico registrato nel municipio di Binéfar, questo macro-mattatoio emetterà 126 tonnellate di CO2 ogni giorno, l’equivalente di quello assorbito da 6.500 alberi all’anno e 1,3 milioni di metri cubi di rifiuti inquinanti ogni anno. Nella parte posteriore del macro-mattatoio c’è un grande serbatoio intorno a cui si può camminare. Quando inizierà a funzionare, il macro-mattatoio sarà l’equivalente di due piscine olimpioniche, 5.000 metri cubi di acqua ogni giorno, 60 litri al secondo.

Mentre l’ONU mette in guardia contro l’impatto dell’allevamento da bestiame sul riscaldamento globale e le purine delle fattorie si rivelano come un potente veleno contro l’ambiente, Binéfar è pronto a ospitare l’orrore.

Nel territorio circostante abbondano edifici industriali che sorgono in mezzo al nulla. Sembrano asettici in lontananza. Alcuni più piccoli, altri enormi. Dentro, migliaia, decine di migliaia di animali stipati, nati, malati, morenti, partoriscono. Sofferenza. Sono le fattorie che forniranno al macro-mattatoio la sua materia prima essenziale: i corpi di quegli animali. Il traffico di camion che trasporta quei corpi ancora vivi alla loro destinazione crudele è costante nella zona. Quando aprirà la megaindustria aumenterà considerevolmente.

Il responsabile di questo progetto è Piero Pini, un uomo d’affari italiano che è stato collegato alla mafia e che è stato recentemente incarcerato in Ungheria per frode fiscale. In precedenza era stato arrestato in Polonia con l’accusa di una presunta truffa che presenta elementi simili a quelli previsti a Binéfar, dicono gli attivisti. Secondo la stampa italiana, il macello dell’imprenditore nella Polonia centrale copriva una rete di dozzine di aziende dedicate alle attività criminali.

A Binéfar c’è già un altro macello, molto più piccolo di quello progettato, e già i suoi effetti fanno sì che molti vicini si oppongano a questo nuovo progetto. La città puzza di urina, feci, malattie e sporcizia, dicono. In estate è insopportabile, devi chiudere le finestre e accendere l’aria condizionata. Alcuni anni fa potevi vedere sangue e budella nelle fogne della città. In alcuni momenti di pausa del giorno il silenzio permette di sentire le urla dei maiali. Le prime vittime del nuovo macro-mattatoio, a soli due chilometri dal centro urbano, saranno le sue decine di migliaia di animali uccisi al giorno, ma anche i vicini ne pagheranno il prezzo. Lo stanno già pagando. Il degrado ambientale può essere irreparabile.

L’annuncio dell’apertura di questo macro-mattatoio e le informazioni sull’opacità e le possibili irregolarità che circondano quel progetto hanno portato a Binéfar da tutta la Spagna diversx attivistx della liberazione animale, che hanno allestito un campo antispecista permanente in un parco pubblico proprio di fronte a quell’inferno e hanno coordinato le mobilitazioni in diversi luoghi per informare su ciò che accadrà nella città di Huesca.

Si sentono, come fattorie, in mezzo al nulla, in un paesaggio dove non c’è riparo dalle intemperie del tempo. Il sole, il caldo, la pioggia o il freddo sono implacabili e le uniche protezioni sono i teloni e le tende dove si rifugiano ogni giorno, dove ricevono il sostegno di alcuni e anche gli attacchi di altri.

Circondatx da abusi e schiavitù, affermano questx attivistx, ha senso difendere la liberazione degli animali giorno dopo giorno, renderla visibile e farla volare davanti ai camion che quotidianamente attraversano queste strade piene di terrore verso la morte. Tra la strada e i binari del treno, ogni volta che passa un convoglio, esibiscono striscioni, intonano cori di protesta.

Dal campo è si è dispiegato un attivismo di sensibilizzazione nella città, con distribuzione di opuscoli, “frammenti di verità” in cui scoprire cosa si troverà all’interno del macello, degustazioni di cibo vegano e discussioni con i vicini interessati a saperne di più riguardo a quella forma di lotta che è il veganismo.

Due settimane dopo aver piantato il campo, lx attivistx hanno manifestato contro il macro-mattatoio per le strade della città. Il 5 marzo, il collettivo Vegancha ha organizzato una giornata con conferenze e workshop a cui hanno partecipato più di quaranta persone. Poi hanno interrotto i lavori di costruzione del macro-mattatoio per reclamarne l’interruzione.

Durante questo periodo moltx attivistx di diverse parti dello stato sono passatx attraverso il campo, incluse persone provenienti da altre parti d’Europa che hanno conosciuto la protesta dai social network. Quellx che rimangono lì apprezzano in modo permanente l’opportunità di condividere la lotta e tessere reti di attivismo, unendo la lotta antispecista.

Il 25 maggio diversi gruppi antispecisti e attivistx arrivati da Madrid, Barcellona, Huesca, Iruña, Malaga, Valladolid, Girona, Teruel, Lleida, Valencia, Gasteiz e villaggi vicino a Binéfar si sono concentratx in una marcia chiamata sui social network e conclusa alle porte del macro-mattatoio, dove hanno letto un manifesto che espone le ragioni contro la sua apertura e contro lo sfruttamento di altri animali.

Negli ultimi giorni, un ordine di sfratto che non è stato ancora eseguito pesa sul campo. Dubitano che possa essere eseguito, a parte lo smantellamento delle tende e dei teloni, perché il terreno su cui sono state installate è un parco pubblico. Ma la minaccia è lì. E se se ne vanno, lamentano, nessuno informerà su cosa diavolo sta succedendo.

Lx attivistx assicurano che i lavori proseguono e il macro-mattatoio si aprirà a breve se nulla lo impediràe. In effetti, c’è chi dice che nella seconda metà di questo mese inizieranno “i test con gli animali”. Per questo motivo, chiedono mobilitazione, non solo animalista ma anche ambientalista, per concentrarsi su Binéfar affinché questa grande fabbrica di orrore e sofferenza non possa mai aprire le sue porte. In effetti, si riscontra tristemente con una certa sorpresa come le più potenti organizzazioni per i diritti degli animali e in difesa dell’ambiente abbiano appena alzato la voce contro questo macro-mattatoio, anche se alcune di loro sono in una lotta frontale contro i grandi allevamenti, l’altra faccia della stessa moneta.

Deve essere una lotta globale, insistono, e con essa vogliono anche contribuire a un dibattito che considerano urgente su come gli umani vogliono rapportarsi agli altri animali, alla vita che ci circonda.

Fonte: https://www.eldiario.es/caballodenietzsche/Campamento-Huesca-matadero-grande-Europa_6_907169299.html

What the Health

What the Health è un documentario (o come si dice più precisamente, un docu-film) del 2017 scritto e prodotto da Kip Andersen e Keegan Kuhn, gli stessi autori del fortunato Cowspiracy. Se la prima opera si soffermava sul disastroso inquinamento provocato su scala globale dagli allevamenti animali, What the Healt prosegue idealmente questa ricerca analizzando i danni provocati alla salute dal consumo di carne, uova e latticini. Il metodo narrativo e d’indagine usato da Kip Andersen durante le scene del documentario è lo stesso di Cowspiracy: il protagonista si interroga all’inizio in maniera generica su quali siano le cause di malattie molto diffuse (soprattutto negli USA) come il diabete e quali siano gli alimenti maggiormente cancerogeni assunti quotidianamente nella dieta dell’americano medio. I risultati di questa ricerca smentiscono i principali luoghi comuni sull’alimentazione, ad esempio sul ruolo principale giocato dagli zuccheri riguardo il diabete, e portano Kip Andersen a cominciare un giro di telefonate e richieste di incontro con diverse organizzazioni che tutelano la salute dei consumatori, dalle fondazioni contro il diabete a quelle per la ricerca sul cancro. Proprio come in Cowspiracy, l’effetto di semplici richieste di incontro è spiazzante e a tratti esilarante: i responsabili di organizzazioni che tutelano i consumatori si rifiutano di parlare di alimentazione, di rispondere a domande sugli effetti cancerogeni della carne (Andersen cita sempre la fonte di queste ricerche, spesso provenienti da organismi internazionali ampiamente riconosciuti) e svicolano in maniera goffa e a volte anche aggressiva. Il perché di questo rifiuto di confrontarsi è presto svelato: i produttori delle sostanze indicate come rischiose per la salute sono gli stessi che finanziano lautamente le organizzazioni a tutela della salute. Per cui, nonostante i derivati della carne, latticini e uova siano sconsigliati soprattutto per chi ha determinate malattie, nella dieta proposta sui siti web di queste organizzazioni li troveremo indicati senza problemi. Facile fare due più due e capire il nesso. L’industria degli allevamenti animali, come spiegato bene in Cowspiracy, è un gigante del sistema produttivo americano e mondiale e finanzia a pioggia le ONG e gli stessi governi, per cui è difficile (è proprio il caso di dire) sputare nel piatto in cui si mangia. Fatta questa prima parte di decostruzione e denuncia, What the Health prosegue nella proposta di un’alternativa radicale a questo sistema, perorando la sostituzione della dieta onnivora con quella vegana. Vari medici, consumatori e attivisti vengono dunque intervistati per spiegare i benefici che comporta l’assunzione di soli prodotti vegetali. Anche qui vengono smascherati un bel po’ di luoghi comuni, come quello della mancanza di proteine nella dieta vegana: le proteine, si spiega nel documentario, sono tutte di origine vegetale, mentre quelle provenienti dagli animali lo sono solo in seconda battuta perché filtrate da quelle assunte ed elaborate dal loro organismo. Il docu-film (finanziato dal basso attraverso le donazioni sulla piattaforma indiegogo) ha avuto una buona diffusione online su Vimeo e Netflix, ma è stato oggetto anche di critiche e accuse di anti-scientificità e cospirazionismo. Non si capisce però perché gran parte delle istituzioni contattate da Andersen si siano completamente sottratte al confronto che, pur mediato dal punto di vista dell’autore, sarebbe stato comunque interessante conoscere. Non si può certo farne una colpa al regista se i responsabili della comunicazione di questi enti (governativi e non) sono scappati a gambe levate di fronte a semplici dati provenienti da rapporti delle Nazioni Unite. Così, per quanto riguarda un’altra accusa fatta al lavoro di Andersen, ovvero quella di aver costruito un prodotto confezionato per propagandare un’idea partigiana e settaria (che sarebbe quella della promozione di una dieta vegana) bisognerebbe pure ammettere da parte onnivora che il documentario espone un punto di vista senza scadere nel sensazionalismo o portando dati taroccati e controversi. What the Healt ha infatti il pregio di essere un’opera caratterizzata da un tono leggero e a tratti divertente, che rovescia uno dei principali pregiudizi anti-vegani: il concetto di buon senso auto-proclamato da parte onnivora resta difficilmente in piedi quando si mettono a confronto gli effetti delle due diete, con la grandissima differenza che emerge non solo da un punto di vista etico ma anche ecologista e di tutela della salute. Alla fine della visione del documentario resta dunque allo spettatore il benefico dubbio su cosa sia effettivamente questo cosiddetto buon senso ispirato dalla moderazione e dove sia il vero estremismo.

Lino Caetani

Specismo e abilismo

L’alpaca Domino

Di pattrice jones

tradotto da: http://blog.bravebirds.org/archives/3225

Le persone che si preoccupano di giustificare il loro presunto diritto di sfruttare, rinchiudere nelle gabbie, uccidere e controllare la riproduzione di animali non umani di solito hanno un numero limitato di argomenti. Tra quelli più comuni c’è l’idea che solo gli umani abbiano delle capacità particolari e che questa superiorità nelle varie abilità autorizzi le persone a fare qualsiasi cosa vogliano agli animali non umani. Come ho sentito dire una volta dall’attivista per i diritti dei disabili Mary Fantaske: “Non è solo come l’abilismo; questo è l’abilismo.”

La coscienza, il senso dell’io, l’uso di strumenti, il linguaggio…tutte queste cose sono state presentate come abilità che dimostrano la superiorità umana e giustificano l’egemonia umana. Lasciamo da parte per un momento il fatto che molti animali non umani hanno, in realtà, le capacità che si dice siano una peculiarità dei soli umani (i corvi e le scimmie creano utensili, elefanti e ghiandaie esibiscono un senso dell’io, gli uccelli e le api comunicano tramite complesse coniugazioni di segnali, e persino gli uccelli, per non parlare di tutti i mammiferi, condividono con noi l’architettura cerebrale di base responsabile della coscienza). Abbiamo anche messo da parte il fatto che molti animali hanno abilità che non possediamo. Concentriamoci invece sulla logica dell’argomentazione: abbiamo l’abilità X, quindi siamo superiori e possiamo fare ciò che ci piace a coloro che non hanno questa capacità.

Questo è davvero un modo pericoloso di pensare. Le persone con disabilità sono state rinchiuse a vita, sterilizzate contro la loro volontà, usate come cavie senza consenso, costrette a lavorare senza stipendio, private dei diritti civili e sottoposte a molte altre dolorose vessazioni dovute a questo modo di pensare. Per fare solo un esempio, la nozione che la lingua dei segni non fosse realmente un linguaggio e che quindi i non udenti fossero subumani condusse direttamente alla disgregazione delle famiglie sorde, alla sterilizzazione forzata dei sordi, all’incarcerazione e all’asservimento dei giovani sordi, e molti altri abusi che sconvolgono la coscienza di chi apprende questa storia per la prima volta (se non conosci questa storia, o la storia della resistenza sorda a quella oppressione, ti suggerisco di iniziare con l’antologia Deaf World a cura di Lois Bragg.)

Questo esempio non solo illustra l’abilismo intrinseco nella difesa della supremazia umana basata sul concetto di capacità, ma evidenzia anche il rischio di definire “l’umano” per mezzo di una particolare abilità. Questo ci porta alla capacità più comunemente rivendicata come la ragione della superiorità e della supremazia umana: la razionalità.

Homo Sapiens significa letteralmente “uomo saggio” con i sapiens destinati a distinguersi da membri presumibilmente meno intelligenti del genere homo. A parte l’arroganza di pensare a noi stessi come i più intelligenti di tutti, questa definizione concentra la capacità cognitiva come la definizione stessa dell’umanità.

Nel proporre questo nome per la nostra specie, Carl Linnaeus si rifece ad Aristotele, che aveva chiamato “uomo” (intendendo con uomo il maschio) “l’animale razionale”. Le ecofemministe hanno da tempo identificato l’elevazione della ragione sull’emozione come uno dei fattori in una visione del mondo che eleva i maschi e l’umanità sulle donne e sulla natura; allo stesso modo, alcuni teorici critici della razza hanno dimostrato come la bianchezza sia incorporata nelle concezioni moderne dell’umano. A livello quotidiano, gli uomini sessisti spesso si presumono più razionali e meno emotivi delle donne, che sono anche disumanizzate in altri modi; i bianchi razzisti sostengono di essere intrinsecamente più intelligenti delle persone di colore, che sono anche disumanizzate in altri modi. E così, questa definizione di “umano” per mezzo della presunta superiorità delle nostre capacità cognitive non solo facilita la subordinazione degli animali e la discriminazione delle persone con disabilità, ma è un aspetto di presunte “altre” forme di oppressione come il razzismo e il sessismo.

Come discuterò a fondo nel mio prossimo libro, provvisoriamente intitolato “Human Error”, lo specismo non solo distorce il nostro punto di vista sugli animali non umani ma distorce anche il senso di noi stessi, in modi che possono rendere difficile per noi risolvere problemi come il cambiamento climatico e la violenza delle armi. Qualsiasi vegano che si è trovato in discussioni senza fine con mangiatori di carne che non si danno pace, indipendentemente da quante volte gli abbiate fatto notare le loro incoerenze logiche, è incappato nell’errore specista della “razionalità umana”. Se vogliamo veramente minare la supremazia umana, dovremo lavorare all’interno di un modello più realistico di ciò che motiva il comportamento umano, e ciò richiederà un ripensamento di ciò che intendiamo per “umano”. Nel frattempo, ecco alcune fonti di maggiori informazioni e idee sui legami tra l’abilismo e lo specismo:

-“The Oxen at the Intersection” di pattrice jones – Questo libro sulla lotta infruttuosa per salvare due buoi dopo che uno di loro è diventato disabile include un capitolo intitolato “Riti di disabilità” all’interno di una sezione più ampia intitolata “Intersezioni pericolose” ed è destinato ad essere un caso di studio di come pensare ecologicamente alla difesa degli animali.
-“Beasts of Burden” di Sunaura Taylor – Libro di memorie e parte di un’indagine accademica, questo libro di un’artista e attivista disabile sfida sia gli attivisti per i diritti degli animali che gli attivisti per i diritti dei disabili a lottare.

-Mary Fantaske in “Intersections Between Ableism & Speciesism (video) – Questa breve presentazione della conferenza del 2013 sui diritti umani di “Animal Rights” in “Guelph 2013” copre diverse idee chiave.

– “Aphroism” di Aph Ko e Syl Ko – Questa raccolta di post di blog di due neri vegani non affronta direttamente la disabilità, ma fornisce un’introduzione accessibile alle sfide antirazziste al concetto di umano.

Ma, un attimo, ho ancora una cosa da dire, o piuttosto da rivelare. Nel corso della discussione, ho parlato di Domino, un alpaca neuro-atipico la cui disabilità sembra essere correlata alla sua capacità di estendere l’amicizia e di prendersi cura dei residenti di altre specie, in particolare un maiale precedentemente chiamato Val e una giovane pecora traumatizzata chiamata Shadow.

Non è l’unico membro neuro-divergente della nostra comunità multi-specie. Ci sono anche io. Come ho detto durante l’evento, la co-fondatrice di “Vine” Miriam Jones e io ci siamo incontrate nel contesto di una lotta per i diritti dei disabili. Il nostro personale retribuito e i volontari principali includono molte persone con disabilità. Negli ultimi anni, ci siamo impegnate a identificarci come un’organizzazione guidata da LGBTQ, eppure non siamo state così entusiaste di essere un santuario degli animali gestito in parte da persone con disabilità. Perché? Potrebbe essere perché la maggior parte delle nostre disabilità non è nel regno della mobilità, ma piuttosto nel regno presumibilmente irrazionale della psiche?

Io posso parlare solo per me stessa. Non sono solo neuro-atipica, ma ho anche una significativa diagnosi di salute mentale e problemi persistenti con la memoria, probabilmente radicati nella lesione cerebrale traumatica precoce. Mi preoccupo anche mentre scrivo questo che rivelare queste cose mi porterà a essere stereotipata in modo da inibire la mia capacità di essere un difensore efficace per gli animali. Ma penso che andrò avanti e farò “coming out” perché abbiamo davvero bisogno di sfidare le idee abiliste costruite nello specismo, partendo dall’errore che gli umani “normali” sono principalmente animali razionali.

 

Sessismo e specismo: quale connessione?

Tratto da http://vine.bravebirds.org

Il farmaco Premarin è fatto con l’urina di cavalle in gravidanza. Le fattrici vengono crudelmente
confinate e sottoposte a procedure invasive durante la gravidanza solo per vedersi sottrarre i puledri subito dopo la nascita. Questa perversione dei cicli riproduttivi delle cavalle produce un
farmaco dannoso che viene commercializzato alle donne per convincerle che i loro naturali cicli
riproduttivi sono segni di malattia. Commercializzato come una cura per la menopausa, Premarin fa male sia alle cavalle che alle donne per fornire profitti ad una società farmaceutica.
Questa intersezione tra l’oppressione delle donne e l’oppressione degli animali non è unica. Le donne e gli animali, insieme alla terra e ai bambini, sono stati storicamente considerati proprietà dei capi delle famiglie. Il patriarcato (il controllo maschile della vita politica e familiare) e il pastoralismo (il modo di vivere degli animali) sono comparsi sul palcoscenico storico insieme e non possono essere separati, perché sono giustificati e perpetuati dalle stesse ideologie e pratiche.
Sia le donne che gli animali sono stati storicamente considerati meno intelligenti e più vicini alla natura degli uomini. Tattiche come l’oggettivazione, il mettere in ridicolo e il controllo della riproduzione sono state e continuano ad essere utilizzate per controllare e sfruttare sia le donne che gli animali. Ecco alcuni dei sintomi attuali dell’intersezione malata tra lo specismo e il sessismo:

Latte
Il latte può essere definito come lo sfruttamento delle capacità riproduttive della mucca per
produrre profitti per l’industria lattiero-casearia. Le mucche sono forzatamente e ripetutamente
ingravidate in modo che i loro corpi producano il latte destinato a sostenere i vitelli. La gente poi ruba sia il latte che i vitelli. Le mucche soffrono di disturbi fisici dolorosi, come la mastite, nonché
dell’angoscia di vedersi strappare i propri figli e la propria libertà. Nel contempo il latte e i suoi
prodotti sono responsabili di una malsana accelerazione nella comparsa delle mestruazioni nelle
ragazze e sono anche correlati con il cancro al seno nelle donne.
Così le ghiandole mammarie delle mucche vengono sfruttate per produrre un prodotto che danneggia le ghiandole mammarie delle donne.

Stupro
Una donna su tre è aggredita sessualmente nella sua vita — una su quattro prima dei 18 anni. Gli
esperti concordano sul fatto che lo stupro riguarda il potere, non il sesso. Lo stupro mette in atto l’idea che le donne e i bambini sono oggetti che possono essere usati per piacere senza riguardo per i loro desideri o esperienze soggettive. Lo stesso atteggiamento è alla base di una serie di pratiche abusive nei confronti degli animali, che vanno dai circhi all’allevamento industriale. Anche gli animali vengono violentati, a volte per il piacere del maschio umano stupratore ma più spesso per controllare la loro riproduzione in modo che le imprese possano avere il piacere del profitto.

Combattimenti tra galli
Gli stereotipi sessuali e di genere danneggiano sia gli animali umani che non umani. Nel
combattimento tra galli, il comportamento naturale dei galli (che combatteranno fino alla morte per
proteggere il gregge dai predatori) viene pervertito in modo tale da costringerli a recitare le idee umane sulla mascolinità. Gli uccelli sono traumatizzati e sistematicamente messi in pericolo in modo che i loro padroni possano sentirsi dei grandi uomini. Muoiono in maschere stilizzate di mascolinità che non hanno nulla a che fare con il comportamento naturale degli uccelli ma solo con tutto ciò che è utile a rafforzare le idee umane sul genere. Nel frattempo anche i ragazzi umani vengono traumatizzati perconformarsi alle idee comuni della mascolinità. Coloro che non lo fanno potrebbero subire abusi verbali o fisici di natura omofobica fino ad arrivare anche alla morte.

La Violenza Domestica
La violenza domestica è un modo in cui gli uomini mantengono il controllo delle donne, dei bambini e degli animali nelle loro famiglie. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha identificato la violenza domestica contro le donne come un’emergenza sanitaria globale di prim’ordine. Qui negli Stati Uniti, la violenza da parte del partner è la ragione principale per cui le donne arrivano al pronto soccorso e almeno due donne incinte su dieci vengono picchiate dai loro partner maschi. Molto spesso, la violenza domestica comprende l’abuso di animali da compagnia come un modo per spaventare, traumatizzare, o controllare le donne. Molte donne rimangono in famiglie pericolose perché i ricoveri per le donne maltrattate non accettano gli animali e temono ciò che accadrà ai loro compagni animali se li lasciano soli con l’aggressore. Nessuno sa quanti animali da compagnia sono stati uccisi da abusanti domestici o quante donne sono morte perché sono rimaste per proteggere un animale da compagnia.

Uova
Qualcuno di noi può immaginare la vita di galline allevate in batteria — uccelli! — ammassati nelle
gabbie senza abbastanza spazio per allargare le loro ali o sdraiarsi comodamente… incapaci di
nidificare o di trascorrere del tempo con i galli o deporre le loro uova in privato… con le punte dei loro becchi bruciate in modo che non si becchino a morte per frustrazione e sofferenza? E perché? Perché le aziende possano trarre profitto dai frutti dei loro sistemi riproduttivi: le loro preziose uova. Il controllo della riproduzione è uno dei fondamenti dello specismo e del sessismo. In effetti, proprio come le galline sono oppresse in particolare per poter sfruttare i loro organi riproduttivi, sono in molti a credere che il punto d’origine del patriarcato sia stato il controllo dei sistemi riproduttivi delle donne.

Turismo Sessuale
A nessuno piace parlarne, ma è vero. Ora, in molti paesi poveri, e anche qui negli Stati Uniti, le donne e i bambini sono letteralmente ridott* in schiavitù dall’industria del sesso. I clienti – gli uomini che impongono consapevolmente sesso a ragazze, ragazzi e donne che non sono liberi di rifiutarsi- uomini che a volte viaggiano in altre città o paesi stranieri solo per poterlo fare così – sono quasi esclusivamente provenienti dagli Stati Uniti e da altri paesi ricchi. Rinchius* e violentat* ogni giorno, queste donne e questi bambini subiscono traumi fisici ed emotivi indicibili. Come le galline nelle fabbriche di uova, molt* vengono uccis* quando i loro corpi sono diventati così esausti a causa degli abusi che non è più redditizio sostenerli.

Uno dei principi fondamentali del movimento di liberazione animale è che non c’è differenza morale tra umani e animali non umani. Se qualcosa non dovrebbe essere fatto agli umani, non dovrebbe essere fatto agli animali. E viceversa. Se prendiamo seriamente la liberazione animale, allora dobbiamo lavorare per la liberazione di tutti gli animali, umani e non umani. Se prendiamo seriamente il femminismo, allora dobbiamo evitare lo specismo proprio come evitiamo il sessismo.