Monthly Archives: June 2018

La storia di Edmondo Peluso, dalla rivoluzione al gulag

Krasnojarsk, Siberia, 19 febbraio 1942. Un colpo di pistola alla tempia pone fine alla vita di Edmondo Peluso, rivoluzionario nato a Napoli nel 1882, uno dei fondatori del Pci, libertario e giramondo. Nel libro di Didi Gnocchi “Odissea rossa. Storia di un fondatore del Pci” viene ricostruita la vita avventurosa di Peluso: compagno degli spartachisti in Germania nel 1918, delegato a Mosca assieme a Bordiga nel IV Congresso dell’Internazionale, poi corrispondente per l’Unità e quindi trasferitosi in URSS, dove viene infine arrestato nel mezzo delle purghe staliniane del 1938. Gli interrogatori fatti dalla polizia russa a Peluso ricalcano quelli rivolti ai grandi dirigenti sovietici travolti dalla furia di Stalin: come Zinov’ev e Kamenev, Peluso è indotto in tutti i modi a confessare i propri crimini di spia o di contro-rivoluzionario, sacrificando sull’altare dell’edificazione del socialismo la propria dignità di uomo e la verità dei fatti. Dopo un’iniziale confessione estorta al rivoluzionario napoletano dagli inquisitori della Nkvd, però, Peluso riprende in mano con grande coraggio il filo della sua coerenza di militante e decide di reagire alle torture psicologiche della polizia, iniziando un percorso sempre più duro di carcere e deportazione che lo condurrà alla fine ad essere ucciso nel gulag siberiano di Krasnojarsk. Nel libro di Gnocchi (un testo tanto poco conosciuto quanto prezioso) si ipotizza che lo stesso Palmiro Togliatti sia intervenuto inviando ai vertici di Mosca una lettera in difesa del suo connazionale e compagno di partito, cercando in questo modo di salvargli la vita: un tentativo, quello che avrebbe fatto il “Migliore”, piuttosto inconsueto, vista la quantità di comunisti e rivoluzionari che venivano condotti al patibolo senza che i vertici del Pci volessero o potessero fare nulla. La richiesta di clemenza di Togliatti, comunque sia, viene ignorata e Peluso viene condannato in qualità di “contro-rivoluzionario”, salvo poi essere “riabilitato”, secondo il costume sovietico dell’epoca, solo nel 1956 nella fase della destalinizzazione promossa da Kruscev: non più spia del fascismo e nemico del popolo, alla memoria di Peluso viene concessa una postuma e sicuramente molto parziale giustizia. La figura del militante comunista resta comunque poco conosciuta nel suo paese di origine, per cui è interessante leggere alcune sue parole attribuitegli dai suoi carcerieri in Siberia. Rinchiuso nel gulag staliniano, secondo un dossier ritrovato negli archivi di Mosca dopo la caduta dell’Urss, nel giugno del 1941 Peluso pronuncia queste parole ad un suo compagno di detenzione:

«Io che sono stato fino a poco tempo fa nemico del fascismo, non desidero più essere cittadino dell’Urss. Non mi rimane più niente da fare in Urss. Il cosiddetto comunismo e socialismo di Stalin boicottano tutti i partiti socialisti e i partiti comunisti, una volta fratelli. In Urss non c’è alcun socialismo, ma esistono degli esperimenti folli, che sbalordiscono tutto il mondo, su un popolo che ha perso il buon senso. Questo non appare vicino nel suo risultato finale al socialismo, bensì ad un rozzo dispotismo, che può fiorire soltanto nelle condizioni della dittatura più crudele. In una situazione imperialistica come noi oggi possiamo osservare, il socialismo, questo bellissimo e seducente fenomeno politico, che da migliaia di anni vive nei sogni più rosei dell’umanità, è presentato al mondo nel modo più deturpato dai dirigenti del partito dell’Urss. Il popolo sovietico è circondato da un mare di lacrime, di dolori, di privazioni, da file interminabili per il pane, questo prodotto principale dell’alimentazione, file per un metro di stoffa per coprire la sua nudità, e da una fatica veramente da galera, un vero pesante lavoro forzato. Insomma su tutti costoro grava il marchio della burocrazia che li opprime appiattendoli tutti allo stesso livello. Tutti i giornali riguardo al contenuto, e non parlo già di indirizzo politico, sono simili l’uno all’altro come due gocce d’acqua. La gente in Urss pensa come le viene ordinato. Il socialismo in Urss rappresenta il trono dell’Nkvd, un trono lordato dal sangue degli uomini migliori. Ma io vi dico che questo potere si regge sulle baionette, sulle camere di tortura, sulle repressioni e questo potere, che mantiene il popolo con razioni da fame, non può essere durevole, sarà sufficiente una sola debole spinta perché questo potere si riduca in polvere. Non appena avrò la possibilità di lasciare il villaggio di Suchobusimo, aprirò gli occhi ai miei compagni»[D.Gnocchi, Odissea rossa. Storia di un fondatore del Pci, Einaudi, 2001, pag. 225].

In queste profetiche righe c’è tutto il coraggio di un uomo che non volle piegarsi al terrore della dittatura staliniana e alla degenerazione di un sistema poliziesco che non aveva più nulla di quel socialismo sognato in gioventù da Peluso e per cui tanto si era speso nella sua vita di militante rivoluzionario. Il giudizio sull’Urss che ci consegnano queste parole risulta quindi essere una testimonianza storica di grandissimo valore, anche perché riporta attuale e viva la coscienza politica di un grande rivoluzionario del novecento.

l.c.

Perché il Rif marocchino si è rivoltato?

di Reda Zaireg

Il 28 ottobre 2016, nella località di al-Hoceima, Mohcine Fikri moriva pressato da una trituratrice di spazzatura mentre tentava di recuperare la merce che gli era stata confiscata dalle autorità. L’uomo, di 31 anni, era un commerciante di pesce. Era stato accusato di essere in possesso di quasi 500kg di pesce spada in questo periodo. È morto mentre cercava di opporsi alla distruzione del suo carico in un camion della spazzatura.

Una forte identità regionale.

La morte di Mohcine è diventato il punto di partenza della contestazione nel Rif, una regione del Nord del Marocco la cui storia è segnata dalla repressione e la marginalizzazione di cui ha sofferto durante il regno di Hassan II, padre di Muhammad VI. Il Rif gode di una forte identità regionale e ha storicamente avuto un certo grado di indipendenza rispetto al potere centrale. Nel 1921, quando ancora il Marocco era colonizzato dalla Francia e dalla Spagna, il resistente AbdelKrim El-Khattabi vi stabilì una Repubblica effimera dopo aver sconfitto l’esercito spagnolo. Nonostante la “Repubblica del Rif” sia stata sciolta solo cinque anni più tardi, nel 1926, ha segnato profondamente la memoria collettiva locale. Nel 1959 e nel 1984, delle rivolte sono scoppiate nel Rif e sono state brutalmente represse dal re Hassan II. Le circostanze della morte di Mohcine Fikri hanno suscitato un impeto di indignazione nella regione e al di fuori di essa. La sera del 28 ottobre le foto e i video che mostravano le sue spoglie hanno cominciato a circolare sui social ntework. Vari sit-in sono stati organizzati in differenti città del Marocco nei giorni seguenti.

Molteplici rivendicazioni

Le Hirak (“movimento”) è un movimento sociale nato a al-Hoceima in seguito al decesso di Mohcine Fikri. Le sue rivendicazioni sono molteplici: creazione di fabbriche, estensione della linea ferroviaria fino a al-Hoceima, costruzione di una università pluridisciplinare. Altre rivendicazioni sono la creazione di posti di lavoro e la riduzione della disoccupazione nella regione; la lotta contro la corruzione, in particolare della pesca marittima, e l’istituzione di una protezione sociale a favore delle/dei lavoratori.ci del settore. Il movimento reclama ugualmente la costruzione di una università pluridisciplinare, di un ospedale universitario e l’istallazione di un centro di oncologia a al-Hoceima. In effetti, il Rif conosce un alto tasso di tumori, e il Hirak rivendica un riconoscimento ufficiale del legame con l’utilizzo di iprite avvenuto durante la guerra del Rif (1921 – 1926) da parte della Spagna, nonché il tasso elevato di mortalità a causa del cancro nella regione.

Dopo la passività, la repressione

Una prima fase di scontro è stata caratterizzata da una sconvolgente passività del palazzo e da tentativi di negoziazione poco efficaci da parte dei rappresentanti dello Stato a livello locale. Poi, nel maggio 2017, il potere marocchino ha scelto di reprimere il movimento, dopo sette mesi di contestazione. Venerdì 26 maggio, Nasser Zefzafi, leader carismatico del Hirak ha interrotto un sermone che paragonava il movimento sociale a una fitna, ossia a una lotta fratricida, ossia una guerra civile in seno all’Islam. Il potere marocchino vi ha trovato il pretesto per reprimere il movimento sociale. Numerosi attivisti sono stati arrestati – una quarantina, entro il 26 e il 28 maggio; più di 200 fino a ora – e le manifestazioni sono state sistematicamente disperse. Nasser Zefzafi è stato arrestato il 29 maggio, dopo 3 mesi di latitanza. Attualmente è sotto processo a Casablanca e rischia una pena pesantissima (il 27 giugno 2018 è stato condannato a 20 anni. Con lui altri 51 attivisti hanno preso pene per 333 anni di carcere N.d.T.) Parallelamente all’ondata di arresti che ha toccato gli attivisti del Hirak, il re del Marocco ha promosso un’inchiesta sui ritardi della realizzazione del programma “al-Hoceima, faro del Mediterraneo” (Al-Hoceima Manarat al-Moutawassit); ha ricevuto i risultati a ottobre. Lanciato nel 2015, questo programma mobilizza un budget di circa 700 milioni di dollari, e mira ad accompagnare lo sviluppo della provincia d’al-Hoceima e a migliorarne la posizione economica, ma la sua realizzazione ha conosciuto dei ritardi notevoli. Se l’inchiesta effettuata dal Ministro degli interni e delle finanze ha messo l’accento sui “ritardi, ossia sulla non esecuzione di molteplici parti di questo programma di sviluppo”, ha escluso “qualsiasi atto di concussione e di frode”. Ciononostante il re ha ordinato alla Corte dei conti, giurisdizione finanziaria del regno, di realizzare una seconda inchiesta. In ottobre, il re ha ricevuto le conclusioni della seconda inchiesta sul progetto di al-Hoceima Manarat al-Moutawassit, che ha confermato “l’esistenza di molteplici disfunzioni registrate durante il precedente governo”, differenti settori ministeriali e istituzioni pubbliche che non hanno “onorato i loro impegni nella messa in opera dei progetti e le spiegazioni che hanno fornito non giustificano il ritardo che ha conosciuto la realizzazione di questo programma di sviluppo”. Ma d’altro canto l’inchiesta effettuata dalla Corte dei conti non ha rilevato l’esistenza di frodi, né deviazione dei fondi. Lo stesso giorno, Muhammad VI ha licenziato quattro ministri come conseguenza del ritardo nella realizzazione del progetto al-Hoceima Manarat al-Moutawassit. Il re del Marocco ha espresso ugualmente non “non soddisfazione” rispetto al lavoro dei cinque precedenti ministri, ai quali “nessuna funzione ufficiale sarà affidata in futuro”, secondo un comunicato del gabinetto reale.

Un movimento che dura

Il Hirak è attualmente in fase di latenza a causa dell’arresto dei suoi leader. Tuttavia, il movimento ha preso una forma stabile riemergendo in maniera più o meno ricorrente per più di dieci mesi. Con l’aumento della repressione e la divisione in zone della città da parte della polizia, i/le manifestanti hanno riadattato le loro pratiche e le loro strategie d’occupazione dello spazio pubblico: ai sit-in e manifestazioni programmate giorni prima sono state sostituite delle azioni fulminee. Delle forme di protesta spontanee cominciano appena un gruppo di manifestanti sceglie un luogo – una strada molto frequentata, un giardino o una piazza pubblica – e scandisce degli slogan del Hirak. Allora sono subito raggiunte dalle/dagli attivistx e i/le simpatizzanti presenti sul luogo. Quando poi le forze dell’ordine intervengono, la manifestazione è dispersa, ma “un altro gruppo di manifestanti prende la staffetta e rilancia la mobilitazione in un altro posto della città”, scrivono i ricercatori Hamza Essmili e Montasser Sakhi in una serie di osservazioni sul Hirak. http://taharour.org/?observations-autour-du-hirak-n-rif-%E2%B5%83%E2%B5%89%E2%B5%94%E2%B4%B0%E2%B4%BD-%E2%B5%8F-%E2%B5%94%E2%B5%94%E2%B5%89%E2%B4%BC-6

Las moras delle fragole contro il razzismo e il sessismo

Di Fatiha El Mouali e Salma Amzian

In questi giorni, il livello di vittimizzazione e paternalismo che abbiamo potuto osservare, ascoltare e leggere sulle proteste e le denunce delle donne marocchine, lavoratrici stagionali delle fragole nella provincia di Huelva, ha raggiunto livelli insopportabili. La Spagna sembra essere sorpresa da situazioni che vanno avanti da anni e che denunciamo da un decennio. Nadia Messaoudi aveva già denunciato, nel 2008, la situazione delle donne marocchine nei campi di Huelva pubblicando su un sito internet francese un articolo intitolato: “12000 donne marocchine per le fragole spagnole”. Anche Jaouad Midech faceva la stessa denuncia nello stesso anno. In seguito a una vasta indagine nei campi spagnoli, francesi e italiani, Chadia Arab pubblicava “Le marocchine a Huelva con il ‘contratto in origine’. Partire per tornare meglio”, un lavoro che attraverso delle interviste con delle lavoratrici stagionali e attraverso un ampio lavoro sul campo riportava in luce la stessa situazione nel 2009. Il lavoro è diventato un libro lo scorso febbraio con il titolo “Signore delle Fragole, dita fatate, le invisibili della migrazione stagionale marocchina in Spagna”. In Marocco, la rivista Bladi.net parlava di questa realtà nel 2010. Nel 2016, Fatiha el Mouali, coautrice di questo articolo, faceva la stessa denuncia in una giornata su femminismo e violenza a Barcellona. Prima di tutto, bisogna mettere in chiaro quello che alla maggior parte delle persone sembra non essere molto importate. Chi sono queste donne? Si tratta di donne lavoratrici migranti in situazione di sfruttamento e sotto molteplici violenze nei campi andalusi; donne marocchine provenienti da una ex colonia spagnola. Tutte loro provengono da zone impoverite del Marocco, terre abbandonate dai governi locali e saccheggiate dai poteri coloniali. Molti marocchini, soprattutto uomini giovani, venivano a lavorare nei campi andalusi prima della chiusura delle frontiere. Venivano a fare il lavoro stagionale e se ne andavano, senza nessuna intenzione o necessità di fermarsi in Spagna. Tutto è cambiato quando il Fondo Monetario Internazionale ha obbligato il Marocco, nel 1984, ad applicare un piano di austerità che forzava il Governo ad abbassare gli investimenti in educazione, sanità, infrastrutture e servizi sociali. Questo piano toccò in maniera molto acuta il nord del Marocco. Non è una casualità che, un anno dopo, lo Stato spagnolo chiuderà le frontiere con l’approvazione della Legge sull’Immigrazione. Tutto faceva parte dello stesso piano: impoverire il Marocco creando nel suo territorio la necessità di migrare mentre si sviluppava tutto il macchinario conforme ai dispositivi di controllo ed espulsione dei migranti che risulta essere tanto redditizio per l’Europa.

Capitalismo e patriarcato razziale: l’orrore nei campi di Huelva

Dobbiamo comprendere la forma attraverso cui alcuni lavori si razzializzano e si genderizzano. Le donne marocchine fanno il lavoro che la popolazione bianca spagnola non vuole fare. Sono loro che raccolgono le fragole, non gli uomini, dal momento che l’immaginario coloniale spagnolo ci ha costruito come esseri sottomessi e obbedienti. È necessario tenere conto che, per questi lavori, si assumano principalmente donne che non hanno ricevuto un’educazione formale, provenienti dalle aree rurali e impoverite, donne con meno di 45 anni che lasciano figli/e minori in Marocco. Questa è la cruda realtà. Tutto questo per poterle sottomettere, sfruttarle e abusarne con maggior facilità e assicurarsi che non fuggano quando le rimandano indietro. Ma non è tutto. Cosa sta veramente succedendo a Heulva? Teresa Palomo, fotogiornalista che si è trasferita nella provincia di Huelva, racconta delle condizioni nelle quali le donne marocchine lavorano, da anni, nei campi andalusi. Molte di queste donne non conoscono nemmeno il nome dell’azienda che le ingaggia e nemmeno come formalizzare un reclamo. Non si permette che lavoratrici sociali o attivistx entrino nelle aziende agricole e se, per casualità, una di queste lavoratrici riesce a mettersi in contatto con questx, succede quanto segue. I capisquadra godono del favore di alcune delle donne – le più anziane nelle campagne stagionali – che sono usate come “spie”. Quando i rappresentati politici, per esempio, stanno per scoprire quello che sta succedendo, queste “spie”, alleate dei capisquadra, sono utilizzate per negare tutte le denunce e confermare la posizione degli imprenditori. Se questi scoprono che esiste la possibilità di una denuncia pubblica, i proprietari delle imprese puniscono le responsabili. Come? Con una o due settimane senza lavoro e raccolta, o inviandole direttamente indietro in Marocco. Inoltre sono da aggiungere le difficoltà linguistiche. La stragrande maggioranza di loro non legge lo spagnolo, quindi avrebbero anche bisogno di interpreti per formalizzare i reclami. Molte delle donne che sono arrivate a Huelga hanno dovuto fare un enorme investimento per pagare i propri visti e viaggiare anche se, secondo gli accordi, i viaggi dovrebbero essere pagati dalle imprese. In tanti casi, non arrivano nemmeno a guadagnare soldi sufficienti per recuperare tali spese, dal momento che in nessun momento è garantito che lavoreranno per i tre mesi che dura la stagione. Inoltre, devono pagare il loro mantenimento e in alcuni casi anche pagare l’affitto della casa. Nella busta paga che hanno firmato non viene pagato quanto stipulato per il lavoro per il quale furono contattate. I capisquadra le assicurano che il resto sarà inviato loro quando torneranno in Marocco, però si tratta di accordi sulla parola che non compaiono in nessuno dei documenti legali. In molte occasioni, il denaro che manca, senza alcun consenso, è usato per pagare il prezzo del viaggio di ritorno. A causa del fatto che la maggior parte delle donne non sa leggere è impossibile per loro rendersi conto di essere state ingannate. Molte di loro non sono a conoscenza di quanto debbano riscuotere, quindi vengono pagate meno o direttamente vengono derubate senza alcun lamento. Teresa riferisce che in caso di malattia o di qualsiasi disturbo non vengono portate dal medico. Se non sanno come muoversi o non hanno alcuna persona che le aiuta, la situazione diventa dura, e se fanno domande, le puniscono non facendole lavorare. Inoltre, vivono in cortijos o baracche che sono a chilometri di distanza dal centro urbano, mal collegate, così che se devono comprare da mangiare o andare dal medico debbono camminare per delle ore. Il numero degli aborti in questa zona è estremamente alto, specialmente tra le donne migranti. Gli abusi sessuali e gli stupri sono costanti e rimangono impuniti nelle aziende che si perdono in mezzo ai campi. In effetti a molte delle lavoratrici succede quanto segue. Quando arrivano in Spagna, i capisquadra prendono i loro passaporti fino a quando non vengono espulse in Marocco. Per restituire i passaporti, i capisquadra chiedono enormi somme di denaro o favori sessuali. Il visto delle lavoratrici dura fino alla fine della stagione. Tuttavia, a causa delle denunce pubbliche, i capisquadra hanno deciso che la stagione è finita. Il fine è di rimandarle tutte in Marocco, anche se i campi sono pieni di fragole. Ad Almonte, dove lavorano le donne che hanno cominciato a denunciare – il giorno 16 del mese di Ramadan – non è rimasta nessuna donna, sono state tutte rimpatriate in Marocco.

L’eredità coloniale e la raccolta della fragola

Non si tratta di un tema astratto. Solo la comprensione della maniera in cui razza, classe e genere si intrecciano nell’ordine coloniale moderno ci aiuterà a capire le violenze strutturali che si verificano nei campi andalusi, esercitate dallo Stato e dalle sue istituzioni. Quando le donne marocchine si trasferiscono (o vengono trasferite) dal Marocco alla Spagna sono ancora intrappolate, bloccate in queste relazioni coloniali di dominazione. Pertanto, è sufficiente denunciare l’impresa Doñana 1998 o i membri de la Manada diventati capisquadra delle piantagioni? No, non lo è. È sufficiente denunciare gli abusi sessuali e le violazioni degli accordi? No, non lo è. È necessario sottolineare cosa si intende per “razzismo, sessismo, pratiche del capitalismo razziale e imperialista dello Stato in quanto gerarchie collegate tra loro (come abbiamo già detto prima)”. L’eredità coloniale spagnola non può essere compresa senza tener conto della realtà del prelievo economico praticato da secoli dalle imprese spagnole in Marocco per sfruttare le materie prime e arricchire le casse della potenza straniera. Attualmente, oltre a quanto detto, si estraggono persone, attraverso diverse strategie, per fare i lavori che gli/le spagnolx non sono disposti a fare. I territori dello Stato spagnolo sono teatro di molteplici crociate contro “il moro” e, anche, sono gli incaricati del controllo dei confini dell’Europa. La legge sull’immigrazione è stata creata in modo che lo Stato spagnolo potesse disporre dei corpi delle popolazioni delle ex colonie mentre si riservava il diritto a disporre di loro quando non fossero più necessari, un obiettivo che è stato raggiunto. La cosiddetta legge sugli stranieri è stata promulgata, tra gli altri motivi, per “stranierizzare” la popolazione marocchina delle attuali colonie africane spagnole, Ceuta e Melilla, obbligandole a sottomettersi a un processo di “regolarizzazione o espulsione”. È attraverso questa legge che si inizia a costruire la categoria del migrante lavoratore (sempre) stagionale. Che le esperienze dei/delle morx sotto questa legge razzista e coloniale non abbiano alcun impatto mediatico e discorsivo, ha a che fare, appunto, con la forma specifica di razzismo che colpisce la popolazione marocchina. Non possiamo capire la situazione dei/delle lavoratrici stagionali marocchine a Huelva senza prestare attenzione alle relazioni di potere che sono state inaugurate con il colonialismo. Queste relazioni di potere continuano oggi e, soprattutto, attraverso i processi di disumanizzazione vissuti dalle persone provenienti dai territori colonizzati, adesso convertiti in “territori di origine migratoria”. Lo ripetiamo perché sembra che non sia stato ancora ben assunto: è il sistema razzista, sessista e coloniale che converte le donne marocchine lavoratrici stagionali a Huelva in soggetti superflui che possono essere sfruttate, lavorativamente e sessualmente. Il discorso coloniale sulle donne marocchine, che le costringe a essere sottomesse, oppresse e prive di mezzi politici, è diventato ancora più sofisticato nel tempo. Durante l’epoca coloniale, le storie di viaggiatori, antropologi e cronisti coloniali hanno costruito impunemente “la donna marocchina”. Attualmente, in un mondo globalizzato che continua a produrre gli stessi discorsi e schemi, sono necessari dispositivi di controllo più sofisticati. Questa immagine cade a pezzi nel momento in cui noi diventiamo carne in questi territori e soprattutto quando diventiamo una voce. Pertanto, bisognava disegnare nuove e migliori forme per renderci invisibili e renderci mute. La forma più efficace per realizzare ciò fu la Legge sull’emigrazione, dispositivo disumanizzante, razzista e patriarcale. Da una parte si vieta alle donne marocchine emigrate nello stato spagnolo, attraverso il ricongiungimento familiare di lavorare, relegandole così ad un ruolo eterno di cura non retribuita. Così allo stesso tempo l’unica maniera che permette a una donna marocchina di lavorare è nell’ambito domestico. Ossia, occupando sempre lo stesso ruolo di cura, questa volta pagato, ma senza alcun diritto. Infine, ci sono le lavoratrici dei campi di Huelva, che hanno un permesso di lavoro. Di fatto la sola cosa che possiedono. Le ONG della zona, come Cruz Roja o Cepaim, sostengono di non avere prove di quello che sta accadendo. È importante notare che nessuna delle due è presente nei campi e cortijos in cui lavorano e vivono le donne per provare le denunce. Non avere la prova di un segreto di Pulcinella significa solo che si è complici. Non chiederemo a queste istituzioni una radicalità antirazzista che non fa parte, né mai farà parte, dei loro programmi. Però, se sono interessate a occuparsi dell’assistenza primaria, bisogna dire che, nel caso della situazione delle lavoratrici migranti nel campi andalusi, stanno evitando di occuparsi di questo compito in maniera allarmante. Dall’altra parte, vengono prodotte delle narrazioni e strategie femministe che non sono capaci di percepire la loro bianchezza e superare i limiti insiti nelle loro denunce e analisi ben intenzionate. Ignorare costantemente le questioni razziali e coloniali ha un prezzo che va ben oltre la teoria. Queste strategie non sono sufficienti e, quando queste omissioni si ripetono, diventano complici del capitalismo razziale e del patriarcato, oltre che dell’imperialismo. Questo è il motivo per cui è così necessario e urgente fare appello alle femministe, in modo che possano distaccarsi dalle loro esperienze particolari e locali, al fine di unirsi alla lotta delle donne marocchine senza imporre delle letture e strategie che lungi dall’aiutarle a liberarle finiscono per legittimare e radicare la violenza strutturale che le opprime. Dobbiamo anche allargare l’appello alle organizzazioni che combattono in questo territorio per i diritti umani e chiedere loro lo stesso esercizio di decentramento al fine di sviluppare strumenti efficaci tra tutti.

La donna marocchina esprime dignità e resistenza

I popoli marocchini manifestano resistenza e dignità. Il Rif, Yerada e il boicottaggio di Danone, Sidi Ali e Afriquia lo stanno ricordando. Le donne marocchine esprimono resistenza e dignità. Noi lo sappiamo, le nostre nonne e le nostre madri ce l’hanno insegnato. Le stagionali della fragola di Heulva ce lo stanno ricordando. Per noi, le denunce e le proteste a Huelva fanno parte di un momento politico della popolazione marocchina che non sta avendo l’attenzione che merita e che non è riducibile alla retorica che tiene come unico soggetto politico la classe operaia e “le donne”. Questo momento politico ci porta a farci illusioni con il risveglio di una consapevolezza che non è altro che quella che motivò Abdel Krim contro il colonialismo spagnolo. Le donne marocchine che oggi protestano contro il potere coloniale e razzista spagnolo sono mosse dallo stesso spirito di dignità. Quando ci uniremo ai/alle marocchinx della diaspora in Spagna? E le/gli altrx? Non dimentichiamo le centinaia di uomini razzializzati, soprattutto mori e neri, che lavorano nella stessa situazione e ricevono le stesse violenze nelle serre andaluse. Fratelli, anche a voi crediamo.

Tradotto da: https://www.elsaltodiario.com/explotacion-laboral/las-moras-de-la-fresa-contra-el-racismo-y-el-sexismo

L’Altro e la cultura orale settaria in Siria

di Ahmed Khalil

tratto da http://syriauntold.com/2018/06/the-other-and-oral-sectarian-culture-in-syria/

Fino a marzo 2011, quando scoppiarono le proteste popolari contro il regime siriano, discorsi pubblici e schietti su convinzioni settarie o rappresentazioni settarie dell’Altro erano semplicemente tabù. Questo divieto era imposto non solo dal regime nazionalista pan-arabo che governava la Siria, ma anche dalla società siriana e dalle convenzioni sociali tra le diverse sette. Il concetto di convivenza piuttosto che di cittadinanza governava i rapporti tra le sette della Siria. La cittadinanza fornisce un quadro per i diritti politici, legali e umani. È il risultato del progresso umano, sostenuto dal diritto internazionale e dalle costituzioni di più nazioni. Per parlare francamente e mettere quello che sto descrivendo in un contesto realistico, lasciatemi fare alcuni esempi delle narrazioni comunemente usate dalla comunità alawita in riferimento ad altre sette. Queste narrazioni rappresentano una percezione in gran parte immaginaria dell'”Altro”, presentano una paura settaria che ha avuto origine in alcune delle esperienze storiche della comunità in Siria e nella regione più ampia – in particolare l’occupazione ottomana di Siria e Libano e il suo retaggio di arretratezza, settarismo e spaesamento.

La prospettiva alawita rispetto alle altre sette

Sono nato e cresciuto in una città nelle campagne del centro di Hama, un governatorato caratterizzato da diversità etniche e confessionali. Ho vissuto lì fino alla scuola secondaria. Nonostante uno stato generale di pace e convivenza tra le componenti comunali del governatorato e l’assenza di guerre o di gravi incidenti tra le sue sette, ciascuna delle componenti comuni nutriva paure nei confronti dell”Altro”, una paura rafforzata dalle credenze settarie dominanti.
Quando mi fidanzai con una ragazza ismailita di Salamiya, la maggior parte dei miei parenti espresse repulsione e cercò di ostacolare il mio impegno in ogni modo possibile. Solo mio padre, mio fratello e mia sorella accettarono di andare con me a prenderle la mano, e solo con riluttanza. Non appena finimmo di leggere il nostro Fatihah se ne corsero a casa. “Se tuo fratello si dovesse sposare con quella ragazza Sam’ouli considerati divorziata”, minacciò il marito di mia sorella usando un termine dispregiativo per i membri della comunità religiosa della mia ragazza. La notizia del mio fidanzamento divenne il principale argomento di discussione in tutta la città, e molti ritennero che fosse naturale che fosse provocato da una persona come me: un ex detenuto, praticamente un estraneo e persino un rinnegato. Circa due mesi fa, un mio parente, un soldato che attualmente lavora a Daraa, ha sposato una vedova di Hauran con tre figli. È stato severamente condannato e ostracizzato, in primo luogo perché sua moglie è una sunnita e in secondo luogo perché è una vedova, quindi non più vergine e più vecchia di lui. Cosa ancora più importante, il loro matrimonio è avvenuto durante una feroce guerra per la quale gli alawiti accusano gli haurani e il governatorato di Daraa: il suo popolo rappresenta la punta di diamante della “cospirazione universale” in atto contro la Siria. In un altro esempio che mette in evidenza il rapporto spinoso tra le varie sette in Siria, uno dei miei parenti, che è un chierico, ama vantarsi con i suoi vicini e parenti che nessun sunnita è mai entrato nella sua casa. Ciò ispira il rispetto dei suoi concittadini, o almeno la maggior parte di loro. L’atteggiamento più popolare nei confronti del matrimonio misto si riflette nel proverbio: “Chi si sposa fuori dalla sua setta muore di una malattia che non è sua”. Questo punto di vista è particolarmente vero per la comunità alawita. Ogni volta che un disaccordo coniugale casuale diventa di dominio pubblico, come può accadere in qualsiasi famiglia, la gente dice che la colpa sta nel matrimonio anormale avvenuto al di fuori della setta. Per sminuire e denigrare la setta Ismailita, i membri di questa comunità sono spesso chiamati Sam’oulis Sam’ouliyin. Viceversa, altre sette chiamano gli alawiti Nusayriya o Nusayriyin, cosa che gli alawiti odiano e associano alle intenzioni di diminuire il loro valore. Un altro detto popolare nel nostro villaggio recita: “Mangia da un Salmouni [Ismaili] e dormi da un Cristiano”. In questo caso, gli alawiti pensano che i cristiani non si preoccupino di essere puri e di non “purificarsi” con acqua dopo essere usciti dal bagno. Di contro, i cristiani sono fedeli e degni di fiducia, al contrario degli ismailiti, di cui non ci si può fidare di dormire nelle loro case. D’altra parte, Ismailis ha un proverbio che dice: “Il nemico di tuo nonno non può essere tuo amico”. In altre parole, gli alawiti odiano gli ismailiti e serbano rancore verso di loro. Il detto rimanda alle battaglie degli anni ’20 che si svolgevano nella costa siriana (ora governatorato di Tartus) tra lo sceicco Saleh al-Ali e le sue forze (alawiti) e la comunità ismailita.

Inoltre, ci sono norme chiaramente delineate per quanto riguarda le sette e il cibo. Ad esempio, gli alawiti mangiano solo carne di pecora, mucche e capre maschi. In quanto tale, la maggioranza degli alawiti non andrebbe dai macellai sunniti o non alawiti per timore che la carcassa sia femminile o macellata in modo improprio secondo i criteri islamici; tale carne è popolarmente chiamata Fataayes. Nella costa siriana, c’è una credenza comune che i cristiani diventano molto brutti e rugosi quando invecchiano, in parte perché mangiano carne di maiale, ma anche perché hanno chiesto al Signore freschezza e bellezza per la loro giovinezza. Gli alawiti accusano la setta Murshidi (una propaggine degli alawiti dalla prima metà del XX secolo sotto la guida di Salman al-Murshid) di avere come usanza una festa speciale piena di vizio in cui uomini e donne sposati si concedono ad una cerimonia promiscua nella quale dopo che si spengono le luci non si capisce più niente.

Gli alawiti nella nostra zona sono convinti che i beduini siano meschini e ingannevoli e bisogna sempre diffidare di loro. L’area era stata abitata da beduini che vivevano in tende fatte con pelli di capra, che lavoravano nella pastorizia e si prendevano cura delle mandrie del villaggio. La relazione tra gli abitanti del villaggio e i beduini è quindi caratterizzata da una dinamica dipendente da datore di lavoro, cioè dal proprietario della mandria da un lato e dal lavoro dei beduini dall’altro.

Uno Stato fondamentalmente settario

Il regime siriano, specialmente negli ultimi cinquanta anni, ha sicuramente manipolato le tensioni settarie perpetuando indirettamente tali concetti settari affinché le relazioni inter-settarie rimanessero superficiali e piene di paure, ammonizioni e profonda sfiducia. Per esempio, io ho studiato in una grande scuola che ha ricevuto studenti da tutti i villaggi vicini e diverse sette. Il nostro preside (un membro del partito Baath al governo) veniva nella nostra classe all’inizio di ogni anno, esaminava gli studenti e il loro background e identificava la setta e l’orientamento politico di ognuno di noi. Quando iniziammo ad incontrare nuovi colleghi e ad essere socialmente più consapevoli, con visite e stretta conoscenza con gli amici di tutte le sette, il sistema settario si sradicò dalle nostre teste e la nostra infanzia cominciò a crollare. In contrasto con gli aneddoti e le narrazioni che riempivano il nostro serbatoio di conoscenza e avevano plasmato le nostre percezioni degli “Altri”, le credenze di sinistra e marxiste che abbiamo ricevuto nella nostra prima adolescenza sono arrivate come antidoti alla vecchia coscienza. Come risultato di quella socializzazione e delle conversazioni che abbiamo avuto insieme, siamo stati categorizzati dal leader baathista come nemici del Baath. In una fase successiva, quando eravamo detenuti, abbiamo scoperto che le nostre amicizie e conversazioni venivano effettivamente segnalate ai servizi di sicurezza. Le autorità e il loro apparato di sicurezza erano desiderosi di preservare il sistema dietro le tradizionali relazioni settarie e si preoccupavano di qualsiasi segno di nuova consapevolezza o di diverse pratiche sociali da quelle che vogliono promuovere tra i loro soggetti. Tutto ciò, naturalmente, veniva coperto dalla falsa propaganda sulla “unità nazionale”, sul “nazionalismo” e sulla “coesione sociale”, mentre qualsiasi ricerca sociale o approcci scientifici alle sette in Siria erano severamente proibiti, compresi eventuali tentativi di discutere di settarismo nei media, nei forum culturali o ovunque nella sfera pubblica. In quanto tali, l’ignoranza reciproca e le paure nonché le illusioni sugli Altri furono solo rafforzate.

Nell’esercito, il servizio militare obbligatorio rende inevitabile che persone di diverse sette e tribù si fondano l’una con l’altra. Come ex detenuto, non ho prestato servizio nell’esercito, ma “servito” sette anni in prigione. I miei parenti e io comunque sappiamo di cosa è fatto l’esercito, specialmente i rapporti sociali che esistono tra i suoi membri. Non si può discutere di sette nell’esercito, dal momento che il controllo della sicurezza sull’esercito è troppo severo e spaventoso. Eppure, nonostante l’apparente cameratismo tra le reclute, esiste una discriminazione settaria non dichiarata per quanto riguarda i privilegi, l’assegnazione di posti e i permessi.

Matrimoni misti e onore

Tornando al mio fidanzamento, una osservazione divertente è degna di essere menzionata qui. Quando un giovane completava i suoi studi in Occidente, in Russia o in generale in Europa, e si sposava con una donna occidentale, la gente si dirigeva a casa sua per incontrare la moglie. Tale matrimonio può anche essere motivo di orgoglio per la famiglia dell’uomo! Tuttavia, se sposa una donna del suo stesso vicinato, ma non di una setta diversa, scoppia una bomba di rovina e oscurità! Alcuni attribuiscono questo tollerare il matrimonio con donne straniere al cosiddetto complesso “Khawaja [straniero o aristocratico]”. Naturalmente, tale reazione non è uguale in tutte le sette. Per esempio, si sa che le reazioni più dure esistono tra i Drusi, che potrebbero arrivare fino all’omicidio, specialmente quando le donne druse si sposano da fuori della loro setta. In altre sette, come gli alawiti e i cristiani, la disapprovazione non supera il boicottaggio. Nel caso dei sunniti, il matrimonio misto è relativamente più accettato e non pone problemi nel caso degli ismailiti.
Allo stesso modo, il matrimonio tra un uomo alawita e una donna sciita non solleva problemi. Nonostante le differenze ideologiche tra le due sette, esistono alcune intersezioni che li rendono “alleati” o in reciproco intendimento, in particolare per la loro venerazione nei confronti dell’Imam Ali bin Abi Talib, il quarto califfo.

Per le donne, sposare un uomo di un’altra setta è spesso più difficile, e la punizione è a volte l’omicidio. Tuttavia, i matrimoni misti tra famiglie influenti, facoltose o ben conosciute, specialmente quelle che occupano alte sfere di potere, non rappresenteranno minacce. Ad esempio, la regista e artista Nayla Atrash era sposata con il compianto attore Khaled Taja. Nonostante il fatto che Atrash sia una Drusa e Taja un Damasceno sunnita, la loro famiglia non ha obiettato al loro matrimonio. Forse è più corretto dire che nessuno ha osato diffamare questo matrimonio. Lo stesso dicasi per il matrimonio di Jamal Khaddam, figlio di Abdul Halim Khaddam (sunnita) con Hanan Khairbek (alawita). Tra gli episodi più famosi di questo tipo ci sono, tra gli altri, il Presidente e la First Lady sunnita, così come suo fratello Maher e la sua moglie sunnita. Pertanto, i “crimini d’onore” sono commessi da persone povere contro altre persone povere. Al potere non potrebbe importare di meno delle sette e delle religioni: l’obiettivo è mantenere la società frammentata e disintegrata. Ciò che perpetua significativamente questa situazione settaria è la legislazione siriana. Per esempio, il delitto “d’onore” è punito con un massimo di sette anni di reclusione, ed è stato limitato a due anni prima del 2011. Inoltre, i minori sono incoraggiati a commettere tali crimini perché la loro pena non supera i mesi di carcere.

Mantenere i segreti e la reincarnazione

Uno dei problemi più eclatanti in merito all’immagine settaria dell’Altro è quello che ha a che fare con la morte. È noto che gli alawiti credono nella reincarnazione, cioè il concetto che l’anima di una persona si separa dal loro corpo fisico nel momento in cui muore e assume le forme in un’altra creatura, che è necessariamente un altro uomo o un’altra donna. Se la persona deceduta era buona, la sua anima entrerà necessariamente nel corpo di un’altra persona. Molte storie sono state raccontate tra gli alawiti su persone che “hanno superato le loro generazioni”, cioè che erano state altre persone appartenenti ad altre famiglie. Quando uno dei nostri giovani vicini cominciò a crescere in una donna, la storia della sua cosiddetta vita precedente cominciò a circolare nel villaggio. Era stata un pilota bombardiere israeliano il cui aereo era stato abbattuto durante la guerra di ottobre del 1973. Morì e rinacque nel nostro villaggio. Questo ritorno alla vita in una famiglia alawita significava che l’anima di quella ragazza ebrea era “pura”. Gli alawiti credono che la maggior parte delle anime sunnite siano impure, così quando assumono nuovi corpi diventano spesso animali oppure disabili. Inoltre, se l’anima di una persona alawita è malvagia, si reincarnerà come un animale (serpente, cane, asino, etc).

Storie e credenze alawite vanno ancora oltre. Hanno anche opinioni sul colore delle persone. Un albino ha un’anima maledetta e deve aver commesso molti peccati nelle sue “generazioni” passate. Una persona molto bruna è spesso considerata “di pelle nera”, che è un esempio di idee razziste contenute in queste credenze. Ad esempio, la maggior parte degli alawiti è convinta che tutti i palestinesi abbiano la pelle scura, quindi i miei familiari non potevano credere che alcuni dei miei amici fossero palestinesi, solo perché la loro pelle era troppo bianca o marrone-giallognola. Solo un mio amico palestinese è stato riconosciuto per il suo colore scuro della pelle.
La fede alawita è tenuta nascosta agli estranei e agli alawiti non iniziati. Se succede che un alawita lo fa passare a un non-alawita, Dio lo trasformerà in un animale, lo renderà cieco o paralizzato. Ciò contribuisce a un timore generale di eventuali “fughe” sulla religione alawita. Anche rivelare la credenza religiosa alle donne, incluse le donne alawite, rende probabile che il rivelatore sia handicappato o in qualche modo punito da Dio. Questo è spesso spiegato dalla convinzione che le donne non sono degne di portare il Segreto e sono fondamentalmente prive di ragione e di fede.

Gli alawiti credono anche che i sunniti abbiano una religione segreta diversa da quella insegnata nelle scuole e nelle moschee. Gli alawiti non possono essere persuasi diversamente. Credono che i sunniti abbiano un codice segreto che nasconde le loro vere credenze nei confronti di altre sette, credenze che li rendono inclini a odiare i non-sunniti e persino disposti a ucciderli quando ne hanno la possibilità. Quasi tutti gli alawiti concordano sul fatto che i sunniti odiano l’Imam Ali. È difficile convincere un alawita che, per i sunniti, Ali è il quarto califfo, il cugino del profeta e uno dei primi credenti nel Messaggio Muhammadiano, e che non è tenuto in nessun conto rispetto al resto dei califfi Abu Bakr, Omar e Othman…Questi tre califfi, come è noto, sono condannati dagli alawiti perché credono abbiano cospirato contro Ali dopo la morte del Profeta e che persino lo volessero morto. Prima della rivolta siriana che si è evoluta in una guerra civile, i rapporti tra le sette e le comunità siriane erano, secondo me, governati dalla taqiyya [dissimulazione] o persino dall’ipocrisia. Ciò rispecchiava il rapporto tra il regime politico e la popolazione, poiché si temeva che la tirannia spesso producesse la politica taqiyya: apparire diversamente da ciò che si trova nelle parti più interne delle persone. I siriani di diverse sette si mescolano al lavoro, nei lavori pubblici, nelle aziende private, nei campi agricoli, negli stabilimenti commerciali e nei negozi. Bevono il tè e talvolta mangiano insieme…ma questa relazione rimane superficiale, limitata alle necessità di convivenza in una geografia sotto un’unica regola. Ma una volta coinvolto il matrimonio misto, quella relazione apparentemente solida si disintegra presto e diventa persino brutta e ostile. Le leggi siriane, in particolare la legge sullo status personale, rafforzano questa relazione ambigua tra le sette siriane. Chiunque desideri sposare una donna musulmana (sunnita, alawita, ismailita etc.) deve sposare pubblicamente l’islam secondo le regole della sharia. Quando un fratello uccide sua sorella perché ha sposato un estraneo, non solo il codice penale siriano definisce l’omicidio un “crimine d’onore”, ma attenua anche la pena in modo sostanziale. Ciò aumenta il settarismo e il mantenimento del concetto di stato pre-moderno. Queste cose possono, non appena le circostanze sono favorevoli, portare a gravi ostilità e alla guerra. Generalmente i regimi tirannici mantengono questa latente ostilità quando è necessario, specialmente quando le persone osano ribellarsi contro i loro governanti e aspirare alla giustizia e alla libertà.

Concetti settari come fonte di conflitto

Le credenze e le narrazioni settarie, che si tramandano tra le mura domestiche, fungono da serbatoio psicologico ed emotivo assorbito dai bambini piccoli. In teoria, questo serbatoio controlla il loro comportamento e i loro pensieri mentre crescono, facendogli vedere l’Altro attraverso le prospettive ideologiche in cui sono stati indottrinati durante i primi dieci anni della loro vita.

Questo vale per tutte le sette in Siria. Le dottrine settarie prosperano in modo spettacolare durante i periodi di guerra, il che crea il clima più appropriato per eliminare quella maschera di amore e pace che le persone erano costrette a indossare. La guerra rivela le idee che definiscono e descrivono l’Altro e diventano i principi guida della violenza, dell’omicidio e della morte. “Il settario ‘Altro’ è l’unico nemico che desidera uccidermi e violentare mia moglie, quindi devo averlo a pranzo prima che lui mi abbia a cena”. Questo è stato il caso dall’inizio del 2011, quando le basi ideologiche per il conflitto civile siriano erano mature dopo decenni di incoraggiamento. Cenni di queste divisioni erano già in mostra nel 2004, che ha visto momenti di notevole instabilità settaria, tra cui la rivolta curda a Qamishli e le rivolte a Masyaf. A marzo, Qamishli ha assistito alle ostilità tra i visitatori arabi di Deir Ez-Zor e dei curdi locali dopo una partita di calcio. A Masyaf un semplice disaccordo tra due autisti di autobus al terminal degli autobus, uno Ismaili e l’altro alawita, divenne subito un fatto grave. Se il disaccordo fosse stato tra due persone della stessa comunità, il problema sarebbe stato solo una lite, ma dal momento che le sette erano coinvolte, la disputa nelle diverse città si è evoluta in uno stato prolungato di ostilità, conflitto e reciproco allontanamento tra alawiti e ismailiti. Una delle “armi” più significative della guerra massicciamente distruttiva e corruttrice in Siria sono le dottrine e le narrative orali diffuse dai membri di ogni setta riguardo alle altre sette. La maggior parte di queste dottrine e di queste narrazioni sono delle vere e proprie invenzioni, tramandate di generazione in generazione e alimentate da manipolazioni politiche da parte di autorità tiranniche, che alla fine diventano fatti che giustificano la brutalità di cui oggi siamo testimoni sotto forma di massacri e mutilazioni. Questo fattore settario emerso durante gli anni della guerra siriana era stato sancito dai due Assad e sfruttato in conflitti politici, in particolare durante il conflitto con i Fratelli Musulmani (nel 1979 e nel 1985). Credo che lo sfruttamento del fattore settario da parte del regime sia stato una delle principali ragioni della sopravvivenza della dinastia di Assad durante questo periodo. Il ruolo del fanatismo settario è evidente durante la guerra civile, che dura ormai da sette anni. In effetti, questo fattore è stato sfruttato da entrambe le parti in guerra per creare la percezione di un conflitto sunnita-alawita, immagine che è stata incoraggiata dalle potenze regionali e dal regime allo stesso modo. La domanda qui è: quanto è fattibile eliminare queste rappresentazioni orali dell’Altro dalle relazioni sociali in Siria?

Forse queste narrazioni e culture orali dedicate all’odio dell’Altro spariranno solo sotto un sistema democratico laico, in cui varie componenti della società siriana si possano aprire l’una all’altra e una ricerca approfondita venga condotta pubblicamente e in modo trasparente riguardo le credenze e le dottrine, e venga diffusa sia sui media che nella sfera pubblica. Vivremo abbastanza per vedere questo sogno diventare realtà? Forse.