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App di messaggistica e privacy, uno sguardo su XMPP. Intervista a Sylke Vicious

di lino caetani

Il recente cambio di policy adottato da WhatsApp ha rilanciato e aperto più del solito un dibattito internazionale sulla sicurezza e la privacy nelle app di messaggistica online. Abbiamo fatto alcune domande a Sylke Vicious.

Innanzitutto ti chiederei una breve presentazione

Mi faccio chiamare Sylke Vicious sul web. Sono un ragazzo con la passione per l’informatica, anche se non è quello che faccio di lavoro, ma fin da piccolo ho sempre smanettato alla grande coi pc e coi telefoni. Leggo tantissimo in internet notizie, guide, e altro di questo settore, specialmente tutto quello che riguarda linux e gli argomenti relativi alla privacy.

Ho chiuso con i social commerciali due anni fa e sto nel fediverso, sto cercando di eliminare anche le email di Google e Microsoft, e sto pensando di selfhostarmi un servizio email. Attualmente ho un server con Nextcloud (che sostituisce Google drive) e un server XMPP (a sostituire gli IM dei quali parleremo sotto).

Cerco di utilizzare il minimo numero di app provenienti dallo store di Google e utilizzo un telefono senza GAPPS. Ma in futuro sto pensando ad un telefono linux. Spero già quest’anno.

In generale la discussione nel mondo mainstream di media e social network ha riguardato un punto in particolare, ovvero la paura diffusa (o sarebbe meglio dire, l’improvvisa consapevolezza…) degli utenti di WhatsApp di condividere i loro dati personali con Facebook, che come sappiamo è dal 2014 il proprietario dell’app. Cosa pensi della questione del cambio di policy di WhatsApp e cosa pensi del dibattito che ne è seguito?

Personalmente credo che WhatsApp-Facebook abbia solo “legalizzato” o “messo nero su bianco” (chiamatelo come ne avete voglia) quello che probabilmente già facevano da tempo più o meno sottobanco. Non lo dico io, già sono usciti articoli in passato (cito per esempio: https://www.wired.com/story/whatsapp-facebook-data-share-notification/), quindi non sono per niente stupito da questa mossa. Dal loro punto di vista non vedo errori: sono un’azienda privata che fornisce un servizio (apparentemente) gratuito (in realtà l’unico che non vede soldi sei tu utente).

Perchè gestire 3 identità separate quando (io facebook) so che tu (utente) sei la stessa persona sui miei 3 siti? Uniamo tutto in un unico calderone. Così se su whatsapp passi il tempo a parlare di politica con i tuoi amici, magari qui su facebook ti interessa la pagina di questo quotidiano che ha pagato questa inserzione attivata dalle parole chiave x, y, z, anche se su FB segui solo pagine di gattini. Non sto dicendo che sia giusto, ma sto dicendo che dal loro punto di vista è corretto e fa sicuramente guadagnare molto di più a loro, riuscendo a centrare molto meglio il target pubblicitario.

Il dibattito? Io sono fuori da Facebook/Instagram/Twitter dal 2018 e da WhatsApp dal 2019, quindi non so bene cosa viene detto su questi social a tal proposito. Dalla mia “bolla” del fediverso e dai pochi contatti tra colleghi, parenti e amici non mi sembra sia cambiato molto: tanto fumo e niente arrosto.

Le motivazioni sono le solite: ma WA lo usano tutti, tanto sanno già tutto di te, cos’hai da nascondere, come ti faccio a contattare se togli WA…posso andare avanti se vuoi…

Quindi tra poche settimane tutto tornerà come prima, tutti su WA. La gente purtroppo dimentica alla svelta…

Il dibattito mainstream più diffuso sui siti online che si occupano di tecnologia, software e app di messaggistica hanno puntato la loro attenzione sulle differenze esistenti tra tre app in particolare, WhatsApp, Telegram e Signal, escludendo tutto il vasto mondo che pure esiste oltre, soprattutto nel campo del free software. Eppure, l’illusione di sicurezza quando non si è affatto tutelati dalle app che dovrebbero proteggerti è di per sé una delle principali falle di sicurezza oggi esistenti in rete. Cosa pensi dunque di Signal e Telegram? Quanto sono sicure e quanto invece danno un’illusione di falsa sicurezza ai propri utenti?

Esatto, proprio così, è l’illusione di sicurezza che frega la maggior parte delle persone. Certo, il marketing non aiuta… Sia Signal che Telegram sono centralizzate, quindi già un punto a sfavore. Se cade il server (che sia per manutenzione o un attacco) nessuno parla più. Entrambe richiedono un numero di telefono per registrare un account. Altro punto negativo. Vero che è più comodo rintracciare amici o parenti, ma si è anche molto più identificabili. Dal punto di vista delle funzionalità di messaggi criptati e di messaggi effimeri invece sembrano essere fatte per bene. E quindi non basta? No. Telegram è sviluppato dallo “Zuckerberg” di Russia, ovvero il fondatore di VKontakte, il Facebook russo praticamente. Ci fidiamo? Boh…

Signal è sponsorizzato a squarciagola da Edward Snowden (e fin qui ok), ma è un’azienda USA (male), ed i suoi server sono ospitati da Amazon (male male).

Quindi per me sono entrambe no.

Nel vasto mondo del free software, come si diceva, esistono diverse alternative alle app mainstream più diffuse. Una delle migliori soluzioni è sicuramente XMPP. Potresti descrivere cos’è, come funziona e perché lo suggeriresti?

L’esempio più semplice per far capire XMPP a chi lo sente per la prima volta è dire: funziona come le email.

Facciamo finta che io ho un account email su gmail.com. E tu uno su outlook.com.

Io posso inviarti le mail, tu le puoi ricevere da me, e viceversa. Non importa che server email abbiamo. Non importa che applicazione usiamo per inviare le email. Funziona. Punto. Basta conoscere uno l’indirizzo dell’altro in qualche modo.

Altro esempio:

Avete presente WhatsApp? Ecco XMPP è WhatsApp. O meglio WhatsApp è XMPP.

No non lo dico per convincervi o altro, ma è proprio così a livello tecnico.

XMPP è un protocollo alla base di tanti programmi di messaggistica, tra i più famosi Whatsapp, Zoom, Hangout…

Whatsapp ha “preso” lo standard XMPP e si è fatto il suo serverone gigante, con la sua app e ha eliminato ogni possibile collegamento con gli altri server.

XMPP come le email sono degli standard.

Magari domani ci svegliamo e gmail “chiude” il suo “walled garden” come si dice in gergo, e non puoi più ricevere mail dal tuo amico che ha l’account su outlook. Già lo sta facendo in parte con i server minori, i server fatti in casa…

Dopo questo spiegone rispondo alla domanda:

Quindi, basta installare su pc o su telefono un programma XMPP, registrare un account e iniziare a contattare altre persone passandosi gli indirizzi, proprio come fosse una mail.

Così semplice? Sì.

Quasi.

XMPP è un protocollo libero ed estensibile (come dice il nome eXtensible Messaging Presence Protocol). Ed è costituito da tanti moduli, tipo mattoncini lego. Per esempio sul mio server potrei non volere attivare il modulo che riporta quando un utente è online o è stato online per mille ragioni di privacy. Lo disattivo. Mi interessa il modulo delle videochiamate? Ok lo attivo. E cosi via.

Questa infinita possibilità di personalizzazione ha però una controindicazione, cioè che i server sono diversi uno dall’altro come funzionalità e non esiste uno standard. A tamponare questo, la fondazione XMPP rilascia ogni anno una “compliance suite”, praticamente una lista di moduli che è caldamente consigliato attivare. Per controllare quanto è “standard” un server è possibile controllare il sito https://compliance.conversations.im/ e sceglierne uno in base alle proprie esigenze.

Ho detto questo, perchè è successo di incontrare persone, specialmente nelle conversazioni di gruppo, e far fatica ad aggiungerle (all’inizio). Ma successivamente zero problemi.

Se guardiamo al lato server (ce ne sono diversi di programmi che permettono di fornire un servizio XMPP) è relativamente facile sia da installare che da configurare da chi ha una conoscenza media di linux e di server (tutti abbiamo almeno un amico buono coi computer che ne sarebbe in grado, non richiede grosse conoscenze e ci sono guide validissime sul web). Consuma talmente poche risorse che potrebbe essere perfettamente gestibile da un Raspberry Pi (ovviamente se fornite un servizio per famiglia e amici, non all’intero internet).

 

I nuovi abiti del Capitalismo

Pubblichiamo la traduzione di un lungo intervento di Evgeny Morozov sul libro di Shoshana Zuboff “Il capitalismo della sorveglianza” [S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019]. In questa recensione, Morozov dimostra come le basi teoriche dello studio di Zuboff siano poco solide, basate più che altro su un funzionalismo sociologico che giustifica tautologicamente le proprie ipotesi, senza un confronto adeguato con ipotesi scientifiche diverse. “Esiste una teoria più semplice, più generale, per spiegare l’estrazione dei dati e la modifica del comportamento che Zuboff trascura, intrappolata com’è all’interno della struttura Chandleriana, con il suo ardente bisogno di trovare un successore del capitalismo manageriale. Questa teoria più semplice va così: le aziende tecnologiche, come tutte le aziende, sono guidate dalla necessità di assicurare una redditività a lungo termine. La raggiungono superando i loro concorrenti attraverso una crescita più rapida, esternalizzando i costi delle loro operazioni e sfruttando il loro potere politico. L’estrazione dei dati e la modifica comportamentale che consente – chiaramente più importante per le aziende in settori come la pubblicità online – sorgono, dove lo fanno, in quel contesto”.

Buona lettura.

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Dentro e contro internet. Laboratorio di autodifesa digitale

Oggi ci troviamo di fronte a uno scenario molto complesso ma anche di progressiva centralizzazione monopolistica del cyberspazio, con le imprese che provano ad estrarre profitti utilizzando qualsiasi mezzo a loro disposizione attraverso il modello emergente del “capitalismo di sorveglianza” gestito da piattaforme transnazionali.

Queste grandi infrastrutture risultano sempre più centrali per gli individui, ma uno dei principali giochi di prestigio che esse fanno di fronte al loro pubblico è quello di presentarsi come neutre e manipolabili, quando invece sono dei software proprietari che sviluppano degli algoritmi sempre più sofisticati che hanno due obiettivi di fondo: fidelizzare quanto più possibile l’utente ed estrarre dalle sue attività online quanti più dati possibile in modo da poterli rivendere sul mercato pubblicitario.

Un social network commerciale diviene dunque un ecosistema dal quale è difficile disconnettersi, pena la perdita di relazioni e identità sociale. La base di questa dinamica è anche abbastanza vecchia, perché la storia del capitalismo ci insegna come la merce perfetta sia quella che crea dipendenza e costringe il consumatore ad un acquisto infinito: qui siamo di fronte a piattaforme che creano strumenti di dipendenza neurologica per estrarre dati privati dagli utenti a scopo di profitto.

Quanto è possibile partecipare a questo gioco salvaguardando i propri obiettivi politici di fondo senza essere travolti e modificati? Si possono proteggere i nostri dati dallo sfruttamento commerciale? Quali attività online sono sicure per le nostre attività politiche?

Martedì 11 giugno presso lo spazio sociale Murotorto -Eboli (Sa) ore 20.00
Capitalismo di sorveglianza e free software

Mercoledì 19 giugno sempre a Murotorto ore 20.00
Anonimato, privacy, strumenti di autodifesa per attivist*

Link
https://numerique.noblogs.org/
https://www.dinamopress.it/news/piu-grande-dellurss-conversazione-nick-srnicek/
https://switching.social/

Gamification e attivismo politico

Sono passati ormai più di dieci anni da quando i social network hanno fatto irruzione e si sono prima diffusi e poi radicati nelle società occidentali, Italia compresa, coinvolgendo di fatto tutte quelle realtà politiche antagoniste, singole e collettive, che avevano sperimentato percorsi alternativi al mainstream nei primi anni di Internet. Travolti dall’esigenza di non restare separati in un limbo militante sganciato dalle masse che creavano i primi profili social, i gruppi e i collettivi cominciarono a costruire una propria presenza sui social attraverso le pagine Facebook e gli account Twitter, creando nel corso degli anni una rete interna alle piattaforme commerciali. Senza voler esprimere necessariamente un giudizio di merito rispetto a quella che è stata una dinamica storicamente avvenuta e che ha spazzato via, ad esempio, reti come Indymedia o ridimensionato altri percorsi militanti sul web, mi sembra comunque interessante ragionare non solo sugli effetti di queste scelte, ma anche (alla luce di quanto nel frattempo si sia evoluto tutto il panorama online) fare delle riflessioni che possano servire da bilancio. Quando Facebook invase le case degli italiani il suo utilizzo era appunto diffuso principalmente su desktop, prima ancora del boom del mobile e degli smartphone a basso costo con Android. Sembra, dunque, un’era geologica fa. Oggi ci troviamo di fronte a uno scenario molto complesso ma anche di progressiva centralizzazione monopolistica del web, per cui abbozzerei una parziale e sintetica rappresentazione del contesto nel quale oggi una singola individualità che vuole svolgere in rete il suo attivismo politico è costretta ad affrontare. Innanzitutto, lo sviluppo del cyberspazio si è sempre di più legato a doppio filo con i mass media classici, radio e televisione in primis, per cui si può parlare di “infosfera” come un luogo sempre meno virtuale che racchiude entrambi, con al centro una prateria sconfinata nella quale le imprese provano ad estrarre profitti utilizzando qualsiasi mezzo a loro disposizione, basandosi sul modello del capitalismo di sorveglianza gestito da piattaforme transnazionali. Secondo Nick Srnicek, autore del libro Platform Capitalism: “La piattaforma è in realtà un modello di business piuttosto datato, ma è diventato molto più pervasivo con l’avvento della tecnologia digitale. Di fatto, una piattaforma è un intermediario tra due o più gruppi diversi. Possiamo pensare alle prime piazze dei mercati, ma la piattaforma come modello è decollata soprattutto con le tecnologie digitali negli ultimi 10 anni. Facebook, ad esempio, è un intermediario tra inserzionisti da un lato e utenti, sviluppatori di software e aziende che creano pagine e chatbot dall’altro. Facebook riunisce tutti questi diversi gruppi e da essi trae il suo valore, e questo è un fatto abbastanza nuovo rispetto alle aziende più tradizionali. Queste piattaforme stanno diventando centrali nel capitalismo contemporaneo: sono, sempre di più, le aziende più redditizie, ricche e potenti del mondo”. Queste grandi infrastrutture risultano dunque sempre più centrali per gli individui, ma uno dei principali giochi di prestigio che esse fanno di fronte al loro pubblico è quello di presentarsi come neutre e manipolabili, quando invece sono dei software proprietari che sviluppano degli algoritmi sempre più sofisticati che hanno due obiettivi di fondo: fidelizzare quanto più possibile l’utente ed estrarre dalle sue attività online quanti più dati possibile in modo da poterli rivendere sul mercato pubblicitario. Quando queste piattaforme si sono diffuse, hanno compiuto una serie di ricerche di psicologia comportamentale per creare un ecosistema dentro al quale l’utente si sentisse invogliato a rimanere e produrre contenuti: oggi possiamo leggere numerosi studi al riguardo che dimostrano gli effetti neurologici provocati dalle attività online, studi sulla gratificazione che si ottiene quando si hanno i like ai propri post fino al rilascio di cortisolo che il cervello fa ogni volta che sentiamo il suono di una notifica dello smartphone. Questo è uno degli effetti più fisici e meno virtuali dell’infosfera: i nostri corpi, a contatto con dispositivi tecnologici sempre più invasivi e perennemente accesi, si stanno velocemente trasformando. Un social network commerciale diviene dunque un ecosistema dal quale è difficile disconnettersi, pena la perdita di relazioni e identità sociale, con la conseguenza di problemi fisici per l’utente. La base di questa dinamica è anche abbastanza vecchia, perché la storia del capitalismo ci insegna che la merce perfetta è quella che crea dipendenza e costringe il consumatore ad un acquisto infinito: qui siamo di fronte a piattaforme che creano strumenti di dipendenza neurologica per estrarre dati privati dagli utenti a scopo di profitto. Altro aspetto relativo a questo sviluppo abnorme dell’infosfera riguarda la cosiddetta “gamification” presente nei social network commerciali. Le meccaniche base di un gioco o prodotto gamificato sono i punti, i livelli, i premi, i beni virtuali e le classifiche. Si intravedono qui alcuni aspetti centrali dei social, dalla competizione sul numero di amici o followers, ai like ottenuti da una pagina facebook, alla costruzione di un’identità che assomiglia sempre di più al percorso di un videogioco dal quale non possiamo più uscire. Senza voler moraleggiare su queste dinamiche, resta comunque un grande interrogativo aperto sul possibile uso politico dei social network in questo dato contesto: quanto è possibile partecipare a questo gioco salvaguardando i propri obiettivi politici di fondo senza venirne travolti e modificati? Oggi assistiamo ad una progressiva professionalizzazione nei vari collettivi e gruppi politici di persone più esperte nell’uso dei social network, con militanti che devono saper aprire una pagina Facebook del proprio gruppo, creare un evento, invitare utenti etc. Chi detiene le password e i privilegi di amministrazione dei gruppi avrà un ruolo centrale nel percorso di soggettivazione delle identità politiche collettive (come insegna, su scala nazionale e di politica mainstream, il ruolo della Casaleggio Associati nello sviluppo del Movimento Cinque Stelle). In tutto ciò, uno degli aspetti da tenere in considerazione è anche il rapporto tra il proprio profilo personale di utente social e quello degli account collettivi, in quanto si creano dislivelli di potere interni ai gruppi tra chi sa gestire da influencer la sua immagine social e chi invece a stento sa esprimersi in una mailing-list. In definitiva, la costruzione di percorsi di democratizzazione e di partecipazione orizzontale nei gruppi politici risulta alquanto problematica in un contesto che nasce per l’estrazione di profitto dalla soggettivazione degli utenti. Allo stesso modo sarà complesso e contraddittorio un uso personale del proprio attivismo digitale in questo contesto di gamificazione, con il rischio di confondere i risultati di ricaduta politica del proprio impegno con le ricompense programmate dagli algoritmi dei social.

Lino Caetani

 

2018, fuga nel Fediverso

di Leo Durruti & The Mastodons

L’obiettivo di questo post è – bando ai giri di parole! – quello di incentivare le migrazioni online: la parola d’ordine è abbandonare le grandi navi per costruirne di piccole e a misura d’uomo, autogestite. Fuggire da tutto ciò che in questi anni ha monopolizzato e centralizzato la socializzazione e l’informazione su internet (questo «tutto ciò» ha principalmente due nomi: Google e Facebook). «Decentralizzare» i discorsi e riappropriarsi della privacy e dei nostri «dati sensibili». Rimettere mano agli strumenti con i quali comunichiamo chi siamo, cosa facciamo e cosa vogliamo, per evitare che le nostre interazioni costituiscano la base involontaria di enormi profitti, e di diventare gli involontari sfruttati di questo meccanismo.

Questo post è frutto di una collaborazione nata su Mastodon e di una discussione alla quale hanno partecipato a vario titolo diversi utenti. Non ci illudiamo che basti una “diaspora” volontaria a far saltare tutto. Per spezzare i monopoli [https://www.dreamgrow.com/top-15-most-popular-social-networking-sites/] occorre azione politica, conflitto sociale, e invertire le politiche pubbliche che riguardano il web e i colossi che lo dominano. Tuttavia pensiamo che i monopoli dell’informazione siano un grande problema, e che da qualche parte si debba iniziare: quindi perché non da qui? Dalle nostre scelte di utenti?

Quelle che indichiamo qui di seguito sono solo alcune delle possibili alternative ai servizi web e ai social commerciali: quelle che abbiamo provato essere efficaci e che usiamo quotidianamente; quelle con le quali abbiamo già sostituito – da tempo e a volte in maniera permanente – i servizi che eravamo soliti usare, i quali vivono di una supposta pretesa di insostituibilità, di eternità (la stessa cosa che mantiene in vita il capitalismo, guarda caso). Queste, dunque, le nostre indicazioni e suggerimenti per la «decentralizzazione».

Innanzitutto, sembra banale ma è sempre il caso di ricordarlo, è fondamentale il sistema operativo che utilizziamo sui nostri dispositivi. Usare Windows è una cattiva idea, i motivi sono noti, meglio passare a Linux o in alternativa a BSD. La distribuzione Gnu/Linux più famosa e utilizzata (e anche una delle più «maneggevoli») è Ubuntu, ma ne esistono davvero tante. Per farsi un’idea delle centinaia e centinaia di versioni di questi due sistemi operativi basta andare su distrowatch.com

Passiamo ai motori di ricerca. DuckDuckGo, Startpage o SearX sono buone soluzioni per lasciarsi alle spalle la ricerca di Google, tutta incentrata sul marketing e la personalizzazione dell’esperienza. Una personalizzazione che, come altra faccia della medaglia, ha il furto e la collezione di dati personali e la vendita di “profili” a terzi. Google non fa ricerca sul web, fa marketing con i nostri dati e il nostro «lavoro» online [https://ilmanifesto.it/antonio-casilli-i-robot-non-rubano-il-lavoro-siamo-noi-il-cuore-dellalgoritmo/].

DuckDuckGo [https://duckduckgo.com/] è un motore di ricerca che non traccia le ricerche dell’utente, non raccoglie o condivide informazioni personali. SearX [https://www.searx.me/] è un aggregatore di risultati di ricerca dei browser più utilizzati. Startpage [https://www.startpage.com/] non conserva gli indirizzi IP degli utenti e ha modificato la sua politica di uso dei cookie per non tracciare chi naviga sul sito.

Di Google possiamo abbandonare Google plus – che non serve a niente, lo avrete notato – e gradualmente («gradualmente» perché è un trasloco!) anche gmail, anch’essa parte integrante di quel sistema predatorio sul quale si regge Google: giusto qualche settimana fa, un articolo sul Wall Street Journal [https://boingboing.net/2018/07/03/if-you-use-gmail-know-that.html] ci informava che, nonostante precedenti rassicurazioni sull’interruzione della pratica, Google continua a scansionare le caselle di posta elettronica degli utenti per ricavarne informazioni utili a personalizzare le pubblicità. Ci par lecito credere che gli altri servizi email commerciali (Yahoo, Libero, Hotmail etc.) non siano da meno. Esistono invece dei buoni servizi di posta elettronica che garantiscono effettivamente la privacy attraverso la crittografia/cifratura dei messaggi. Ve ne proponiamo due: autistici/inventati [https://www.autistici.org/] e protonmail.com [https://protonmail.com/]

Per quanto riguarda le repository di app per Android, c’è un modo semplice per disfarsi di Google Play scegliendo F–Droid [https://f-droid.org/], un aggregatore di app esclusivamente free software.

Google maps può essere ben sostituita da Openstreetmap [https://www.openstreetmap.org/#map=5/42.088/12.564], la mappa globale a contenuto libero creata dal basso, con il contributo degli utenti. [vedi questo post: https://www.openstreetmap.org/user/jbelien/diary/44356]. Esiste anche una app per Android chiamata “OSM and” che svolge egregiamente tutte le funzioni di google maps.

Al momento sembra impossibile trovare una valida alternativa a Youtube per quanto riguarda l’ascolto di musica gratuita o lo streaming di video popolari. Tuttavia possiamo consigliare Peertube [https://joinpeertube.org/en/] come piattaforma alternativa per caricare e condividere video. Qual è il vantaggio? Poterlo fare senza essere tracciati.

Per seguire siti o blog, invece che affidarsi alle timeline dei social media, che non sono affatto neutrali ma scelgono attraverso un algoritmo cosa mostrarvi e cosa no (e in questo si comportano come dei veri e propri «media»), ci sono i feed RSS [https://ar.al/2018/06/29/reclaiming-rss/] e una marea di software per leggerli. Spiegare tecnicamente cosa sia un RSS sarebbe fuori luogo e anche un po’ noiso, perciò ci limitiamo a esemplificare il funzionamento di un programma che ci aiuta a leggerli: il software è Liferea [https://lzone.de/liferea/], pensato per sistemi Gnu/Linux (un altro software che legge RSS è Thunderbird; sì, proprio lui, il vostro client di posta elettronica). Basta cercare, nel blog o sito che volete seguire, il simbolo e cliccarci su, copiare il link che risulta, aprire Liferea, cliccare su «nuovo abbonamento», incollarci il link e dare OK. Ora, tutte le volte che aprirete Liferea, vi aggiornerà le vostre pagine con gli ultimi articoli pubblicati (NB: se non trovate il simbolino, non sempre ciò significa che il sito o il blog non ha un RSS; il consiglio è di provare a copincollare l’indirizzo del sito nel «nuovo abbonamento»).

E infine i social.

Il primo da cui fuggire è Facebook, che non solo fa profitti con la nostra privacy e il nostro «lavoro» e rivende profili a soggetti terzi [https://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2018-04-04/facebook-profili-ceduti-cambridge-analytica-sono-87-milioni-212600.shtml] ma decide anche, attraverso un algoritmo, cosa possiamo vedere e cosa no, spingendosi fino a pratiche che possiamo senza alcuna difficoltà definire censorie. Ricordiamo, tra i più recenti, (https://www.facebook.com/1008828154/posts/10215400368894951/ e https://www.infoaut.org/conflitti-globali/la-censura-di-facebook-sulla-solidarieta-internazionalista-alla-siria-del-nord) due episodi che hanno visto coinvolti dei combattenti delle brigate internazionali in Rojava e Siria del Nord o organizzazioni solidali. Per chi volesse ulteriormente approfondire il modo in cui Facebook si presta a far da censore, consigliamo questo articolo (in inglese): https://motherboard.vice.com/en_us/article/vbj4qb/how-fracking-companies-use-facebook-surveillance-to-ban-protest. La pratica censoria si affievolisce e diventa carezza, invece, di fronte ai “poveri” negazionisti dell’olocausto [https://www.bbc.com/news/technology-44883743], e a questa cosa un qualche significato (e un’azione conseguente) dovremmo pur darglielo. Un discorso molto simile può essere fatto per Twitter, che negli anni si è andato sempre più avvicinando all’esperienza utente e alle pratiche pubblicitarie e furtive di Facebook.

Per lasciarsi alle spalle Facebook e Twitter consigliamo Mastodon [https://joinmastodon.org/], social network decentrato suddiviso in piccole e grandi «istanze» comunicanti tra loro che si differenziano in relazione ai contenuti, agli obiettivi, alla lingua e alla regione di appartenenza, etc. Per iscriversi al social bisogna iscriversi a una di queste istanze e c’è persino un sito che vi aiuta a scegliere l’istanza adatta a voi: https://instances.social/. A questo link trovate il manifesto di Bida, alla quale sono iscritti gli autori di questo post https://mastodon.bida.im/about/more. Per gestire il social da smartphone ci sono diverse app sia per Android (Tusky, Mastalab, Tootdon) che per ios (Amarok). Mastodon ha poi il pregio di essere costruito sul protocollo di networking libero ActivityPub, base di numerose altre applicazioni social (Pleroma, Pixelfed, Peertube, etc.). Ciò significa, in pratica, che gli utenti di queste applicazioni social possono leggersi e interagire tra di loro attraverso un’unica timeline (la «federated timeline»), facendo così di questa rete un più grande social network federato.

Pixelfed [https://pixelfed.social/register] è nuovissimo social decentralizzato concepito per condividere foto e immagini, in pratica il posto adatto per chi voglia abbandonare Instagram (anche questo, ricordiamolo, è stato acquistato da Facebook)

Per i lettori che frequentano social tipo Goodreads o Anobii proponiamo infine due alternative: Open Library, gestita da Internet Archive [https://openlibrary.org/], sul quale è possibile aggiungere nuovi testi, modificare quelli esistenti, votare e commentare. L’altra è Inventaire [https://inventaire.io/welcome], una buona applicazione social attraverso la quale è possibile prestare e vendere libri ad altri lettori.

Esistono diverse valide alternative open source anche alle videochiamate di Skype (ricordiamo che il servizio è di proprietà di Microsoft e che ha una policy non certo favorevole alla privacy e all’utilizzo dei dati non a fini commerciali): Tox [https://tox.chat/], Linphone [http://www.linphone.org/], Ekiga [http://ekiga.org/]. Per quanto riguarda invece i servizi di messagistica, abbandonando Whatsapp (da quando è stato acquisito da Facebook, la famosa e usata app è stata sempre più integrata con gli altri servizi del colosso di Zuckerberg e dunque risente delle sue policy) il servizio alternativo più usato è certamente telegram. Per chi volesse però cercare qualcosa di più sicuro e meno mainstream, le alternative sono veramente tante: una è ad esempio Cryptocat [https://crypto.cat/] un’applicazione open source per criptare le conversazioni via desktop. Un’applicazione molto simile a telegram, maggiormente open source e decentralizzata, è Kontalk [https://kontalk.org/]. Un’altra ancora è signal [https://www.signal.org/], che funziona anche da app per gli SMS.

Per concludere. Esiste un sito [https://switching.social/] che si occupa specificamente e in maniera approfondita e costante del tema di questo nostro post. Alcune delle alternative che vi suggeriamo le abbiamo prese da lì. Se vi iscrivete a Mastodon vi invitiamo a seguire il loro account https://mastodon.at/@switchingsocial