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What the Health

What the Health è un documentario (o come si dice più precisamente, un docu-film) del 2017 scritto e prodotto da Kip Andersen e Keegan Kuhn, gli stessi autori del fortunato Cowspiracy. Se la prima opera si soffermava sul disastroso inquinamento provocato su scala globale dagli allevamenti animali, What the Healt prosegue idealmente questa ricerca analizzando i danni provocati alla salute dal consumo di carne, uova e latticini. Il metodo narrativo e d’indagine usato da Kip Andersen durante le scene del documentario è lo stesso di Cowspiracy: il protagonista si interroga all’inizio in maniera generica su quali siano le cause di malattie molto diffuse (soprattutto negli USA) come il diabete e quali siano gli alimenti maggiormente cancerogeni assunti quotidianamente nella dieta dell’americano medio. I risultati di questa ricerca smentiscono i principali luoghi comuni sull’alimentazione, ad esempio sul ruolo principale giocato dagli zuccheri riguardo il diabete, e portano Kip Andersen a cominciare un giro di telefonate e richieste di incontro con diverse organizzazioni che tutelano la salute dei consumatori, dalle fondazioni contro il diabete a quelle per la ricerca sul cancro. Proprio come in Cowspiracy, l’effetto di semplici richieste di incontro è spiazzante e a tratti esilarante: i responsabili di organizzazioni che tutelano i consumatori si rifiutano di parlare di alimentazione, di rispondere a domande sugli effetti cancerogeni della carne (Andersen cita sempre la fonte di queste ricerche, spesso provenienti da organismi internazionali ampiamente riconosciuti) e svicolano in maniera goffa e a volte anche aggressiva. Il perché di questo rifiuto di confrontarsi è presto svelato: i produttori delle sostanze indicate come rischiose per la salute sono gli stessi che finanziano lautamente le organizzazioni a tutela della salute. Per cui, nonostante i derivati della carne, latticini e uova siano sconsigliati soprattutto per chi ha determinate malattie, nella dieta proposta sui siti web di queste organizzazioni li troveremo indicati senza problemi. Facile fare due più due e capire il nesso. L’industria degli allevamenti animali, come spiegato bene in Cowspiracy, è un gigante del sistema produttivo americano e mondiale e finanzia a pioggia le ONG e gli stessi governi, per cui è difficile (è proprio il caso di dire) sputare nel piatto in cui si mangia. Fatta questa prima parte di decostruzione e denuncia, What the Health prosegue nella proposta di un’alternativa radicale a questo sistema, perorando la sostituzione della dieta onnivora con quella vegana. Vari medici, consumatori e attivisti vengono dunque intervistati per spiegare i benefici che comporta l’assunzione di soli prodotti vegetali. Anche qui vengono smascherati un bel po’ di luoghi comuni, come quello della mancanza di proteine nella dieta vegana: le proteine, si spiega nel documentario, sono tutte di origine vegetale, mentre quelle provenienti dagli animali lo sono solo in seconda battuta perché filtrate da quelle assunte ed elaborate dal loro organismo. Il docu-film (finanziato dal basso attraverso le donazioni sulla piattaforma indiegogo) ha avuto una buona diffusione online su Vimeo e Netflix, ma è stato oggetto anche di critiche e accuse di anti-scientificità e cospirazionismo. Non si capisce però perché gran parte delle istituzioni contattate da Andersen si siano completamente sottratte al confronto che, pur mediato dal punto di vista dell’autore, sarebbe stato comunque interessante conoscere. Non si può certo farne una colpa al regista se i responsabili della comunicazione di questi enti (governativi e non) sono scappati a gambe levate di fronte a semplici dati provenienti da rapporti delle Nazioni Unite. Così, per quanto riguarda un’altra accusa fatta al lavoro di Andersen, ovvero quella di aver costruito un prodotto confezionato per propagandare un’idea partigiana e settaria (che sarebbe quella della promozione di una dieta vegana) bisognerebbe pure ammettere da parte onnivora che il documentario espone un punto di vista senza scadere nel sensazionalismo o portando dati taroccati e controversi. What the Healt ha infatti il pregio di essere un’opera caratterizzata da un tono leggero e a tratti divertente, che rovescia uno dei principali pregiudizi anti-vegani: il concetto di buon senso auto-proclamato da parte onnivora resta difficilmente in piedi quando si mettono a confronto gli effetti delle due diete, con la grandissima differenza che emerge non solo da un punto di vista etico ma anche ecologista e di tutela della salute. Alla fine della visione del documentario resta dunque allo spettatore il benefico dubbio su cosa sia effettivamente questo cosiddetto buon senso ispirato dalla moderazione e dove sia il vero estremismo.

Lino Caetani

Sulla nostra pelle

Riceviamo e pubblichiamo:

SULLA NOSTRA PELLE: Basta repressione, basta carcere!

Dopo anni di insabbiamenti e depistaggi, la morte di Stefano Cucchi ci ha rivelato, in tutta la sua tragica durezza, una verità che spesso viene sottaciuta: lo Stato uccide, le forze dell’ordine sono responsabili di vari crimini e la struttura repressiva statale, fatta di leggi, tribunali, chiese, psichiatria, carceri e CIE, è la causa di morte e sofferenza. Non solo Stefano, ma anche Aldo Bianzino, Serena Mollicone, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Francesco Mastrogiovanni e tante altre persone sono morte tra caserme, commissariati, ospedali o per la strada. Le carceri sono un vero e proprio inferno: oggi in Italia abbiamo circa 60.000 detenuti stipati in luoghi pericolosi e sovraffollati. Mai così tanti suicidi da cinque anni ad oggi. Il numero dei suicidi in carcere nel 2018 è un ulteriore segnale d’allarme che non va sottovalutato. Dall’inizio dell’anno, infatti, sono 55 le persone che si sono tolte la vita in diversi penitenziari. Ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza: lo Stato sta costruendo nel nostro paese un sistema repressivo sempre più spietato e capillare. I lager per migranti, chiusi nel corso degli anni in seguito alle lotte delle persone recluse, sono di nuovo al centro del progetto di controllo e gestione della vita di chi approda in Italia e si prevede a breve l’apertura di altri centri per la deportazione. I vari governi che si succedono, di destra e di sinistra, procedono sempre nella stessa direzione: sempre meno libertà, sempre più controllo e repressione. Anche nella nostra città, a Salerno, la situazione è allarmante: nel carcere di Fuorni si ripetono episodi tragici. Qualche giorno fa una detenuta dell’ala femminile del carcere si è suicidata, mentre negli ultimi mesi sono stati segnalati vari pestaggi, con detenuti condotti a processo apparsi davanti al giudice pieni di lividi e con evidenti segni di percosse. Proprio come è accaduto a Stefano Cucchi. Il carcere e il lavoro di magistratura e polizia fanno parte di un unico progetto rispetto al quale non chiediamo riforme e monitoraggio di meri “abusi”episodici: vogliamo invece lottare contro l’esistenza stessa di questi strumenti che servono solo a perfezionare il potere dello Stato sulle persone. Anche nella nostra città abbiamo bisogno di una maggiore solidarietà verso chi subisce la repressione e si trova suo malgrado costretto tra le maglie di questo sistema.

Collettiva contro il carcere

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La notte della Repubblica e la damnatio memoriae del conflitto

Il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse è un episodio storico che è diventato lo spunto di una rivisitazione complessiva della stagione conflittuale degli anni settanta, anche attraverso la costruzione di un immaginario che colloca quanto accaduto in Via Fani e poi in Via Caetani all’interno di un dramma storico-teologico ricostruito ad uso e consumo dei poteri attualmente egemoni nel nostro paese.

Diverse sono le opere cinematografiche e letterarie che hanno affrontato gli eventi di quarant’anni fa, dando una particolare interpretazione della figura politica di Aldo Moro, del ruolo delle Brigate Rosse e di quanto è girato attorno a quella drammatica vicenda, presentando talvolta poteri esterni al commando brigatista come attivi in un complotto internazionale (eravamo del resto ancora nel mondo dei blocchi contrapposti USA-URSS) o addirittura richiamando la famosa seduta spiritica a cui partecipò anche Romano Prodi e da cui emerse il nome Gradoli, nome che portò la polizia a scandagliare i fondali del lago in Abruzzo piuttosto che andare nella via di Roma nella quale era detenuto il leader democristiano.

In questo articolo vorrei analizzare brevemente un’opera cinematografica che ha dato un suo contribuito alla costruzione dell’immaginario relativo al sequestro Moro.

Il film è “Buongiorno, notte”del regista Marco Bellocchio, una pellicola del 2003, della durata di 105 minuti, con Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Roberto Herlitzka, Paolo Briguglia. Il film legge la vicenda del sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse da un’angolazione piuttosto originale. Moro (Roberto Herlitzka) viene presentato come un onesto padre di famiglia, dolente e inconsapevole vittima sacrificale, mentre i brigatisti appaiono invece come una specie di setta religiosa fanatica molto “cristiana”, da intendersi nel senso deteriore del termine per il laico Bellocchio, che recita stolidamente mantra come “la classe operaia deve decidere tutto” con i combattenti che non riescono a godersi i piaceri della vita, offuscati come sono dalla loro ossessione ideologica mortifera e castrante.

Il confronto tra la brigatista infiltrata nella biblioteca statale (Maya Sansa) e il suo collega (Paolo Briguglia) che cerca di corteggiarla intuendo e stuzzicando questa sua natura frigida e non aperta all’edonismo, ci conduce ad una sorta di equivoco diacronico per cui i brigatisti nel film di Bellocchio sono un po’ come degli alieni provenienti dai freddi anni di piombo degli anni ‘70 e catapultati nell’Italia edonista del decennio successivo. Il contesto sociale è già quello della “Milano da bere” e degli yuppies degli anni ‘80, solo i brigatisti si aggirano ignari per le strade coi loro mitra senza sapere che la rivoluzione è già finita. Anche il contrasto tra i brigatisti e lo stesso personaggio di Moro è straniante, con l’immagine del brigatista rapitore con la barba lunga, un immenso boscaiolo comunista che controlla Moro nella sua detenzione, e il povero statista democristiano rannicchiato nella sua copertina di lana intento a recitare il rosario e a ripetere in maniera innocente e ingenua come la DC sia un partito popolare, disponibile al confronto con tutti, persino con gli spietati terroristi rossi.

Più che aprire uno squarcio di verità storica sul rapimento Moro, il film di Bellocchio ci rappresenta la contrapposizione ideale tra la scelta di una vita dedicata al sacrificio per un’ideologia astratta e la scelta di una vita orientata ad un edonismo post-ideologico vincente, con la figura di Moro destinata ad essere sacrificata in questo scontro tra mondi incomunicabili. Questa lettura contro-ideologica e libertaria, però, pur nella grande capacità artistica di Bellocchio, innesca una serie di cortocircuiti paradossali. Innanzitutto la presunta innocenza di Aldo Moro non è credibile, così come non può essere quella del sistema democristiano che egli rappresenta, un sistema politico atlantico-mafioso ben più violento e ideologico delle stesse Brigate Rosse, che pretendevano di combatterlo con un piccolo nucleo avanguardista, di fatto destinato al suicidio.

Non convince poi il fatto che l’irrigidimento ideologico stia sempre solo da una parte, quella degli sconfitti, e che il corso della storia sia un naturale dispiego di eventi da cui nutrirsi per la propria felicità individuale, mettendo così da parte ogni istanza etica, anche la più generica. Si finisce così per depotenziare qualsiasi ragionamento serio e l’arte di Bellocchio viene risucchiata nel consueto discorso nazional-popolare oggi obbligatorio sugli anni di piombo: il conflitto è stato una follia e anche il suo ricordo va esorcizzato per paura che si possa riproporre. Non è possibile espungere il conflitto dalla storia o sublimarlo in un vitalismo post-ideologico. Se non nelle vesti dei brigatisti, pseudo-cristiani e fanatici settari, i barbari possono sempre ritornare, anche in questo presente devastato e sterilizzato. Anzi, se ci fate caso e guardate con attenzione, sono già tra noi.

L.C.