La notte della Repubblica e la damnatio memoriae del conflitto

Il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse è un episodio storico che è diventato lo spunto di una rivisitazione complessiva della stagione conflittuale degli anni settanta, anche attraverso la costruzione di un immaginario che colloca quanto accaduto in Via Fani e poi in Via Caetani all’interno di un dramma storico-teologico ricostruito ad uso e consumo dei poteri attualmente egemoni nel nostro paese.

Diverse sono le opere cinematografiche e letterarie che hanno affrontato gli eventi di quarant’anni fa, dando una particolare interpretazione della figura politica di Aldo Moro, del ruolo delle Brigate Rosse e di quanto è girato attorno a quella drammatica vicenda, presentando talvolta poteri esterni al commando brigatista come attivi in un complotto internazionale (eravamo del resto ancora nel mondo dei blocchi contrapposti USA-URSS) o addirittura richiamando la famosa seduta spiritica a cui partecipò anche Romano Prodi e da cui emerse il nome Gradoli, nome che portò la polizia a scandagliare i fondali del lago in Abruzzo piuttosto che andare nella via di Roma nella quale era detenuto il leader democristiano.

In questo articolo vorrei analizzare brevemente un’opera cinematografica che ha dato un suo contribuito alla costruzione dell’immaginario relativo al sequestro Moro.

Il film è “Buongiorno, notte”del regista Marco Bellocchio, una pellicola del 2003, della durata di 105 minuti, con Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Roberto Herlitzka, Paolo Briguglia. Il film legge la vicenda del sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse da un’angolazione piuttosto originale. Moro (Roberto Herlitzka) viene presentato come un onesto padre di famiglia, dolente e inconsapevole vittima sacrificale, mentre i brigatisti appaiono invece come una specie di setta religiosa fanatica molto “cristiana”, da intendersi nel senso deteriore del termine per il laico Bellocchio, che recita stolidamente mantra come “la classe operaia deve decidere tutto” con i combattenti che non riescono a godersi i piaceri della vita, offuscati come sono dalla loro ossessione ideologica mortifera e castrante.

Il confronto tra la brigatista infiltrata nella biblioteca statale (Maya Sansa) e il suo collega (Paolo Briguglia) che cerca di corteggiarla intuendo e stuzzicando questa sua natura frigida e non aperta all’edonismo, ci conduce ad una sorta di equivoco diacronico per cui i brigatisti nel film di Bellocchio sono un po’ come degli alieni provenienti dai freddi anni di piombo degli anni ‘70 e catapultati nell’Italia edonista del decennio successivo. Il contesto sociale è già quello della “Milano da bere” e degli yuppies degli anni ‘80, solo i brigatisti si aggirano ignari per le strade coi loro mitra senza sapere che la rivoluzione è già finita. Anche il contrasto tra i brigatisti e lo stesso personaggio di Moro è straniante, con l’immagine del brigatista rapitore con la barba lunga, un immenso boscaiolo comunista che controlla Moro nella sua detenzione, e il povero statista democristiano rannicchiato nella sua copertina di lana intento a recitare il rosario e a ripetere in maniera innocente e ingenua come la DC sia un partito popolare, disponibile al confronto con tutti, persino con gli spietati terroristi rossi.

Più che aprire uno squarcio di verità storica sul rapimento Moro, il film di Bellocchio ci rappresenta la contrapposizione ideale tra la scelta di una vita dedicata al sacrificio per un’ideologia astratta e la scelta di una vita orientata ad un edonismo post-ideologico vincente, con la figura di Moro destinata ad essere sacrificata in questo scontro tra mondi incomunicabili. Questa lettura contro-ideologica e libertaria, però, pur nella grande capacità artistica di Bellocchio, innesca una serie di cortocircuiti paradossali. Innanzitutto la presunta innocenza di Aldo Moro non è credibile, così come non può essere quella del sistema democristiano che egli rappresenta, un sistema politico atlantico-mafioso ben più violento e ideologico delle stesse Brigate Rosse, che pretendevano di combatterlo con un piccolo nucleo avanguardista, di fatto destinato al suicidio.

Non convince poi il fatto che l’irrigidimento ideologico stia sempre solo da una parte, quella degli sconfitti, e che il corso della storia sia un naturale dispiego di eventi da cui nutrirsi per la propria felicità individuale, mettendo così da parte ogni istanza etica, anche la più generica. Si finisce così per depotenziare qualsiasi ragionamento serio e l’arte di Bellocchio viene risucchiata nel consueto discorso nazional-popolare oggi obbligatorio sugli anni di piombo: il conflitto è stato una follia e anche il suo ricordo va esorcizzato per paura che si possa riproporre. Non è possibile espungere il conflitto dalla storia o sublimarlo in un vitalismo post-ideologico. Se non nelle vesti dei brigatisti, pseudo-cristiani e fanatici settari, i barbari possono sempre ritornare, anche in questo presente devastato e sterilizzato. Anzi, se ci fate caso e guardate con attenzione, sono già tra noi.

L.C.