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L’abolizionismo deve includere la psichiatria

Ho scelto di tradurre quest’articolo perché ho vissuto e vivo da vicino (e da diverse angolazioni) che cosa sia la psichiatria, e da abolizionista mi sono sempre chiesta perché le galere psichiatriche siano ancora ritenute da tantx così necessarie. Lo dedico ad Ennio: non sei più qui, ma le nostre chiacchierate sono anche in tutte queste righe. E sempre sarai in queste lotte. S.P.

da https://disabilityvisibilityproject.com/2020/07/22/abolition-must-include-psychiatry/?fbclid=IwAR23wqh8Ao7aMdIPeBpKy9t4ouKAAj64F4nEH8zkpMUg-xErymeqQiuWWNs

di Stella Akua Mensah e Stefanie Lyn Kaufman-Mthimkhulu

Note sui contenuti: sanità mentale, razzismo, violenza, violenza di stato, incarcerazione, istituzionalizzazione, “trattamento” forzato, tortura, coercizione medica, moderazione, isolamento, abuso, violenza sessuale, colonialismo

C’è una storia pericolosa negli Stati Uniti, basata sul mito della deistituzionalizzazione dei manicomi1. Attraverso questa storia, ci viene detto che il manicomio è morto ed è una cosa del passato. Ci viene detto che, ora, i/le “pazienti” hanno diritti, sono trattati con dignità umana e non sono criminalizzatx per la loro neurodivergenza. Ci viene detto che le restrizioni e i farmaci forzati avvengono solo in casi “estremi”. Ci è stato detto che il sistema di cura della salute mentale è qui per aiutarci, sostenerci e “curarci”. E ora, quando l’abolizionismo è entrato nel discorso mainstream, ci viene detto che questo stesso sistema dovrebbe essere considerato un’alternativa all’incarcerazione nelle prigioni. Ma quellx di noi che sono sopravvissutx all’incarcerazione psichiatrica sanno che non solo il manicomio non è mai morto, ma è, ed è sempre stato, un’altra prigione. Conoscendo la verità di questi miti, lavoriamo per scrivere una nuova storia.

Come afferma Hussein Abdilahi Bulhan nel suo lavoro Frantz Fanon: The Revolutionary Psychiatrist, “la psichiatria come qualsiasi terapia dovrebbe essere l’incontro di due persone ‘libere”. Nella nostra società attuale, questo non potrebbe essere più lontano dalla verità. Ogni stato (e Washington DC) consente a una persona di essere trattenuta involontariamente per “trattamento, osservazione o stabilizzazione”. Sebbene le specifiche varino a seconda dello stato, le tre principali forme di impegno sono: ricovero d’urgenza per valutazione, ricovero ospedaliero involontario, cure ambulatoriali “assistite”. Ciò significa che altre persone possono decidere (senza il tuo consenso) che tu rappresenti un rischio per te stessx o per altrx e che devi essere rimossx o sorvegliatx all’interno della tua comunità per il “trattamento”. Sebbene le persone disabili abbiano combattuto instancabilmente per il nostro diritto a vivere nella comunità, come previsto dall’ADA 30 [Americans with Disabilities Act (ADA], dobbiamo riconoscere le numerose scappatoie esistenti che rendono la nostra reclusione involontaria in contesti congregati una realtà.

Mentre parliamo di abolizione della prigione, discorso che è stato ampiamente fondato e rimane guidato dalle rivoluzionarie donne nere, dobbiamo fare i conti con la storia della psichiatria e capire meglio come il sistema di salute mentale perpetua i processi di criminalizzazione, polizia e sorveglianza. Quando guardiamo più in profondità, possiamo vedere sorprendenti somiglianze tra carceri e istituzioni psichiatriche. Come ha descritto Leah Ida Harris, sia carceri che istituzioni psichiatriche: hanno una sovrarappresentazione di BIPOC (neri, indigeni e persone di colore), ignorano i diritti e la sicurezza delle persone TGNC (trans e di genere non conforme), utilizzano il trasporto/risposta delle forze dell’ordine, utilizzano la reclusione e l’isolamento nelle celle /”stanze”, medicano forzatamente le persone (note anche come restrizioni chimiche), usano restrizioni fisiche, offrono un accesso estremamente limitato alla luce solare, all’aria fresca, ai telefoni cellulari, alle notizie/ai media e al mondo esterno. Inoltre, la violenza sessuale è di routine, c’è un potere limitato di appellarsi a decisioni legali/mediche e la stragrande maggioranza dex detenutx sono sopravvissutx a precedenti esperienze traumatiche. Quest’anno, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura ha presentato un rapporto affermando che gli interventi psichiatrici involontari “potrebbero benissimo equivalere a tortura”.

La cultura carceraria non è risolvibile “finanziando il sistema di salute mentale” in modo più robusto. Il sistema di “salute” mentale è fondamentalmente carcerario, il che significa che è uno dei tanti sistemi affini che funzionano per contenere e sorvegliare le persone, togliere il loro locus of control, isolarle dalle loro comunità e limitare la loro libertà.

Poiché funziona in America e in tutti i luoghi toccati dal colonialismo, la psichiatria è radicata nella tortura, nella supremazia bianca e in una cultura della vergogna e della punizione. Sì, il manicomio vive e la polizia ama il manicomio.

Abolizionismo significa che tutte le gabbie vengono rimosse, comprese quelle che funzionano con il pretesto di “cure” psichiatriche.

L’abolizione della psichiatria non significa che a nessunx sia permesso identificarsi con diagnosi psichiatriche che ritengono essere loro utili, o che nessunx possa continuare a prendere farmaci psichiatrici che ritengono efficaci². Significa, tuttavia, che la nozione di “malattia mentale” è stata inventata per patologizzare le risposte logiche allo stress e ai traumi che sono onnipresenti in un mondo brutalizzato dal colonialismo e dal capitalismo. La psichiatria è stata descritta come una “colonizzazione medicalizzata di terre, popoli, corpi e menti”. Un notevole esempio delle intenzioni coloniali della psichiatria fu la diagnosi di “drapetomania”: la “malattia” mentale che spiegava perché le persone nere schiavizzate nell’Antebellum south scappavano dai loro campi di sterminio (il “trattamento” li considerava “come bambini”). Come afferma China Mills in Globalizing Mental Health, “il disagio causato dalle condizioni socio-economiche (e spesso dalle riforme economiche neoliberiste) viene riarticolato come ‘malattia mentale’, trattabile usando tecniche che attingono a motivazioni simili a quelle che inizialmente hanno portato allo stress.”

Abolizionismo psichiatrico significa che il risultato previsto e realizzato dell’avvento “malattia mentale” come significante è far sentire alle persone che non miglioreranno mai e che il loro disagio è inerente alla loro chimica cerebrale piuttosto che una reazione a stimoli esterni. Questa logica è essenzialmente victim-blaming e allontana la responsabilità dai cicli di violenza che creano le condizioni per la sofferenza psicologica – per non parlare del fatto che la teoria dello “squilibrio chimico” è stata ampiamente sfatata. Significa anche che la psichiatria è stata costruita con un desiderio fondamentale di disumanizzare, drogare e scartare coloro il cui comportamento e modi di essere sono divergenti dallo status quo. Questo status quo era ed è bianco, patriarcale e assolutamente innamorato della rispettabilità e del rispetto delle nozioni egoistiche dello stato di “normalità”.

Molti Psichiatrici Sopravvissuti hanno fatto passi da gigante nella ricerca della giustizia, delle riforme e talvolta dell’abolizionismo. Ma la natura attuale dei reparti psichiatrici, che, per la maggior parte, sono rimasti prigioni violente e degradanti in cui la maggioranza delle persone ex detenute afferma di non essere stata aiutata e di essere stata ulteriormente traumatizzata, indica probabilmente che il manicomio non è mai morto. Perché? Perché non è mai stato supposto. La psichiatria È l’etica del manicomio e il manicomio non cadrà finché non cadrà la psichiatria.

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Le nostre discussioni sull’abolizionismo psichiatrico sono approfondite quando guardiamo alla storia della cultura carceraria nelle sue molteplici forme: polizia, pena di morte, eliminazione del dissenso e, al di sotto di tutto, una fedeltà alla nozione binaria per cui ci sono brave persone e ci sono persone cattive. La punizione e l’eliminazione dex “cattivx” e delle persone dissidenti non è solo un problema americano, ma le sue manifestazioni in questo paese sono uniche e inestricabilmente radicate nella schiavitù e nel genocidio delle persone nere e indigene. In Amerikkka, coloro che sono persone “buone” aderiscono (o si adattano naturalmente) allo status quo dello Stato, e sono utili ingranaggi nelle macchine gemelle della supremazia bianca e del capitalismo. All’interno della categoria “cattiva” dello stato ci sono quellx la cui utilità per lo stato è discutibile, che include in modo sproporzionato BIPOC, persone TGNC, persone LGBTQIA2S+, persone disabili e neurodivergenti, persone povere e coloro che tentano di ritenere lo stato responsabile della sua violenza.

È anche importante che parliamo di danni. Quando moltx di noi pensano alle istituzioni, pensiamo di mantenere la società al sicuro dax più dannosx tra noi. La verità è che tuttx noi causeremo danni nelle nostre vite, e sapere questo piuttosto che proiettarlo su determinati individui è molto importante per l’abolizionismo in modo da poter praticare l’antidoto alla punizione: la responsabilità. La cultura carceraria ci ha portato a negare la nostra capacità condivisa per l’intero spettro di danni, dando la priorità al “crimine” e definendolo in gran parte in termini di come interrompiamo l’”ordine” piuttosto che come ci danneggiamo a vicenda. La verità è che le strutture a cui dovremmo aderire per essere considerate “buone” sono alla radice dei cicli di violenza che creano le nostre capacità di danno. Non solo, ma le nostre ragionevoli reazioni alla violenza autorizzata dallo stato sono considerate “dannose”, attribuendo la colpa alle vittime. Sì, c’è molto danno nel mondo, ma se proviamo a immaginare un mondo in cui le strutture coloniali non abusino più delle nostre comunità mentre sponsorizzano felicemente cicli di violenza al loro interno, è possibile vederci guarire a livello interpersonale e comunitario in un modo che ha il potenziale per trasformarci andando oltre la cultura carceraria.

Vale la pena sottolineare che la cultura carceraria esiste nel nostro mondo da almeno 4.000 anni, con alcunx antropologx che datano a decine e persino centinaia di migliaia di anni fa la pena capitale. Tutto questo per dire: la cultura della prigione e della punizione sono abbastanza fondamentali per l’umanità. Denominare la prigionia per quello che è – antica – ci aiuta ad affrontare il colossale compito di guarire verso l’abolizione. Allo stesso tempo, ci sono state – e ci sono ancora – società e comunità che resistono a gerarchie e punizioni dannose. I popoli indigeni hanno usato cerchi di parola per migliaia di anni, “che incarnavano hozjooji naat’aanii, una frase navajo che significa “qualcosa di più di ‘persone che parlano insieme per riformare le relazioni tra loro e l’universo'”.Guardiamo a queste pratiche di giustizia riparativa (RJ) come guide venerate nella nostra ricerca abolizionista. Transformative Justice (TJ) è un’evoluzione di RJ che riconosce la nostra necessità di curare anche i sistemi di oppressione che causano in primo luogo il danno alle nostre relazioni.

La cultura carceraria diffusa nel mondo è in gran parte il risultato di una gerarchia di valori umani che è servita a lungo a semplificare la nostra reciproca comprensione. Se condividiamo effettivamente la capacità di nuocere, allora siamo tuttx degnx di entrare in contatto con le nostre capacità condivise di trasformazione. Se condividiamo anche la capacità di diverse manifestazioni di stress e neurologiche, dobbiamo eliminare il binario “sano di mente”/”folle” e darci il permesso di essere liberx e trovare la guarigione. Basati sugli insegnamenti di Restorative, Transformative e Disability Justice, crediamo fermamente che un mondo post-istituzioni sia possibile e in atto.

Non c’è modo per tuttx noi di essere liberx senza smantellare i sistemi riduttivi di controllo che impongono nozioni di normalità e correttezza al servizio dello stato, le cui conseguenze sono fatali per tantx di noi. Spiritualmente, possono essere fatali per tuttx noi.

La giustizia sulla disabilità e la giustizia riparativa e trasformativa ci chiedono di immaginare il mondo in cui vogliamo vivere, collettivamente e di mettere in pratica queste idee e valori ogni giorno. Queste strutture ci forniscono gli strumenti necessari per plasmare una società che supporta la nostra guarigione. Quando pensiamo a un mondo post-psichiatrico e post-carcere, vediamo pari camminare insieme attraverso la sofferenza e sviluppare abilità empatiche che favoriscono la reciprocità. Vediamo i processi di TJ che ci aiutano a resistere alla vergogna e alla punizione, ad accettare la responsabilità e a smantellare le tendenze interiorizzate al danno e all’abuso. Ci vediamo consapevoli che la nostra angoscia è una risposta comprensibile ai cicli di danno e sofferenza³. Ci vediamo trascorrere del tempo riposante e formativo con persone amorevoli in spazi amorevoli quando siamo in crisi. Ci vediamo curare il nostro trauma secondo i nostri ritmi e nei nostri modi. Non ci vediamo più patologizzare e diffamare manifestazioni belle e innocue della neurodiversità. Non ci vediamo mai, in nessuna circostanza, introdurre farmaci psichiatrici nel corpo dell’altro senza (leggi: non coercitivo) consenso. E, forse la cosa più fondamentale, ci vede che ci prendiamo effettivamente cura l’uno dell’altro, senza paternalismo e senza imprigioniarci a vicenda mentre ci riferiamo a questa violenza come “cura”. 4

Intorno a noi si stanno già evolvendo forme amorevoli e non carcerarie di assistenza comunitaria e risposta alle crisi, per aiutarci a scrivere questa storia post-carcere. Il progetto LETS fa questo lavoro ogni giorno, attraverso i nostri modelli Peer Mental Health Advocate (PMHA) che esistono al di fuori del complesso carcerario-industriale. Altri meravigliosi esempi includono: The Hearing Voices Network, Mad in America, Sins Invalid, Health Justice Commons, Western Mass Recovery Learning Community, HEARD, e molti altri. Le basi sono state gettate, ma insieme, dobbiamo fare il lavoro di costruire, immaginare e creare i nuovi mondi in cui vogliamo vivere. Come ha brillantemente affermato Frantz Fanon, “se è la società che è ‘malata’, allora è la “società che deve essere sostituita.”

Appunti

1 Ci riferiamo alla deistituzionalizzazione come a un mito perché non è mai stata pienamente realizzata. Sebbene le popolazioni all’interno degli istituti siano state ridotte, molte delle persone della nostra comunità sono ancora incarcerate in istituti psichiatrici, carceri, case di cura, case residenziali e altri ambienti congregati usati per far sparire le persone. Per ulteriore contesto, consigliamo: Decarcerating Disability di Liat Ben-Moshe.

2 Sebbene la psichiatria sia un sistema fondamentalmente violento, ci sono alcuni farmaci psichiatrici che sono efficaci per alcune persone (sebbene il trauma culturale e strutturale che crea manifestazioni angoscianti di neurodivergenze è necessario sia la priorità). Non siamo anti-farmaci e non sosteniamo che le persone interrompano l’assunzione di farmaci a loro utili. Crediamo, tuttavia, che la creazione e l’evoluzione degli psicofarmaci potrebbe essere concretamente rilevata da entità post-psichiatriche che si riconoscono/costruiscono sulla piccola saggezza che è uscita incidentalmente da questa struttura violenta.

3 Alcune manifestazioni di neurodivergenza non si sentono come risposte a traumi interpersonali o stress. A volte questo è perché sono risposte a traumi sistemici e stress che sono così onnipresenti che non ci rendiamo conto del loro impatto sulle nostre menti e corpi. A volte, questo è perché il trauma e lo stress vengono ereditati nel corpo dai nostri genitori e/o antenati. A volte non sappiamo da dove provenga la nostra angosciante neurodivergenza, e qui sta il valore dell’identificazione con una “malattia mentale”. A volte la nostra neurodivergenza non è in alcun modo angosciante e quindi non ha bisogno di spiegazioni. Puoi scegliere il linguaggio che descriva la tua esperienza. La nostra speranza è che tu permetta a te stessx l’esplorazione di come le diagnosi e i meccanismi psichiatrici possano toglierti la conoscenza di te stessx, facendo delle scelte per te.

4 Vorremmo anche confermare che alcune persone hanno avuto buone esperienze in istituti psichiatrici. Da un’ottica abolizionista, crediamo che le parti buone di quelle esperienze potrebbero essere replicate e migliorate all’interno dei centri di riposo e altre innovazioni negli spazi di guarigione non carcerari. Inoltre, dire che hai avuto una buona esperienza in un reparto psichiatrico e quindi la psichiatria non dovrebbe essere abolita è come dire che la polizia ti ha aiutato e quindi non dovrebbe essere abolita – il punto è che sei in minoranza, e la saggezza di coloro che hanno sofferto per mano di questi delinquenti sostenuti dalle istituzioni devono essere centrali.

 

Abolo

traduzione di Camilla e Cristina

RIT:

Io che ero abolo quasi dichiarata

E ora sto con una puttana empoderada [da empowered ndT]

Non so chi sia la puttana

Lei è quella che paga

Dice che non guadagno abbastanza per pagarla (bella, bella)

 

Ha due cellulari come i gangster

Non so se a me ha dato quello dei clienti

Mi ha scritto su Instagram per criticarmi

Dice che non le piace la mia maniera di esprimermi

Dice di imparare a fare i distinguo

Tra la tratta di umani e il lavoro sessuale

Dice di smettere di dare la mia opinione senza avere idea di niente

Che tutte ci prostituiamo a nostro modo, tesoro

Nel sistema e che il lavoro salariato è la stessa merda ma con un guinzaglio diverso

Che le mie argomentazioni contribuiscono allo stigma

E che per colpa di ciò lei ha due vite

Che devo controllare quella bocca

Perché il linguaggio offende e qui siamo femministe

Che non mi scaldi tanto perché sembro moralista

Mi porta in vacanza con i soldi che alza

 

Dice che sta riscuotendo dal patriarcato

Che non mi lamenti tanto, ché con me lo fa gratis

Che non mi ha mai fatto pagare

Che la figa è le perché non è mai nato l’uomo che l’ha sfruttata

 

Ho un amore per strada (come Los Chichos) [gruppo musicale https://www.youtube.com/watch?v=-rKRgwkzW5s NdT]

Non credo a quello che dici tesoro

Che non mi rendo conto del resto degli sfruttamenti

Che se voglio non mi resta che provarci e fare a metà, mi ha detto

 

RIT x2

Mi dice: ho io il controllo mami, non sottovalutarmi

Li sto espropriando di tutto quello che ci devono

Che se parlano a nome mio

Se mi tappano la bocca, non è meno padrone quello che proibisce rispetto a quello che sfrutta

 

Stiamo facendo i soldi, cugina, che non siamo “richis”

È peggio non farsi pagare, lo ha già detto Federici

Vengono da me e chiamano ai cattivi, sono “snitchis”

Io sono una delle altre, del sindacato “bitchis”

 

Dimmelo dimmelo dimmelo dimmelo

Tu sei padrona del tuo tempo, o no?

Io metto le mie regole, le mie condizioni, i miei orari

Io segno i giorni del party sul calendario

 

Dicono che è peccato che sto vendendo il mio corpo

Ma se così fosse non ce l’avrei più, no?

Altre sorreggono il vassoio con il polso del proprio braccio

Anch’io vendo la mia forza lavoro

 

Stiamo facendo i soldi, cugina, che non siamo “richis”

È peggio non farsi pagare, lo ha già detto Federici

Vengono da me e chiamano ai cattivi, sono “snitchis”

Io sono una delle altre, del sindacato “bitchis”

 

Crimi crimi crimi criminalizzano i miei gesti

Preferiscono che concluda l’accordo clandestinamente

Dimmelo dimmelo dimmelo dimmelo

Se il tuo attuale lavoro era la tua prima opzione

RITx2

 

Pure Evil. La storia intrecciata della supremazia bianca e dell’odio verso il grasso

Fonte: https://www.bitchmedia.org/article/fat-shaming-heather-heyer-white-supremacy

di Shannon Weber

Il 12 agosto [2017 NdR], Heather Heyer ha difeso Charlottesville dalla violenza della folla dei neonazisti e dei suprematisti bianchi – e ha pagato con la sua vita quando James Alex Fields ha fatto precipitare la sua auto in una folla di manifestant@, uccidendola e ferendone molt@ altr@. Mentre milioni di persone si stavano riprendendo da quell’atto di terrorismo, Andrew Anglin, editore del sito web neonazista Daily Stormer, ha pubblicato un post sul blog intitolato “Heather Heyer: la donna uccisa in un episodio di rabbia era una grassa vecchia troia di 32 anni e senza figli. ”

“Nonostante la finta indignazione da parte dei media, la maggior parte delle persone è contenta che sia morta, poiché era la definizione di inutilità”, ha scritto Anglin. “Una donna di 32 anni senza figli è un peso per la società e non ha alcun valore.” Ha anche chiamato Heyer una “brutta grassa”, “creatura disgustosa” e “grassa grassona Heather”, tra gli altri insulti, e in seguito ha detto che si era sentito “divertito” dalle molteplici minacce di morte che aveva ricevuto a seguito della sua tirata. I membri del Daily Stormer e Stormfront, il “più antico forum web neonazista su Internet“, hanno deriso Heyer e hanno festeggiato la sua morte pubblicando meme con le parole ” BALENA COMUNISTA” sovrapposte a una foto in cui lei giace a terra parzialmente nuda mentre i medici di strada tentavano di salvarle la vita.

Il fat-shaming, insieme alla misoginia retrograda, è stato fondamentale per far avanzare la supremazia bianca negli Stati Uniti almeno dal 1800, secondo Amy Farrell, professore di studi americani e studi di genere al Dickinson College. Nel suo libro del 2011 Fat Shame: Stigma and the Fat Body in American Culture, Farrell sostiene che nel diciannovesimo secolo, il grasso divenne un indicatore per giudicare un corpo inferiore e al di fuori dei confini di quello che era considerato un “vero corpo americano”. “La grassezza”, scrive, “era un motivo usato per identificare i corpi inferiori” – immigrate, ex schiave e donne – e divenne un segno rivelatore di una persona “superiore” che cadeva in disgrazia.” Nel 1900, le cartoline che deridevano donne grasse bianche “promuovevano l’idea che il corpo di una donna bianca grassa fosse un corpo fuori controllo, attraente solo per quegli uomini che erano essi stessi meno civili.”


Una cartolina del 1907 con il gioco di parole “Discesa irlandese” si raffigura una serva irlandese di mezza età grassa che cade dalle scale e rompe i piatti dei pasti, un chiaro riferimento all’insufficiente bianchezza e all’incompetenza della donna. Farrell la definisce un’illustrazione dello stereotipo dell’immigrat@ imbroglione, stupid@ e grossolan@.

Identificare il grasso corporeo divenne un modo per classificare i corpi come devianti e difettosx. Dopo l’acclamazione di Charles Darwin nella creazione di un sistema per classificare il regno animale, alcuni scienziati sociali (che erano in gran parte bianchi e maschi) hanno tentato di escogitare un sistema simile per classificare le persone. Usando una scienza distorta, hanno giustificato le loro opinioni prevenute secondo cui il candore e la virilità erano al vertice di una gerarchia di civiltà. L’intolleranza al grasso è andata di pari passo con la disumanizzazione di persone di colore e persone di varie etnie europee non considerate sufficientemente bianche, come le persone irlandesi e italiane. Ad esempio, Saartjie Baartman è stata ridotta in schiavitù nella sua nativa Africa del Sud ed esibita in spettacoli di freaks europei a causa delle dimensioni delle sue labbra e glutei.

Alla sua morte, i suoi resti furono conservati e messi in mostra in un museo francese per decenni. La bianca mostrificazione e feticizzazione di Baartman è intimamente connessa alla sua femminilità nera ipersessualizzata e alla sua voluttuosa forma corporea. Questo uso della scienza distorta per confermare preesistenti pregiudizi è ciò che ha contribuito a spingere la popolarità dell’eugenetica per buona parte del 20° secolo, con conseguenti atrocità di massa, come la sterilizzazione forzata delle persone di colore, portoricane, delle donne indigene e delle persone con disabilità, così come la tortura psichiatrica, l’incarcerazione e l’omicidio di persone queer e trans.

Questi punti di vista hanno contribuito a spingere la popolarità dell’eugenetica fino al 20° secolo. Le ideologie eugenetiche furono esportate nella Germania nazista, dove prosperarono attraverso le mortali teorie di Adolf Hitler sulla purezza ariana. Nell’ambito dell’eugenetica del Terzo Reich, i nazisti “incoraggiarono l’allevamento selettivo per i tratti ariani (ad esempio, atletico, biondo e con gli occhi azzurri)”. L’incoraggiamento dell’atletismo al fine di propagare una razza adatta in forma è una retorica anti-grasso codificata per svalutare i corpi grassi. Il Dr. William Preble ha affermato nel suo articolo del 1915 “Obesità e malnutrizione” che “il popolo ebraico sembra propenso all’adiposità”, o al grasso corporeo, era forse una prefigurazione dell’ossessione nazista per “l’igiene razziale” e per la perfezione corporea in chiave antisemita.

Questa enfasi sui corpi in forma era associata a una fissazione sulla riproduzione eterosessuale, tutto uno sforzo per controllare i corpi delle donne bianche per fini razzisti. Secondo un suprematista bianco che capisce che “la razza bianca” deve essere preservata dal “genocidio bianco”, il controllo dei corpi delle donne bianche diventa fondamentale per la produzione del maggior numero possibile di bambini bianchi. Questo stereotipo vive in America. Uno stile simile del discorso ” il Führer sa” è in gioco nel suprematista bianco che fa fat-shaming su Heyer. Heyer, sfidando la visione normativa di magra, bionda, giovane bellezza femminile bianca rappresenta un tipo fondamentale di autonomia femminista che fa infuriare gli uomini bianchi violenti che si aspettano compliance dalle donne. Quindi, Heyer diventa “grassa grassona”, diventa – gasp! – “senza figli” e diventa il simbolo supremo del doppio standard sessuale: una troia.


E mentre le donne bianche grasse mantengono indubbiamente ancora il loro privilegio bianco (notate l’effusione di dispiacere per la morte di Heyer da parte dei bianchi che non potevano disturbarsi a versare una lacrima sugli omicidi di Rekia Boyd o Sandra Bland), essendo una donna grassa la società non consente che sia trattata con la stessa virtù e decenza umana di base che si ha per una donna magra. Possiamo vederlo dal più comune fat-shaming quotidiano al grottesco bullismo proveniente dal più alto ufficio politico del paese. Donald Trump, che ha difeso i neonazisti di Charlottesville, si è assicurato la presidenza pur essendo un accanito predatore sessuale e spietato campione di vergogna. Trump ha attaccato Rosie O’Donnell per anni, definendola “sciatta”, “maiale” con una “faccia grassa e brutta”. Ha fatto attacchi sessisti e razzisti contro l’ex Miss Universo Alicia Machado, che chiamò “Miss Piggy” e “Miss Faccende Domestiche”, costringendola ad un certo punto ad allenarsi davanti alle telecamere della TV. Il carattere e le azioni di Trump sono la prova che gli uomini bianchi al potere credono che i loro pregiudizi siano l’arbitro finale del valore di tutti gli altri. Questo fatto è applicabile in modo inquietante anche agli attacchi neonazisti contro Heyer.

Mentre si pensa ai terrificanti post di fat-shaming post-mortem su Heyer come ad un esempio di cyberbullismo sociopatico, cosa che sono senza dubbio – ed è un’esperienza fin troppo comune per ragazze e donne grasse – non dobbiamo però concludere lì la nostra analisi. Questo fat-shaming è anche un attacco a Heyer sia come una persona bianca “fallita” sia come una donna “fallita”: una “traditrice della razza bianca” che ha osato nominare la supremazia bianca e una donna incompleta che ha vissuto la vita alle sue condizioni invece che come una Barbie Ariana o come un contenitore per altrx bambinx bianchx stile Handmaid’s Tale. La Heyer fu “inutile” solo perché non sostenne un futuro distopico suprematista bianco, e per questo fu martirizzata, insieme alle molte persone di colore assassinate e incarcerate ogni giorno in nome della supremazia bianca.

La furia scatenata su Heyer da questi terroristi è, in definitiva, la rabbia degli ego feriti che non riescono a contenere lo spirito di una donna irraggiungibile. Anche se il loro odio è riuscito a ucciderla, ciò che rappresentava e ciò che continua a ispirare nelle altre persone brucia più luminoso di qualsiasi Tiki Torch culturalmente appropriata.

I 40.000 di noi che hanno marciato e si sono radunat@ insieme per difendere Boston dal razzismo, dall’antisemitismo e dall’istigazione neonazista alla violenza una settimana dopo Charlottesville ne sono la prova. Questi massicci suprematisti bianchi che screditano il valore di Heyer come essere umano non possono essere minimizzati come “trolling”. Lasciateli essere un invito all’azione nel nostro futuro attivismo mentre combattiamo per una società che esemplifica il meglio della nostra empatia umana, del nostro amore e rispetto per la differenza. Forse se lo avessimo fatto prima, un simpatizzante cyberbully e neo-nazista vergognoso non sarebbe seduto alla Casa Bianca.

Nazifemministe

di Paul B. Preciado

fonte: https://www.liberation.fr/debats/2019/11/29/feminazies_1766375

Da quando le donne parlano per sé stesse i rappresentanti del vecchio regime sessuale sono talmente nervosi che ora sono loro a rimanere senza parole. È forse per questo che i signori del patriarcato coloniale sono andati a pescare nel loro libro di storia necropolitica alla ricerca di insulti da lanciarci addosso e, caso curioso, hanno scelto quello che hanno sempre a portata di mano: nazista!

Dicono di noi che siamo delle nazifemministe. Dicono che non possono più salire in ascensore con una ragazza – che peccato – perché questa potrebbe essere una ‘nazifemminista’ che li accuserà di stupro. Dicono che non possono più esercitare liberamente l’arte della conquista virile alla francese. Dicono che le donne hanno preso il potere nelle università, che vincono premi letterari e che sono loro che, ebbre di gender studies, dettano legge nel cinema e nei media. Capovolgendo egemonia e subalternità, i padri del tecnopatriarcato attribuiscono un potere assoluto alle minoranze sessuali, alle donne, alle persone trans, omosessuali, ai froci, alle lesbiche e ai corpi di genere non binario; straordinariamente trasferiscono su quest’ultimi soggetti quelle violenze totalitarie che sono state e sono tuttora le loro. Come è possibile applicare l’aggettivo ‘nazista’ proprio ai corpi che il nazismo considerava subumani e dispensabili?

Nulla giustifica l’utilizzo dell’aggettivo ‘nazifemministe’ per qualificare le richieste di riconoscimento delle donne, delle persone trans, di quelle omosessuali o di sesso non binario come soggetti politici autonomi. Non penso che valga la pena perdersi in una discussione teorica. L’argomento migliore e più efficace è attenersi ai fatti.

Quando avremo violato e smembrato un numero di uomini pari alle donne, alle persone omosessuali o trans che avete violato e smembrato voi, semplicemente per il fatto di essere uomini, o perché il loro corpo o le loro pratiche non corrispondevano a ciò che noi intendiamo come corretta mascolinità eterosessuale sottomessa, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando avremo deciso in un Parlamento composto solo di donne, in un consiglio d’amministrazione composto solo di donne, che un uomo per il semplice fatto di essere uomo deve essere meno pagato di una donna in qualsiasi impiego e circostanza, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando vi sarà proibito di eiaculare fuori da una vagina, pena l’accusa di aborto e tutte le vostre pratiche sessuali al di fuori del letto eterosessuale saranno considerate grottesche o patologiche, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando le vostre gambe tremeranno nell’attraversare una strada buia e cercherete intimoriti le chiavi del portone nelle tasche per rientrare il più veloce possibile, quando una figura femminile in fondo al viale vi farà voltare e correre, quando le strade di ogni città saranno nostre, allora voi potrete chiamarci nazifemministe. Quando le scuole non insegneranno che libri di Gertrude Stein e Virginia Woolf e quando James Joyce e Gustave Flaubert saranno diventati degli scrittori “mascolinisti” e quando i musei d’arte dedicheranno una settimana all’anno all’esplorazione delle opere sconosciute degli ‘artisti maschili’ e quando le storiche pubblicheranno ogni dieci anni un magazine per parlare del ruolo degli ‘uomini invisibili nella storia’, allora, a quel punto, potrete chiamarci nazifemministe.

Quando le psicologhe, le psicanaliste e le psichiatre, esperte in sessualità umana, saranno esclusivamente delle lesbiche radicali che si riuniranno in assemblee chiuse per stabilire la differenza tra mascolinità normale e patologica, quando invece di commentare Freud e Lacan interpreteremo la vostra sessualità mascolina eterossessuale, le vostre aspettative e i vostri piaceri secondo le teorie di Valerie Solanas e Monique Wittig, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando le vostre madri, zie, cugine, sorelle, amiche e mogli avranno sempre qualcosa da dire sul vostro modo di vestire, di acconciarvi, di parlare, di essere brutti o grassi, belli o magri, e quando ve lo diranno costantemente, a voce alta, davanti a tutte, e fingeranno di farvi piacere con questa forma di controllo, e quando noi chiameremo questa forma di linguaggio ‘galanteria femminile’, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando usciremo in gruppo per pagarci un lavoratore del sesso precario che incontreremo mezzo nudo ai lati delle strade delle periferie delle città, un uomo giovane spesso immigrato al quale non riconosceremo il diritto al lavoro, che sarà considerato come un criminale e quando una polizia composta quasi soltanto da donne avrà il diritto di stuprare e perseguire, allora sì, nel momento in cui pagheremo cinque euro un lavoratore sessuale per una succhiata di clitoride in macchina, allora potrete chiamarci nazifemministe.

E anche se un giorno vi sottomettessimo, vi esotizzassimo, vi violentassimo e uccidessimo, se riuscissimo in un disegno storico di sterminio, espropriazione e sottomissione comparabile al vostro, allora saremmo semplicemente come voi. Allora, sì, da quel momento potremmo condividere con voi l’aggettivo ‘nazista’. Ma per essere all’altezza delle vostre tecniche politiche patriarcali avremmo bisogno di un lavoro collettivo monumentale, e di mettere in campo un odio organizzato e un’industria della vendetta che, sinceramente, non immagino né desidero. Per adesso, e lo dico con l’obiettività che metterebbe uno scienziato nel rimarcare la differenza tra il numero di granelli di sabbia del deserto del Sahara e il granello di sabbia che gli è entrato in un occhio, c’è del margine. Molto, molto margine.

Non dimentichiamo che il primo Pride della storia fu un riot contro la brutalità della polizia

di Laura Muth

Il mese del Pride è un momento di celebrazione per la comunità queer. Mentre la gioia del Pride potrebbe ancora essere un punto di partenza per la lotta in alcuni luoghi, nella maggior parte delle grandi città degli Stati Uniti questo mese sarà contrassegnato da parate e feste. I marchi pubblicitari stanno lanciando la merce timbrata dall’arcobaleno e sponsorizzano i carri da parata. Ma il Pride non è solo tempo di baldoria; è anche un momento del ricordo.

Celebriamo il Pride nel mese di giugno perché segna l’anniversario delle rivolte di Stonewall.

Nel 1969 la vita queer non era decisamente qualcosa che potesse essere celebrata dalla cultura mainstream. La polizia faceva regolarmente irruzione nei locali notturni gay, arrestando persone che indossavano vestiti che non erano conformi al loro genere assegnato o che erano sospettate di “istigare” a relazioni omosessuali. Fino al 1966 la Liquor Authority dello Stato di New York faceva chiudere o puniva in altro modo i locali che vendevano alcol ai membri della comunità LGBTQ+, sostenendo che un gruppo di persone queer era in qualche modo intrinsecamente più disordinato di un gruppo di persone etero.

Nel 1969 gli atti omosessuali – come baciare, tenersi per mano, ballare insieme – erano ancora illegali a New York. Così, la notte del 28 giugno 1969, la polizia fece irruzione nello Stonewall Inn, un famoso bar gay che è ancora aperto nel Greenwich Village.

Stonewall era uno dei pochi bar che accoglieva le drag queen, che erano spesso cacciate dagli altri spazi LGBT.

La polizia iniziò ad arrestare x proprietarx del locale e le persone dipendenti che stavano violando la legge sugli abiti adeguati al genere. Quando un ufficiale di polizia picchiò in testa una lesbica nera di nome Stormé DeLarverie perché si era lamentata che le sue manette erano troppo strette, la folla che si era radunata fuori dal club ne ebbe abbastanza.

Marsha P. Johnson, una drag queen nera, e Sylvia Rivera, una queen latina, furono due delle prime a resistere attivamente alla polizia quella notte, lanciando mattoni, bottiglie e bicchieri agli ufficiali. Le loro azioni scatenarono sei giorni di scontri nel quartiere che circonda lo Stonewall Inn e galvanizzarono il nascente movimento per i diritti omosessuali negli Stati Uniti.

Johnson e Rivera in seguito diedero vita a Street Transvestite Action Revolutionaries (STAR), un’organizzazione per giovani drag queen e donne trans di colore. Purtroppo anche oggi le persone queer di colore e in particolare le persone trans e le persone di colore gender non conforming continuano a essere le persone più vulnerabili della comunità queer, nonostante dobbiamo ringraziare Johnson e Rivera per la maggior parte delle nostre vittorie a partire dal 1969.

Oggi il 60% delle vittime della violenza anti-LGBTQ e dei crimini anti-HIV sono persone di colore, nonostante il fatto che le persone di colore costituiscano solo il 38% della popolazione degli Stati Uniti. Allo stesso modo, mentre solo il 3,5% circa della popolazione degli Stati Uniti è composta da persone immigrate privx di documenti, esse però costituiscono il 17% delle vittime secondo questo stesso studio. È difficile ottenere cifre precise sui crimini di odio, quindi c’è sicuramente un margine di errore in questi numeri, ma la tendenza è chiara e inquietante.

Nonostante la crescente accettazione della comunità LGBTQ+ in molte parti del paese, stanno aumentando anche i tassi di omicidio contro la nostra comunità. E come avrete già intuito, quei tassi sono particolarmente alti per le persone di colore trans e queer. Le persone transgender di colore affrontano i più alti tassi di criminalità violenta fra tutte le persone queer. La maggior parte delle vittime delle violenze anti-LGBTQ ha affermato che la polizia è “ostile” o “indifferente” nel momento in cui si denuncia il crimine.

Di conseguenza, moltx scelgono di non denunciare, per cui i numeri sono probabilmente peggiori di quanto noi conosciamo.

Mentre abbiamo raggiunto l’uguaglianza del matrimonio, restano ancora altre battaglie legali. Finora, solo due stati, California e Illinois, hanno bandito l’uso della “difesa da panico gay” in tribunale. In sostanza, la difesa da panico gay viene usata quando qualcunx ha commesso violenze contro una persona queer perché i presunti approcci sessuali di quella persona queer hanno reso x colpevole così spaventatx da averle aggredite.

Alcune persone sostengono che questa difesa è rara ed è improbabile che abbia successo, quindi vietarla non sarebbe necessario, ma uno studio ha scoperto che è stata utilizzata in circa la metà degli Stati Uniti, con un record misto di successi -un uomo in Texas è stato assolto dall’omicidio grazie all’utilizzo da parte del suo avvocato della scusante della “difesa da panico gay”. Ancora più importante, tuttavia, è il fatto che coloro che sostengono la necessità di vietare questa difesa sostengono anche che è importante non permettere all’identità queer di diventare una causa sufficiente per una violenza.

Ciò sembra particolarmente importante tra i crescenti tassi di omicidio nei confronti delle persone queer e trans. In 28 stati, è ancora legale licenziare qualcuno in base al suo reale o presunto orientamento sessuale o identità di genere. Dal momento che non esistono protezioni federali anti-discriminazione per le persone LGBTQ+, ci sono solo modi limitati per le persone in questi stati per contrattaccare.

Allo stesso modo, 28 stati non hanno protezioni per la comunità queer contro la discriminazione abitativa. Tre di questi stati (North Carolina, Tennessee e Arkansas) hanno persino approvato leggi statali che bloccano i governi locali dall’attuare le protezioni abitative per le persone LGBTQ+. Circa il 50% degli americani queer vive in stati che non hanno questo tipo di protezione.

E nonostante i nostri successi negli ultimi anni, l’implementazione di leggi di “esenzione religiosa” in stati controllati da legislatori repubblicani minacciano il nostro accesso a tutti i tipi di servizi e diritti, dall’adozione di bambini al ricevere cure mediche.

Adoro celebrare il Pride.

Come persona introversa, può sembrare che conservi tutte le mie energie di socializzazione per spenderle questo mese in sfilate, dimostrazioni, drag show e feste da ballo. Ma ora è un momento per non solo ricordare, ma anche far rivivere le radici rivoluzionarie del Pride.

I nostri diritti e le nostre stesse vite sono ancora sotto attacco, e le persone più vulnerabili della nostra comunità non hanno bisogno solo di solidarietà, ma di azione.

Fonte: https://thetempest.co/2018/06/26/social-justice/never-forget-that-the-first-pride-was-a-riot/?fbclid=IwAR0y8k9Fu3iKwXAax3P9nr_73iNVO6u2VIrCZmMFrBeYrz8HwTUUHeRfCpY

8 marzo, da una prospettiva decoloniale

La decolonialità non può essere l’ennesima retorica che ci dia una nicchia all’interno dei femminismi occidentalocentrici, un’identità che completi la ‘diversità’ di quel femminismo.

Di Salma Amzian e Natali Jesús

All’interno delle genealogie delle diverse comunità razzializzate esistono molte donne che hanno analizzato l’intreccio delle loro oppressioni, individuando come ostacolo la modernità occidentale e il suo falso universalismo. Quest’ultimo cerca costantemente e in forme sempre nuove di produrre astrazioni e essenzialismi per mantenere l’invisibilizzazione dei/delle disumanizzate della terra. Queste donne hanno riconosciuto rapidamente, in diversi linguaggi, la complessità delle oppressioni contro cui dovevano lottare; senza utilizzare i termini odierni la loro lotta era contro la colonizzazione dei propri corpi, delle loro menti, dei loro popoli e territori.

Violenza razzista istituzionale derivata dalla Ley de Extranjería

La ley de extranjería legittima il razzismo istituzionale e controlla i processi di regolarizzazione, ma soprattutto quelli di irregolarizzazione e di esclusione sociale delle comunità ‘altre’, non spagnole e bianche.

Nel contesto spagnolo Fatiha El Mouali, economista, ricercatrice e attivista antirazzista ha denunciato l’insieme di violenza istituzionale, economica e politica derivate dalla Ley de Extranjería che subiscono le donne marocchine migrate nello Stato spagnolo. Questa legge “subordina la situazione legale delle donne migranti marocchine (e tutte quelle provenienti dalle ex-colonie) alla situazione del marito, nel caso in cui per esempio una donna stia entrando nel paese per ricongiunzione familiare o abbia ottenuto i documenti sposandosi; ecco perché il sistema di controllo migratorio opera con una logica contemporaneamente razzista e patriarcale”.

Fatiha racconta che “veniamo in contatto con un numero molto alto di casi di ‘irregolarità sopraggiunta’, come la chiamano loro, che sarebbe il caso ad esempio di donne che non possono rinnovare i documenti perché il loro marito non l’ha potuto fare. E ciò generalmente succede perché sono disoccupati. Abbiamo anche casi di famiglie che non possono rinnovare perché hanno cambiato casa e la loro abitazione attuale non soddisfa le misure che lo Stato esige per regolarizzarti. La legge stessa crea queste violenze e la struttura che le riproduce e qui entrano in gioco tutte le politiche di immigrazione”.

Nel caso delle donne marocchine, Fatiha raccoglie molte storie, con questioni e posizioni molto diverse, e ciascuna ha a che vedere con la ley de estranjería e con le sue conseguenze dirette o indirette. La logica sottostante a tutte queste situazioni è collegata a ciò che chiamiamo colonialità, ovvero con il mantenere i soggetti provenienti dalle ex-colonie al di sotto della linea dell’umano; si creano vite usa e getta come quella del ‘moro disoccupato’. Tutto ciò si ripercuote nella costruzione della donna ‘mora’ alla quale concediamo documenti solo in qualità di “moglie di” un uomo usa e getta. Il sistema relega la donna marocchina a un ruolo esclusivamente di cura, mentre la costruisce come sottomessa e inutile proprio per il fatto di svolgere quel ruolo. L’apparato ideologico che mantiene quest’ordine perverso è stato e continua a essere analizzato anche nel nostro contesto, per chi lo voglia leggere/ascoltare.

Questa violenza razziale istituzionale fatta di effetti quotidiani, materiali, è prodotta in prima istanza dai/dalle lavoratrici delle istituzioni deputate a controllare, soccorrere, aiutare, integrare le donne razzializzate/migranti. L’intervento sociale è uno strumento dello stato razzista per controllare le popolazioni non bianche.

“Un femminismo per tutte le donne” e la questione del razzismo

“Non siamo noi a dividere i movimenti, è che i movimenti stessi sono nati divisi e frazionati per le nostre realtà e necessità. Questo ha ritardato soluzioni più radicali alla nostra problematica perché abbiamo perso molto tempo delegittimandoci l’un l’alto e facendo a gara per chi avesse la ragione storica”
Aura Cumes

La sinistra bianca inizia a parlare sempre più di razzismo, anche se fatica a comprendere gli effetti reali dell’esistenza delle razze sociali e la violenza strutturale del razzismo di stato nei confronti delle comunità razzializzate e immigrate. Con il femminismo bianco succede la stessa cosa. I femminismi bianchi perpetuano l’essenzializzazione della donna e depoliticizzano gli interessi specifici della liberazione delle donne razzializzate e immigrate.

La categoria di donna come genere è già di per sé un termine coloniale. Lo hanno fatto presente diverse pensatrici come Oyeronke Oyewumi, la quale ha mostrato che anche le femministe “hanno camminato su un sentiero imperiale, aperto dal colonialismo e dal razzismo. Invece di essere coscienti del proprio vantaggio razziale si comportano come se la questione riguardasse l’evoluzione della propria cultura e per questo pretendono di civilizzare e salvare le donne africane”.

Chela Sandoval segnala che le donne razzializzate, a causa dell’oppressione di classe, genere, per la loro cultura, ma soprattutto per la razza, percepiscono che si possa loro negare l’accesso a una categoria di genere legittimata come quella della donna. Queste riflessioni contraddicono l’unità che le femministe bianche cercano erroneamente, così come la costruzione costante dell’omogeneizzazione; si focalizzano in un’oppressione come donne e dissidenti sessuali ma ignorano la differenza di razza, spesso coprendola con termini come sorellanza. Su questo ci avvertiva Audre Lorde mettendo in evidenza come “ignorare le differenze di razza tra donne e le implicazioni di queste differenze rappresenta la minaccia più grave alla mobilitazione comune”. Ci sarebbe da chiedersi se basti riconoscere le differenze per impegnarsi in una lotta decoloniale di donne.

Anche se negli ultimi anni abbiamo osservato un interesse nell’individuare le differenze – anche facendo un uso ‘sbiancato’ dell’intersezionalità – le richieste delle donne razzializzate si sono trasformate in un insieme senza importanza, in qualcosa di secondario. Inoltre lo pseudo riconoscimento delle differenze, il discorso dell’inclusione di donne razzializzate e migranti e la strumentalizzazione dell’intersezionalità hanno generato una specie di legittimità della sinistra bianca, mentre le nostre rivendicazioni sembrano essere una costante interferenza per il movimento ‘unificato’ delle donne bianche.

Le donne provenienti dall’immigrazione post-coloniale e le donne razzializzate nello stato spagnolo si trovano in una situazione molto specifica dinanzi alla violenza strutturale del sistema razzista e patriarcale. Non possiamo dimenticare ciò dice che Aura Cumer, pensatrice maya Kaqchikel: “fu sempre la colonizzazione ad avvicinare le donne bianche agli uomini per mezzo di un patto razziale, perché sebbene li divide la differenza di genere, li unisce il privilegio di razza”. In questo contesto mettiamo perciò in discussione l’alleanza ‘naturalizzata’ con le donne bianche, mentre vogliamo imparare dai femminismi neri e terzomondisti, che si allearono per i propri posizionamenti politici affini in merito all’oppressione di razza e che hanno costruito la propria coalizione attraverso impegni continui.

La disparità coloniale e l’oppressione razziale insinuano che la nostra liberazione causerebbe anche la perdita di potere delle donne bianche. Invece sono loro che devono rompere quel patto tacito con un sistema coloniale e uno Stato razzista, dominato dagli interessi capitalisti e imperialisti di cui hanno storicamente beneficiato e farla finita con queste logiche coloniali di lotta all’interno dello stato nazione. E unirsi invece a un reale progetto antisistemico, perché questo sistema perpetua la distruzione di ogni vita, di altre forme di sapere e di stare al mondo.

Nello stato spagnolo il femminismo bianco eurocentrico non ha smesso di agire. Il razzismo esercitato anche dalle femministe ha associato le donne razzializzate e immigrate a un patriarcato meno civilizzato, più volgare: conseguentemente siamo state inferiorizzate da un immaginario coloniale e civilizzatore. In questo contesto le donne razzializzate hanno esperienze comuni e sono capaci di sfidare e comprendere l’intero sistema strutturale oppressivo dello Stato in una dialettica con i propri fratelli e padri. La nostra voce è vitale, nel senso più letterale possibile.

Una prassi femminista decoloniale dall’Europa?

Arrivate a questo punto serve domandarsi: quale approccio abbiamo, qui e ora, noi donne migranti/razzializzate?

In generale ci troviamo a chiedere quote di rappresentazione all’interno del femminismo bianco e delle sue organizzazioni. Stiamo cioè colorando le narrative di liberazione moderna, legittimando la colonialità; o meglio, sperando che i movimenti di donne bianche con le loro narrazioni vogliano inserire nella loro agenda le nostre esperienze e richieste; riproducendo e legittimando l’assistenzialismo, assumendo e invisibilizzando il razzismo; aspettando che la femminista bianca di turno ci dia il permesso di portare l’hijab, di vivere le nostre vite, che trovi un modo di modellare le nostre esperienze di oppressione ai suoi schemi. Quando ci dicono che c’è posto per noi, chi stanno lasciando fuori o in cosa ci hanno trasformato? Stiamo forse cercando un riconoscimento individuale, elemosinando l’approvazione del/della bianco/a? Coinvolte in questa dinamica continuiamo ad alimentare la fascinazione per il/la bianco/a pretendendo di apparire astrattamente nei discorsi e nei progetti di emancipazione costruiti senza di noi e quindi contro di noi. Chiedere quote di rappresentazione si è già dimostrato inutile.

La domanda per noi è: per cosa lottiamo nel contesto spagnolo? Come ci organizziamo politicamente e strategicamente contro le oppressioni sistemiche che ci riguardano? Sicuramente non ci aspettiamo di trasformarci in qualche versione della donna bianca, né ancor meno dell’uomo bianco dominante. Il femminismo bianco esige che lo rendiamo compatibile con le nostre lotte antirazziste, di genere misto o non misto. Ciò che non possiamo permetterci a questo punto è imitare i metodi di liberazione femminista occidentalocentrici.

Rompere col processo di integrazione come pratica politica antirazzista comporta anche che mettiamo in discussione le forme di liberazione che abbiamo interiorizzato.

Un altro aspetto importante è trovare una strategia politica per lottare come donne razzializzate e migranti. Houria Bouteldja sottolinea l’importanza di comprendere bene contro quale egemonia lottiamo, e da dove origina la violenza. Non possiamo agire dalla stessa posizione di enunciazione delle donne bianche. Attraverso un’analisi più materialista e tenendo presente che sebbene le donne bianche sono vittime di violenza sono anche loro a livello strutturale quelle che opprimono il resto del mondo, comprese altre donne.

Nella lotta per un antirazzismo politico dobbiamo intendere il razzismo, il sessismo, le pratiche del capitalismo razziale e quelle imperialiste dello Stato come gerarchie collegate tra loro. D’altro canto se la sinistra bianca non lo capisce non potrà nemmeno comprendere come si costruiscono i discorsi delle donne razzializzate – né delle loro comunità o popoli colonizzati – dai quali nascono i loro movimenti. Se realmente lottiamo per una liberazione dobbiamo finirla con la fascinazione per l’occidente, che ancora ci lega a quelle narrazioni eurocentriche, e per il sistema fondato dall’uomo bianco attraverso la colonizzazione. Non è questo ciò che ci insegnano le nostre genealogie?

Ripensare l’eurocentrismo che struttura molti dei nostri spazi di lotta, così come rompere il silenzio, sono atti decoloniali. Dobbiamo abbandonare, se la nostra azione vuole essere davvero decoloniale, le pratiche che ci conducono solo a colorare la modernità, e che hanno come risultato soltanto la sua legittimazione e radicazione. Non dimentichiamoci che non siamo soltanto donne razzializzate.

Viviamo in una geografia europea e pertanto beneficiamo di questa civiltà di morte, liberale e imperialista, che si fonda e si rigenera sulla dominazione e sullo sfruttamento dei popoli del Sud – delle sue donne, dei suoi uomini, dei suoi bambini e bambine – e abbiamo una responsabilità nei confronti dei nostri popoli di origine.

La nostra critica è più complessa perché è la colonialità a ucciderci. Un progetto decoloniale in relazione alla lotta delle donne deve sviluppare un’altra politica e un’altra metodologia di liberazione. Dobbiamo riconoscere quando la nostra pratica politica si rende funzionale ai movimenti nati in seno alla modernità occidentale, quando si rende funzionale insomma alla colonialità.

La decolonialità non può essere un’ulteriore retorica che ci conceda una nicchia all’interno dei femminismi occidentalocentrici, un’identità che completi la ‘diversità’ di quel femminismo. Se ci sentiamo a nostro agio con quelle posizioni, tanto vale essere sincere con noi stesse e coi movimenti di uomini e donne del Sud che stanno costruendo alternative reali a questa civiltà di morte e smetterla di ‘sbiancare’ le loro lotte, i loro discorsi, le loro epistemologie.

Abbiamo grossi dubbi che il fine della decolonialità nata in quei territori serva a che noi, donne razzializzate che viviamo a Nord, possiamo inserirci meglio negli spazi bianchi.

Frasi come “io sciopero per quelle che non possono, per le migranti precarie senza documenti” per le nostre madri che non hanno letto i manifesti dello sciopero perché non sanno leggere e scrivere, per le nostre sorelle che non scioperano perché nessuna le ha invitate né le aspetta. Andare noi, dalle nostre posizioni di privilegio nei loro confronti, significa celebrare quel privilegio. Ancora di più quando, come sappiamo, lo sciopero è una strategia di lotta di uno spazio politico che non pensa da (né pensa a) le esperienze di quelle (nostre) donne. Noi che per la maggior parte non siamo più in quella situazione (anche se le nostre famiglie e amiche si) decidiamo di andare a quello sciopero per loro in un esercizio di universalizzazione delle strategie femministe bianche reinventate e relegittimate sui nostri corpi e nelle nostre pratiche, stavolta col nostro beneplacito. Smettiamo di celebrare la colonialità?

Fonte: https://www.elsaltodiario.com/1492/8m-perspectiva-decolonial

 

Non ci sarà libertà per tutti i corpi senza la liberazione di donne e femme grasse nere

Ho deciso di tradurre quest’articolo perché in Italia, più che in altri paesi, sono ancora troppo forti la discriminazione e i pregiudizi sul grasso. Anche in ambienti che consideriamo “liberati” e che in altri campi sono molto critici rispetto a ciò che viene promosso dal sistema, in questo caso risultano quietamente accondiscendenti rispetto alle informazioni che scienza e media forniscono, senza alcun tentativo -neppure goffo o incompleto- di analisi radicale, che possa connettere l’oppressione della grassezza ad altri sistemi di oppressione -penso soprattutto all’oppressione del genere, della razza, dell’abilismo. Per questo motivo anche in Italia ha preso piede il movimento body positivity che con la sua lettura bianca ed edulcorata di quello che è un vero e proprio squilibrio di potere finisce per perpetrare immaginari grassofobici e coltivare la grassofobia interiorizzata sia nelle persone grasse che nelle persone magre. SP

Da https://wearyourvoicemag.com/body-politics/bopoincolor/body-positivity-white-supremacy-fatphobia?fbclid=IwAR0NrQPCI7ePtIfMqi0ET2X4LzbzNy8d18GRkHpC9_3etVyTRAWeAS63AWI

Nel suo pezzo per la nostra campagna #BodyPositivityInColor, Sydney Greene scrive su come la comunità body positivity si basi e celebri cisgender, donne bianche sottili e cancelli così il motivo per cui abbiamo bisogno di accettazione del grasso, ignorando il lavoro di donne e femme grasse nere che hanno iniziato il movimento di accettazione del grasso come bisogno di liberazione.

Di Sydney Greene

Il movimento body positivity – che mira a difendere l’accettazione e la salute in ogni dimensione – ha lavorato molto nel modo in cui la società vede e accetta i corpi. Ma come ogni movimento sociale, le sue carenze sono radicate nella mancanza di riconoscimento delle persone grasse, che -nonostante la creazione del movimento per l’accettazione del grasso- continuano ad affrontare una tumultuosa battaglia perché i loro corpi continuano ad essere sottoposti a controlli, messi in discussione o semplicemente cancellati.

Il mese scorso, il commentatore culturale Ashleigh Tribble di AshleighChubbyBunny, ha scatenato una discussione necessaria e veritiera su come il movimento per la liberazione di tutti i corpi si è trasformato in un movimento imbiancato e cooptato, in cui il riconoscimento e l’accettazione di corpi grassi, in particolare quelli di donne e femme grasse nere, è scarsa. Le parole di Tribble erano basate sulla foto di una “Body Confidence Coach” di Instagram– una donna bianca e magra seduta su un letto e che si afferrava lo stomaco, sottolineando il “grasso” che si trovava nella sua parte centrale.

L’immagine è solo una delle migliaia di foto #bodypositivity simili sui social media. Con una rapida ricerca dell’hashtag su Instagram, troverai donne bianche per lo più sottili, che sfoggiano le loro cosce leggermente floride con la cellulite o che posano sfacciatamente in bikini a mangiare la pizza, il tutto in nome della liberazione. Nell’era di internet, il movimento di positività del corpo ha sfornato influencer e blogger che hanno sviluppato seguaci stile-culto costruendo i loro brand sulla body positivity, arrivando a migliaia di follower, offerte di libri e workshop su come “amare il tuo corpo”.

Ma per coloro che esistono al di fuori dello spettro di un corpo “slim thick“* –corpi curvy accettabili con cosce spesse, vita piccola e pancia piatta – questo cosiddetto movimento di empowerment e accettazione non ha accolto tutt* a braccia aperte, in particolare donne nere e femme particolarmente grasse che sono state le radici del movimento.

“Sono una voce forte per donne nere e femme grasse perché non sono questo”, ha detto Tribble a Wear Your Voice Magazine. “Le donne e le femme grasse sono sempre mammifere, ipersessualizzate, disumanizzate, usate per il momento comico o come esempi da non seguire, e io non esisto in nessuna di quelle realtà, quindi volevo mostrare qualcos’altro”.

Ma le forze della supremazia bianca, dell’anti-nero e della grassofobia si sono infiltrate in uno spazio un tempo accogliente per donne nere e femme grasse e l’hanno trasformato in uno spazio pesantemente commercializzato e grassofobico, deviando nettamente il movimento dal suo scopo originale. Il movimento di body positivity è stato originariamente scolpito in uno spazio dove l’accettazione e l’amor proprio – che sono spesso riservati a corpi bianchi, sottili e in forma – aveva tutto il diritto di essere riservato ai corpi emarginati (grassi, trans, queer, disabili, di colore). Molti “influencer” e “attivisti” di body positivity – in particolare quelli con corpi privilegiati – si sono concentrati nel movimento pur non riconoscendo la presenza di persone grasse e, cosa più importante, il lavoro di donne e femme grasse, che hanno dato a quelle influencer bianche la liber di restare nei loro privilegi.

L’anno scorso, l’attrice Rebel Wilson –che ha parlato candidamente della body image– ha ricevuto critiche dopo aver affermato di essere stata la prima donna grassa a recitare in una commedia romantica, nonostante grasse donne nere come Queen Latifah e Mo’Nique avevano recitato in commedie romantiche mentre Wilson stava ancora lanciando la sua carriera di attrice nel 2002. Tuttavia Wilson ha ribadito la sua idea e ha poi sostenuto che si era creata solo una “zona grigia” con le due attrici perché o non potevano essere considerate plus size oppure gli studi che avevano gli attori potrebbero non aver fatturato i loro film come commedia romantica.

La risposta di Wilson è stata un debole tentativo di svalutare il lavoro che donne nere grasse avevano fatto con successo prima di lei e che ha spianato la strada a Wilson nel suo film nel 2019. È una narrazione che vediamo troppo spesso nel movimento della body positivity, e le donne bianche hanno bisogno di riconoscere e risolvere questo problema.

All’interno dei movimenti sociali nel corso della storia accade in modo ricorrente che un gruppo privilegiato si concentri sul fronte del movimento mentre intrappola altre voci marginalizzate alle spalle, ma contemporaneamente fa ancora affidamento sulle mani di quelle persone marginalizzate per fare tutto il lavoro. Nel discorso di Sojourner Truth Ain’t I A Woman” alla Convention della destra femminile dell’Ohio nel 1851, Truth ha criticato la cancellazione delle donne nere nel movimento Abolition e nel movimento Suffrage. Truth ha sfidato le donne bianche del movimento Suffrage che hanno focalizzato il loro attivismo sulle esperienze vissute dalle bianche ed hanno escluso le esperienze delle donne nere.

Le parole di Truth possono essere valide anche nel movimento di body positivity. Le donne grasse nere e le femme come Sonya Renee Taylor, Stephanie Yeboah e Ashleigh Shackleford sono nomi che si perdono in un mare di blogger privilegiat* bianc* e magr* che vogliono che tu creda alla loro versione di body positivity -e non danno nemmeno credito alle donne che l’hanno iniziato, per non parlare della loro complicità nella supremazia bianca e nella grassofobia.

“È importante essere critic* verso le donne bianche e le loro carenze in questo movimento perché il loro coinvolgimento mantiene solo lo status quo”, ha detto Tribble. “A causa della loro posizione come standard di bellezza nella nostra società occidentale di supremazia bianca, non ha senso continuare ad essere centrat* su loro e sulle loro questioni in opposizione alle persone che si occupano di questioni a loro estranee, che restano marginalizzate dai sistemi di oppressione per non essere donne bianche e magre.”

Le persone lungo lo spettro possono avere difficoltà ad accettare i loro corpi e possono soffrire gli effetti della grassofobia come disturbi alimentari e problemi di immagine del corpo. Ma non riconoscere i propri privilegi all’interno del più ampio contesto del movimento di body positivity e il modo in cui il corpo di qualcun* può essere più accettat* rispetto a corpi più grassi, fa un cattivo servizio al movimento. La vera intenzione di #bodypositivity è accettare e celebrare tutti i corpi, liber* da oppressione. Non riconoscendo le radici del movimento – quelle radici che sono donne e femme di Fat Black – non promuove la liberazione per tutt*.

Sgranocchiare e spremere il grasso dello stomaco e schiaffare un tag #bodypositivity su di esso non è liberazione. Ignorare i sistemi di supremazia bianca e anti-nero in relazione alla grassofobia non libererà tutti i corpi. La vera liberazione per tutt* è una riflessione di come i privilegi -non importa quanto questi privilegi siano consapevoli- possono ancora avvantaggiare alcun* e, d’altra parte, possono creare attivamente spazio per coloro che hanno corpi più emarginati.

Oltre l’ironia. Nanette e la trasformazione della stand-up comedy

Non è facile per me parlare di cosa abbia significato vedere ed ascoltare l’ultima performance di Hannah Gadsby, Nanette; dopo diversi giorni e tre visioni ancora sento risuonare dentro l’emozione.

Non mi ha mai attirato la stand-up comedy: non sopporto l’umorismo delle grandi voci privilegiate tutto giocato sulle discriminazioni e gli stereotipi e quando voci emarginate prendono parola spesso –troppo spesso- il modo più rapido ed efficace per essere ascoltate si basa su un umorismo autoironico, in una realizzazione della propria marginalità sul palco che mi suona da sempre davvero terribile.

Non è mai stato così per Hannah Gadsby, che ho sempre ammirato per il suo restare fuori da un facile umorismo e non può davvero essere così per la graffiante comedy Nanette.

Molt* comic* prima di lei hanno raccontato la loro esperienza di vita, ma Hannah fa molto di più: attinge a piene mani dalla sua stessa identità con l’obiettivo di incriminare la commedia stessa per la sua incapacità strutturale di fare di più per sostenere tutte le voci che sono costrette ai margini.

La performance di Hannah in Nanette è fondamentalmente un atto in tre parti di un discorso transfemminista profondamente radicale costruito tutto attorno alla sua esistenza fisica: ci porta al confronto con la realtà della sua identità fisica; poi afferma la propria umanità; infine sfida il pubblico a vivere il disagio che deriva da quella affermazione, senza concedere più il rilascio della tensione dato dalla battuta.

Hannah passa quindi i primi minuti di Nanette a far familiarizzare il pubblico con la sua identità, a rendere evidente ciò che significa esistere come donna queer, butch, non binaria, in un sistema sociale che ti ha sempre reso la battuta finale. Descrive come sia crescere come lesbica nella Tasmania conservatrice, isola famosa per le sue patate e per lo “spaventosamente limitato patrimonio genetico”, dove l’omosessualità era illegale fino al 1997. E fin qui piovono risate.

Poi, facendo riferimento al commento di un membro del pubblico che aveva obiettato non ci fossero abbastanza “contenuti lesbici” nel suo ultimo spettacolo, lei risponde: “Sono stata sul palco per tutto il tempo”.

Con questa battuta Hannah affianca perfettamente due idee che formano un paradosso: da un lato la centralità della sua identità all’interno della sua commedia, e dall’altro l’incapacità della commedia stessa di saper affrontare la complessità di tale identità.

Infatti dopo poco annuncia: “Dovrei smettere di fare comicità”. E da questo punto in poi Nanette diviene una folgorante rivelazione. “Ho fatto dell’autoironia il mio cavallo di battaglia. Ci ho costruito una carriera. Ma non voglio più farlo. Perché vi rendete conto di cosa può voler dire l’ironia per qualcuno che già di suo è marginalizzato? Non è umiltà. È umiliazione. Ironizzo su me stessa allo scopo di parlare, allo scopo di chiedere il permesso di parlare. E ho deciso che non lo farò più, né a me stessa né a chiunque si identifichi con me.”

E continua, scendendo ancora più in profondità nella disamina del suo lavoro: “Una battuta è fatta di due cose che lavorano insieme: un inizio e una battuta forte. Essenzialmente è una domanda con una risposta sorprendente. Ma in questo contesto una battuta non è altro che una domanda che io ho inseminato artificialmente. Tensione. È il mio lavoro. Suscito tensione in voi per poi farvi ridere e dire: “Grazie. Mi sentivo un po’ teso.” Sono stata io a farvi sentire tesi! È un rapporto pieno di abusi.”.

E questo è il cuore di tutto. Nanette è una performance sull’abuso: su come * comic* abusano del pubblico, su come gli uomini abusano delle donne, su come la società abusa della vulnerabilità delle persone che vivono ai margini.

Hannah dice che nel diventare una comica è stata complice del suo stesso abuso e di quello delle persone che si identificano con lei, poiché ha coperto la sua storia di traumi con le risate invece di scavare in profondità.

A questo punto la performance diventa sempre più cruda, le battute sempre più rare fino a tutta la potenza dell’ultimo atto di Nanette, in cui Hannah deliberatamente smette di essere divertente e diventa invece brutalmente onesta e coraggiosa conducendoci in un breve viaggio nella storia dell’arte e della malattia mentale di cui l’arte è inevitabilmente intrisa, una malattia mentale terribile, la misoginia.

E soprattutto in un viaggio nella sua vera storia personale, fatta di abusi e violenze. E inevitabilmente in questo momento, che è il più toccante e il più devastante del suo intero racconto, il pensiero vola velocemente al movimento #metoo e alla sua furia: quel movimento ci ha cambiate, ci sta cambiando; così come spero Nanette cambierà la commedia e tutt* * comic* non riescano mai più a dimenticare l’orrore che celano le loro battute.

S.P.