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Ivan Illich, attualità e solitudine di un pensiero necessario

Una società che definisce il bene come il soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a “imporre” il consumo e mutila in modo intollerabile l’autonomia della persona. Nella misura in cui il consumo programmato aumenta, l’austerità adottata per scelta personale diventa un’attività antisociale. Una soluzione politica alternativa a questo utilitarismo è quella che definisce il bene come la capacità di ciascuno di modellare l’immagine del proprio avvenire.

I.Illich, La convivialità, Boroli Editore, 1973, p.26

Mai come in questo periodo storico appare al contempo particolarmente inattuale (e quindi necessario) il lascito di un pensatore come Ivan Illich, un autore singolare ed eterodosso che si stenta a catalogare. Il pensiero di Illich è stato sempre solitario, forse anche perché ha iniziato ad avere una certa diffusione negli anni ‘70, ovvero nel momento storico in cui i filoni marxista e cristiano si incontravano nel tentativo di produrre innesti come la teologia della liberazione. Illich ha infatti proposto da un lato una teologia negativa molto distante anche dalla teologia politica che andava di moda all’epoca nel cattolicesimo democratico e dall’altro ha sviluppato una parallela critica radicale del marxismo, distanziandosi da tutte le categorie interne al pensiero moderno, positivista e scientifico.

Oggi ci troviamo di fronte a una caduta quasi macchiettistica del marxismo, ridotto ad un disperato tentativo di riproposizione ottusa proprio di quelle sue caratteristiche compatibili col pensiero capitalista che furono un tempo già criticate dall’operaismo di Panzieri e Tronti, ma anche dal lavoro di Bordiga, per citare due delle scuole marxiste minoritarie del Novecento. Dialettica hegeliana e dispositivi meccanicistici di rapporto tra struttura e sovrastruttura, funzione storica del partito e della classe, conflitto capitale-lavoro inteso come astrazione puramente economica: tutti concetti appartenenti ad una lingua di legno e ad un sistema morto che si tenta inutilmente di resuscitare contrapponendolo al contemporaneo disastro della cultura e della politica liberale, anche di sinistra.

Illich ha avuto il merito di scavare un tunnel sotterraneo opposto sia al modernismo marxista che a quello cristiano, ritrovandosi in una terra straniera di cui soltanto oggi capiamo l’importanza e la necessità per una critica al capitalismo che sia efficace. Pensiamo a un testo come “Descolarizzare la società”, pubblicato nel 1971, che ricevette anche un discreto successo, per poi essere relegato nel dimenticatoio assieme a tutta quella serie di scritti critici della pedagogia e dell’istruzione che oggi sono sommersi da un’ondata di studi e riflessioni che vorrebbero umanizzare la scuola-azienda (mission impossible).

Interrogato sull’origine e il significato di questo testo, Illich affermava che: “Se la danza della pioggia non sortisce alcun effetto, puoi biasimare te stesso per avere danzato nel modo sbagliato. La scolarizzazione, come ho potuto via via rilevare, è il rituale di una società impegnata nel progresso e nello sviluppo. Essa crea quei miti che per una società consumistica sono una necessità. Per esempio ti fa credere che l’apprendimento può essere diviso in varie parti e quantificato, o che è qualcosa che acquisisci solo attraverso un processo. Un processo nel quale tu sei il consumatore e qualcun altro l’organizzatore, e tu collabori producendo la cosa che consumi e interiorizzi. Perciò sono giunto ad analizzare la scolarizzazione come il rituale di fabbricazione di un mito, il rituale che crea un mito su cui la società contemporanea poi costruisce se stessa. Ne deriva, per esempio, una società che crede nella conoscenza e nel confezionamento della conoscenza, che crede nell’invecchiamento della conoscenza e nella necessità di aggiungere conoscenza a conoscenza, che crede nella conoscenza come valore – non come bene, ma come valore – e che quindi la concepisce in termini commerciali. Tutto ciò è fondamentale per essere un uomo moderno e vivere nelle assurdità del mondo moderno” (D.Cayley, Conversazioni con Ivan Illich. Un archeologo della modernità, Eleuthera).

Ricostruendo quello che è il progetto fondamentale della scienza moderna, Pierre Thuillier racconta nel suo libro “Contro lo scientismo” (S-edizioni) questa ossessione per il quantitativo:

la quantificazione è divenuta un’ossessione socioculturale. Gestire le giacenze, verificare le quantità consegnate, calcolare le entrate e le uscite, i guadagni e le perdite, tutto questo è entrato nei ranghi delle competenze che bisognava assolutamente padroneggiare […] C’è stato bisogno che i mercanti acquisissero un grande potere sociale perché la “natura”, infine, diventasse veramente l’oggetto di una fisica degli “scambi razionali”. La nozione di energia riceverà, a sua volta, lo stesso trattamento. Ancora oggi possiamo vedere chiaramente le tracce di questa metafisica da droghiere in un’espressione quale “il bilancio energetico”(pagine 40-41).

L’homo scientificus realizza il suo principio attraverso cui “se si può fare, allora facciamolo”. E così nei report che misurano e quantificano la distruzione del pianeta (deforestazione, allevamenti intensivi, estinzione di specie animali, cambiamento climatico, etc.) possiamo anche leggere quanti miliardi di dollari perdiamo all’anno in seguito a queste catastrofi ben poco “naturali”. Si possono quantificare i ricavati della trasformazione del mondo così come gli effetti della sua completa distruzione. Non è nient’altro che un bilancio economico.

Anche se oggi leggiamo interessanti analisi di una corrente di pensiero marxista come quella dell’eco-socialismo, da queste riflessioni mancano quasi sempre tutte le vite delle varie differenti specie animali che popolano questo disgraziato pianeta. La lettura di fondo rimane quella antropocentrica e scientista, per cui la “natura” è un oggetto di studio e trasformazione ad opera dell’uomo, meglio se fatta dal socialismo piuttosto che dal capitalismo, ma sempre oggetto che gli umani modellano a loro piacimento. Il concetto di totalità (caro al pensiero hegeliano, marxista e cristiano) è completamente interno ad un pensiero della violenza razionalizzante, un pensiero che resta ancorato alle fondamenta del capitalismo occidentale. Per questo motivo le riflessioni di Illich sulla società conviviale sono oggi profondamente necessarie.

lino caetani

 

I nuovi abiti del Capitalismo

Pubblichiamo la traduzione di un lungo intervento di Evgeny Morozov sul libro di Shoshana Zuboff “Il capitalismo della sorveglianza” [S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019]. In questa recensione, Morozov dimostra come le basi teoriche dello studio di Zuboff siano poco solide, basate più che altro su un funzionalismo sociologico che giustifica tautologicamente le proprie ipotesi, senza un confronto adeguato con ipotesi scientifiche diverse. “Esiste una teoria più semplice, più generale, per spiegare l’estrazione dei dati e la modifica del comportamento che Zuboff trascura, intrappolata com’è all’interno della struttura Chandleriana, con il suo ardente bisogno di trovare un successore del capitalismo manageriale. Questa teoria più semplice va così: le aziende tecnologiche, come tutte le aziende, sono guidate dalla necessità di assicurare una redditività a lungo termine. La raggiungono superando i loro concorrenti attraverso una crescita più rapida, esternalizzando i costi delle loro operazioni e sfruttando il loro potere politico. L’estrazione dei dati e la modifica comportamentale che consente – chiaramente più importante per le aziende in settori come la pubblicità online – sorgono, dove lo fanno, in quel contesto”.

Buona lettura.

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La storia di Edmondo Peluso, dalla rivoluzione al gulag

Krasnojarsk, Siberia, 19 febbraio 1942. Un colpo di pistola alla tempia pone fine alla vita di Edmondo Peluso, rivoluzionario nato a Napoli nel 1882, uno dei fondatori del Pci, libertario e giramondo. Nel libro di Didi Gnocchi “Odissea rossa. Storia di un fondatore del Pci” viene ricostruita la vita avventurosa di Peluso: compagno degli spartachisti in Germania nel 1918, delegato a Mosca assieme a Bordiga nel IV Congresso dell’Internazionale, poi corrispondente per l’Unità e quindi trasferitosi in URSS, dove viene infine arrestato nel mezzo delle purghe staliniane del 1938. Gli interrogatori fatti dalla polizia russa a Peluso ricalcano quelli rivolti ai grandi dirigenti sovietici travolti dalla furia di Stalin: come Zinov’ev e Kamenev, Peluso è indotto in tutti i modi a confessare i propri crimini di spia o di contro-rivoluzionario, sacrificando sull’altare dell’edificazione del socialismo la propria dignità di uomo e la verità dei fatti. Dopo un’iniziale confessione estorta al rivoluzionario napoletano dagli inquisitori della Nkvd, però, Peluso riprende in mano con grande coraggio il filo della sua coerenza di militante e decide di reagire alle torture psicologiche della polizia, iniziando un percorso sempre più duro di carcere e deportazione che lo condurrà alla fine ad essere ucciso nel gulag siberiano di Krasnojarsk. Nel libro di Gnocchi (un testo tanto poco conosciuto quanto prezioso) si ipotizza che lo stesso Palmiro Togliatti sia intervenuto inviando ai vertici di Mosca una lettera in difesa del suo connazionale e compagno di partito, cercando in questo modo di salvargli la vita: un tentativo, quello che avrebbe fatto il “Migliore”, piuttosto inconsueto, vista la quantità di comunisti e rivoluzionari che venivano condotti al patibolo senza che i vertici del Pci volessero o potessero fare nulla. La richiesta di clemenza di Togliatti, comunque sia, viene ignorata e Peluso viene condannato in qualità di “contro-rivoluzionario”, salvo poi essere “riabilitato”, secondo il costume sovietico dell’epoca, solo nel 1956 nella fase della destalinizzazione promossa da Kruscev: non più spia del fascismo e nemico del popolo, alla memoria di Peluso viene concessa una postuma e sicuramente molto parziale giustizia. La figura del militante comunista resta comunque poco conosciuta nel suo paese di origine, per cui è interessante leggere alcune sue parole attribuitegli dai suoi carcerieri in Siberia. Rinchiuso nel gulag staliniano, secondo un dossier ritrovato negli archivi di Mosca dopo la caduta dell’Urss, nel giugno del 1941 Peluso pronuncia queste parole ad un suo compagno di detenzione:

«Io che sono stato fino a poco tempo fa nemico del fascismo, non desidero più essere cittadino dell’Urss. Non mi rimane più niente da fare in Urss. Il cosiddetto comunismo e socialismo di Stalin boicottano tutti i partiti socialisti e i partiti comunisti, una volta fratelli. In Urss non c’è alcun socialismo, ma esistono degli esperimenti folli, che sbalordiscono tutto il mondo, su un popolo che ha perso il buon senso. Questo non appare vicino nel suo risultato finale al socialismo, bensì ad un rozzo dispotismo, che può fiorire soltanto nelle condizioni della dittatura più crudele. In una situazione imperialistica come noi oggi possiamo osservare, il socialismo, questo bellissimo e seducente fenomeno politico, che da migliaia di anni vive nei sogni più rosei dell’umanità, è presentato al mondo nel modo più deturpato dai dirigenti del partito dell’Urss. Il popolo sovietico è circondato da un mare di lacrime, di dolori, di privazioni, da file interminabili per il pane, questo prodotto principale dell’alimentazione, file per un metro di stoffa per coprire la sua nudità, e da una fatica veramente da galera, un vero pesante lavoro forzato. Insomma su tutti costoro grava il marchio della burocrazia che li opprime appiattendoli tutti allo stesso livello. Tutti i giornali riguardo al contenuto, e non parlo già di indirizzo politico, sono simili l’uno all’altro come due gocce d’acqua. La gente in Urss pensa come le viene ordinato. Il socialismo in Urss rappresenta il trono dell’Nkvd, un trono lordato dal sangue degli uomini migliori. Ma io vi dico che questo potere si regge sulle baionette, sulle camere di tortura, sulle repressioni e questo potere, che mantiene il popolo con razioni da fame, non può essere durevole, sarà sufficiente una sola debole spinta perché questo potere si riduca in polvere. Non appena avrò la possibilità di lasciare il villaggio di Suchobusimo, aprirò gli occhi ai miei compagni»[D.Gnocchi, Odissea rossa. Storia di un fondatore del Pci, Einaudi, 2001, pag. 225].

In queste profetiche righe c’è tutto il coraggio di un uomo che non volle piegarsi al terrore della dittatura staliniana e alla degenerazione di un sistema poliziesco che non aveva più nulla di quel socialismo sognato in gioventù da Peluso e per cui tanto si era speso nella sua vita di militante rivoluzionario. Il giudizio sull’Urss che ci consegnano queste parole risulta quindi essere una testimonianza storica di grandissimo valore, anche perché riporta attuale e viva la coscienza politica di un grande rivoluzionario del novecento.

l.c.

Il caso Tulaev

Mosca, 1938. Qualche chilometro fuori dalla capitale dell’URSS, tra boschi innevati e un silenzio spettrale, si incontrano tre alti dirigenti del partito comunista. Il dialogo è drammatico, dopo l’omicidio misterioso del compagno Tulaev, influente e spietato membro del comitato centrale, il cerchio della repressione si stringe non solo verso il possibile esecutore materiale del delitto, ma coinvolge in un’orgia delirante di sospetti tutti i vari uomini dell’apparato che sono invisi per qualche motivo alla polizia segreta oppure semplicemente possono fungere da capro espiatorio per l’occasione. I tre comunisti sono terrorizzati, ormai certi di avere il destino segnato: così come centinaia di migliaia di loro pari, tra i bolscevichi della prima ora come tra le fila dei quadri intermedi del partito, anche per loro è pronto un colpo di pistola alla tempia o una scarica di fucili del plotone di esecuzione, dopo essere stati annientati moralmente in un processo farsa nel quale ammettere le proprie colpe di traditori della rivoluzione. La bianchezza della neve moscovita diventa un tutt’uno con la discussione allucinata: cosa fare? Fuggire, spararsi un colpo di pistola adesso, sperare di essere “solamente” deportati in Siberia? Scende la sera e i tre dirigenti del PCUS ritornano mestamente nelle loro abitazioni, rassegnati ad affrontare gli eventi. Questa scena terribile e magnifica è solo una delle tante del capolavoro di Victor Serge “Il caso Tulaev”, un romanzo scritto nel 1947 durante l’esilio in Messico del rivoluzionario apolide, un anno prima della sua morte. Serge, pseudonimo spagnolo di Viktor L’vovic Kibal’cic, riesce a costruire un racconto di fantasia sul periodo delle purghe staliniane, liberamente ispirato alla carneficina di Stato successiva all’omicidio del capo del partito a Leningrado Sergej Kirov nel 1934. Del grande terrore degli anni trenta, Serge riesce a ricostruire il clima e gli stati d’animo delle vittime e dei carnefici di questa epoca così decisiva per la storia del Novecento e del fallimento nel delirio staliniano del socialismo reale. La fedeltà al Partito della vecchia guardia bolscevica rimase viva anche dopo l’arresto e i processi farsa, spesso i dirigenti arrestati si interrogano sul destino di un regime che reputano, nonostante gli orrori della repressione, storicamente superiore e moralmente migliore del capitalismo occidentale. Tra le pagine del libro compare anche lui, il “capo”, ossia Josip Stalin. Con i suoi occhi furbi e la corporatura massiccia, il paranoico dittatore sovietico parla a tu per tu con alcuni dei suoi vecchi compagni del periodo eroico del 1917, decidendo con una semplice frase il loro destino: una parola in più o in meno del capo e la sorte del dirigente amico di gioventù di Stalin può variare dall’esilio in Siberia a un colpo di rivoltella nella tempia appena usciti dalla stanza del Cremlino. Tutto pare vertere sulla volontà imprevedibile e inaccessibile del capo, ma questi a sua volta si atteggia a semplice esecutore di una volontà storica più grande di lui, una dura necessità sanguinosa che solo la sua grandezza può sopportare e applicare come necessità per far avanzare il socialismo nel suo radioso avvenire. La realtà storica, tuttavia, preme implacabile nelle stesse pagine del romanzo: con la seconda guerra mondiale alle porte, con un paese fiaccato da anni di carestia dovuti al delirante disegno di industrializzazione forzata e di collettivizzazione delle campagne, nonché dall’eliminazione fisica della maggioranza dei quadri del partito e dell’esercito, un massacro ancora maggiore sta per arrivare e travolgere milioni di russi. La domanda che aleggia per tutta la durata del testo è sempre la stessa: come è stato possibile tutto ciò, ovvero che la rivoluzione bolscevica finisse in un Termidoro di sangue e in un regime poliziesco crudele e ottuso? Altra domanda che può farsi oggi il lettore: come è stato possibile che quasi tutta la sinistra mondiale giustificasse questo abominio in nome del supporto al socialismo? Chi sapeva quanto è accaduto, lontano dal pericolo di morte immediato nella Russia di Stalin, che meccanismi mentali ha messo in opera per giustificare di fronte a se stesso e al mondo una strage così scientifica e implacabile? L’elenco degli intellettuali e dei grandi politici fedeli allo stalinismo novecentesco è lunghissimo, ed è veramente difficile pensare che nessuno sapesse quanto stava accadendo a Mosca durante tutti gli anni trenta. Per rispondere a una domanda così complicata e brutale, assieme all’osservazione dei personaggi descritti ne “Il caso Tulaev”, con il loro gregarismo e la loro ottusità, con l’umanissima paura di essere uccisi e la volontà delatoria di scaricare sul compagno di partito più vicino la paranoia assassina di Stalin, possiamo anche rivolgere lo sguardo all’attualità. I crimini del regime di Bashar Al-Asad, per dirne una, come sono stati recepiti dalla sinistra occidentale? Abbiamo visto anche dei fieri compagni comunisti italiani recarsi deferenti in visita dagli uomini del macellaio di Damasco: mentre centinaia di migliaia di persone venivano uccise, massacrate, torturate, esiliate, i compagni stringevano le mani degli ottusi e spietati carnefici del regime siriano in nome del presunto ruolo anti-imperialista di Asad. Forse basta poco nella propria mente per giustificare un omicidio, un genocidio, sull’altare immaginario di una necessità storica o geo-politica che si rivelerà sempre tragicamente falsa. Quasi tutti gli strenui difensori dello stalinismo novecentesco sono diventati dopo il crollo del 1989 i propagandisti più feroci del capitalismo neoliberista attuale: questo non può stupire, visto il carattere della stessa Russia del secolo scorso, nel suo statalismo brutale, nel suo sviluppismo ottuso. Se una transizione poteva esserci non era certo quella “doppia”, dal capitalismo verso il socialismo e dal socialismo verso il comunismo, come si diceva a Mosca nel 1938 mentre i dirigenti comunisti sparivano nel nulla, ma semplicemente una lunga e dolorosa transizione di un paese arretrato verso il capitalismo occidentale. Come oggi la Russia di Putin sia integrata nel capitalismo globale è sotto gli occhi di tutti: imperialismo, economia mafiosa, omofobia, tutti i tratti che imperversano nelle nostre società le ritroviamo perversamente inglobate a Mosca. La stessa Mosca che ha tenuto in piedi il regime genocida di Bashar Al-Asad. Se vogliamo trarre una conclusione per l’attualità di fronte alla rilettura delle pagine di Victor Serge, possiamo forse pensare a quanto la lucidità necessaria per l’analisi della società attuale debba essere accompagnata sempre da altre virtù etiche quali il coraggio, la solidarietà e il desiderio di ricercare sempre la verità, anche quando essa sia scomoda e metta in discussione il nostro orticello fatto da piccole sicurezze e comodità militanti. Nel mentre oggi stesso nei movimenti di opposizione al sistema siamo circondati dai tristi e farseschi epigoni della cultura staliniana, tra maschere di partitini e piccole organizzazioni che si dicono comuniste o per il “potere al popolo”, possiamo riflettere sul valore di un’etica rivoluzionaria sganciata dal sentimento di fedeltà ad un capo o ad una organizzazione burocratica: riprendere oggi il desiderio consiliare del 1917, quel movimento di assemblee che sconvolse per un attimo il mondo intero, significa espungere e ripudiare una volta per tutte ogni residuo di stalinismo che resta nelle nostre pratiche politiche quotidiane.

Lino Caetani

Che cos’è un buongustaio? Le aragoste di David Foster Wallace e i social network

Dopo aver passato qualche decina di minuti su Twitter mi sono reso conto di aver letto ancora una volta il solito profluvio incessante di: foto di raffinati piatti a base di carne e pesce pronti per essere mangiati, battutine simpatiche contro i vegani, battute più esplicite tipo gente in posa davanti alla grigliata con il meme “in culo ai vegani”, polemiche politiche contro la giunta comunale grillina che avrebbe “imposto” nel menù di una mensa scolastica nientedimeno che un pericoloso piatto vegano una volta al mese. Tutto ciò viene postato ogni giorno anche da gente di sinistra, colta e progressista, tutte persone con le quali si condividono molte cose riguardo altre questioni, principi o scelte politiche. Mi è venuta la curiosità, per staccare da questo petulante ritornello, di rileggere il celebre racconto di David Foster Wallace “Considera l’aragosta”. Faccio un breve riassunto del bellissimo scritto di DFW. Lo scrittore americano viene inviato dalla rivista culinaria “Gourmet” a scrivere un reportage sul Festival dell’aragosta del Maine nel 2003. Il risultato del report di Wallace, sebbene parta da una richiesta piuttosto semplice, ovvero indagare alcuni aspetti sociali e di costume nell’ambito di una manifestazione turistica tipicamente americana, esonda massicciamente dal compitino richiesto dal giornale e diventa un classico sia della letteratura che della riflessione animalista. Il punto di partenza di Wallace è molto aperto e dubitativo, infatti più volte nel racconto l’autore si smarca dall’attivismo animalista della PETA (People for Ethical treatment of Animals) e da posizioni già precostituite sull’argomento. Nonostante questo atteggiamento di partenza, espresso con un tono conciliante e ragionevole, Wallace scrive una requisitoria che a distanza di anni resta ancora intatta con tutte le domande conclusive aperte e le questioni di fondo irrisolte. “Nella pratica, sappiamo tutti cos’è un’aragosta. Come al solito, però, c’è molto più da sapere di quanto possa interessare alla maggior parte di noi – è solo una questione di quali sono i nostri interessi”. Le aragoste sono degli enormi insetti marini con cinque paia di zampe, fino all’Ottocento erano un cibo proteico rivolto al consumo dei ceti bassi e venivano cucinate morte e conservate sotto sale. Oggi l’aragosta viene ritenuta un cibo prelibato, simile al caviale, un cibo estivo: l’aragosta appena pescata ha una polpa molto nutriente e gustosa, il metodo comune per essere cucinata è dunque bollirla viva. “Un dettaglio così ovvio che le ricette quasi mai lo menzionano è che le aragoste devono essere vive quando le mettete in pentola”. Questo dettaglio apre la riflessione morale di Wallace, una riflessione tanto sui generis per essere stata scritta sulle colonne di una rivista gastronomica quanto penetrante, attuale e di rilievo etico generalizzabile. “Ed ecco allora una domanda quasi inevitabile di fronte alla Pentola per aragoste più grande del mondo, domanda che potrebbe sorgere in varie cucine degli Stati Uniti: è giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?”. La domanda rimane aperta, anche dopo quattordici anni da quando è stata posta da DFW. Il racconto continua descrivendo lo straziante tentativo degli animali di uscire dalla pentola, aggrappandosi disperatamente e vanamente con le chele sui bordi: l’aragosta agisce come se stesse provando un dolore terribile, ed è ragionevolmente vero che questo strazio sia una cosa molto seria e reale per il crostaceo, poiché esso possiede una quantità sufficiente di struttura neurologica necessaria all’esperienza del dolore (nocicettori, prostaglandine, recettori oppioidi neuronali etc.) e per di più si comporta proprio come se volesse evitare questo dolore. Le aragoste, inoltre, sono sprovviste degli analgesici in dotazione nei sistemi nervosi dei mammiferi, quindi dovrebbero essere soggette in maniera ancora più atroce al dolore conseguente alla morte per bollitura. Alla fine del reportage, David Foster Wallace si dichiara più che altro confuso e curioso e chiede ai lettori della rivista “Gourmet” quali siano le loro sensazioni a riguardo: “Pensate molto allo status morale (possibile) e alla sofferenza (probabile) degli animali coinvolti? Se sì, quali convinzioni etiche avete trovato che vi permettono non solo di mangiare ma di assaporare e godervi vivande a base di carne (dato che naturalmente è il godimento raffinato, e non la mera ingestione, il punto fondamentale della gastronomia)?”. Siamo arrivati al punto di domanda finale del ragionamento di DFW, quello riguardante le implicazioni etiche e morali del mangiare animali per il proprio godimento personale, se debba essere solo una questione sensoriale, di gusto e non anche di empatia ed etica. La stessa domanda, come dicevo in precedenza, si ripropone quando ci troviamo di fronte a tanti compagni che postano ogni giorno le foto di animali uccisi, bolliti, fritti, impanati, pronti per essere mangiati per il proprio godimento raffinato e per essere condivisi sulle tavole e sulle bacheche dei social network.

Lino Caetani