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Fare come in Rojava. In ricordo di Ennio Carbone

Era la mattina dell’otto marzo ed ero arrivato puntuale all’appuntamento nei pressi della stazione, ma non vedevo ancora nessun* avvicinarsi per l’inizio del corteo. Forse ero addirittura in anticipo, forse era la solita nostra abitudine “compagnesca” a far partire sempre le cose in ritardo, comunque speravo di vedere un po’ di gente per quello che era un corteo a cui tenevo tantissimo. Mi guardo un po’ in giro e finalmente vedo un volto amico: a venirmi incontro è Ennio, che mi stringe la mano con la consueta forza e comincia subito a parlarmi in maniera diretta e con determinazione. Ricordo bene quello che mi disse, mentre facevamo dei discorsi generici sul movimento, sulla lotta delle donne e sull’otto marzo. Tre cose che ci insegna il Rojava: autogestione, femminismo, ambientalismo. Questo è il futuro delle lotte e del movimento, mi disse Ennio, completando il suo ragionamento risoluto con gesti secchi a ribadire quanto affermato con convinzione. Io ero partito a discutere con qualche timida lamentela e una visione un poco più pessimistica, figlia delle mille polemiche e scazzi vissuti negli ultimi mesi e forse anche della preoccupazione di non vedere molta gente al corteo che sarebbe dovuto partire a breve. Per questo motivo la sicurezza di Ennio nell’individuare i fronti di lotta da portare avanti mi colpì molto, anche perché effettivamente, pensai, dal Rojava ci stava venendo un insegnamento pratico e non solo teorico che andava approfondito con grande rispetto e attenzione. Passano i minuti e vediamo che ci sono nella piazza altri piccoli gruppi di persone venute per il corteo, studentesse dei licei per lo più, poi arrivano altre compagne e poco dopo finalmente si può partire. La mattinata va alla grande, la manifestazione indetta da “Non Una di Meno” non solo è partecipata ma risulta anche combattiva, allegra e determinata, con decine di ragazze che urlano slogan femministi bloccando anche il traffico del centro cittadino di Salerno. Vedo Ennio davvero contento che si complimenta con le compagne che hanno organizzato la giornata, anche io sono felicissimo e trovo nel suo compiacimento la continuazione di quel discorso che mi aveva fatto su femminismo e autogestione. Quando qualche giorno fa ho appreso con sgomento che Ennio era stato colpito da una grave e rapida malattia che in breve lo ha portato alla morte, mi è venuto subito in mente questo episodio, per come ho avuto la fortuna di conoscere un compagno così forte, determinato, che ti trasmetteva grande fiducia. Ricordo anche quando eravamo nello stesso spezzone del corteo contro i “decreti sicurezza” ed Ennio fece partire un coro straordinario: “Il potere deve essere abolito!”. Fuori di ogni retorica, in queste giornate così drammatiche per chi è debole e ultim*, come chi è reclus* nelle carceri o non ha i documenti per stare in questo paese razzista, penso a Ennio e alla sua lucidità nel vivere una vita intera che ha attraversato decenni di lotte e di movimenti sempre da anarchico, sempre contro lo Stato e per l’autorganizzazione di chi è sfruttat*. Una lucidità di cui avremmo bisogno ancor di più oggi quando lo Stato, nella sua criminale continuità storica portata avanti in questo paese, dalla dittatura fascista alla “Repubblica fondata sul lavoro”, compie le sue peggiori stragi nelle galere con i prigionieri minacciati dal contagio del coronavirus. Ennio mi sollecitava spesso a tenerlo aggiornato su quello che facevamo e scrivevamo sulle pagine de “la piega”, sempre interessato a seguire tutti gli argomenti che coincidevano con le sue passioni, dall’anti-psichiatria al transfemminismo, dalla lotta alle carceri alla rivoluzione del confederalismo democratico. Per questo motivo nel nostro piccolo continueremo a scrivere e a lottare anche per lui, per rendere vivo nelle lotte il suo ricordo: nel nome di un anarchico, di un compagno, un amico che ha vissuto una buona vita, con un immenso amore per la libertà.

l.c.

Ancora tu. Il ritorno delle rivolte contro lo stato

La domanda è tanto semplice quanto complessa: sta nascendo un nuovo ciclo rivoluzionario a livello globale? Ampie rivolte si stanno diffondendo in numerosi stati in diversi punti del pianeta, portando lo scontro nelle piazze ad un livello quasi insurrezionale. Ne è un esempio la rivolta di Santiago del Cile, fatta scattare dagli studenti dei licei, una protesta scattata contro l’aumento del biglietto della metropolitana. Abbiamo visto milioni di persone scendere per le strade del paese latino americano, con la polizia che ha arrestato la gente entrando nelle case dei manifestanti la notte come ai tempi di Pinochet e non sono mancati nemmeno gli omicidi e le pallottole sparate nelle piazze. Il presidente e il ministro dell’Interno (un vecchio arnese della dittatura riciclato in tempo di democrazia) sono passati dallo scherno all’aggressività alle finte lacrime di coccodrillo e ad una improbabile richiesta di perdono alle piazze sempre più in rivolta. Ultimamente vediamo anche un disperato tentativo di governo e partiti di opposizione uniti per incanalare in senso istituzionale e concertativo le rivendicazioni di una piazza che si teme possa assumere tratti sempre più insurrezionali. Questo in Cile, ma abbiamo altri esempi in altri continenti di proteste che stanno facendo tremare i palazzi del potere e una struttura consolidata di poteri settari, religiosi o laici che siano, capace di mettere in crisi tutte le varie diplomazie e gli interventi geopolitici nelle aree in questione. Stiamo parlando delle rivolte in Libano come in Iraq, ma ci sono anche altri punti incendiati nel globo in Africa come in Asia e in misura minore anche in Europa (Francia e Catalogna nello specifico). Parliamo ad esempio in breve di quanto sta succedendo in Iraq, un paese strategico storicamente per tutta una serie di questioni, dall’invasione americana di Bush ad oggi, con la nascita dell’ISIS e la creazione di un fragile sistema democratico in cui prevale la distribuzione settaria (a prevalenza sciita filo-iraniana) con una diffusissima corruzione della politica. Se lo scontro in Iraq negli anni scorsi aveva riguardato veri e propri eserciti statuali in lotta tra loro, oggi abbiamo una rivolta che è diretta contro lo stato, una potenziale insurrezione contro i poteri politici cui è stata affidata la gestione della democrazia. Dal canale Telegram “Rojava Resiste” leggiamo le cronache di pochi giorni fa: “Scioperi e blocchi a oltranza di porti, uffici pubblici, scuole, pozzi petroliferi, ponti e strade. Il governo reagisce chiudendo internet e dichiarando il coprifuoco a Bassora. 8 morti sotto i proiettili della polizia tra Baghdad, Nassiriya e Umm Qasr (porto commerciale meridionale bloccato dai manifestanti da giovedì scorso), facendo salire il bilancio complessivo a 260. Cominciano ad assumere un peso i casi di desaparecidos, mentre aumentano le pressioni dell’Iran per un intervento più duro delle milizie sciite irachene sue affiliate. Il contesto è ormai sull’orlo di una aperta guerra civile. I manifestanti chiedono il cambiamento dell’intero sistema politico e risposte radicali alla disoccupazione dilagante, alla mancanza di servizi di base e a un sistema politico settario che ha riempito le tasche di pochi malgrado le vaste entrate statali provenienti dall’industria petrolifera. La classe dirigente irachena e il settarismo istituzionale hanno una doppia copertura internazionale: è figlia dell’occupazione USA ed è al tempo stesso legata a Teheran. Mentre la politica economica ultraliberista ha creato una dipendenza totale dal libero mercato e una accettazione dei pacchetti di aggiustamento strutturale di FMI e Banca Mondiale”. Come in Libano e come in Cile abbiamo qui un attacco diretto che – finalmente – si dirige non in una direzione settaria o corporativa ma richiama immediatamente allo scontro contro lo stato, contro le diseguaglianze sociali, contro la politica e – occorre sottolinearlo – contro la stessa democrazia. Questo è il punto cruciale di quello che sta accadendo oggi in questi paesi in rivolta: di fronte all’ascesa globale del fascismo (quello di Trump, di Putin e di Erdogan, di Salvini e compagnia) se la sinistra occidentale è in crisi e cerca solo di dimostrare di essere più capace della destra nel gestire il capitalismo, abbiamo una spinta diretta che individua con semplicità l’esistenza di una alternativa tra stato e insurrezione, non lasciandosi irretire dal tentativo di ingabbiare dentro l’antifascismo democratico il desiderio di liberazione. Dopo quasi dieci anni e dopo il ciclo delle rivoluzioni arabe sembra dunque esserci finalmente qualcosa di nuovo e insieme di antico che ritorna. La risposta alla domanda iniziale, se ci troviamo di fronte ad un nuovo momento rivoluzionario mondiale, la potremo forse dare nei prossimi mesi, con lo sguardo anche alla eroica resistenza del Rojava contro la brutale invasione turca.

Nuovo centro-sinistra, vecchie politiche di repressione e rapina

“Parlamento”by agenziami is licensed under CC BY-SA 2.0

Il nuovo governo cosiddetto “giallo-rosso” si avvia a varare la sua prima manovra economica. Da molti osservatori è definito come un governo molto spostato a sinistra, tanto che ha anche incassato in un sol colpo l’appoggio di Sinistra Italiana e del gruppo di Liberi e Uguali presente in parlamento. Si potrebbero fare molte considerazioni su questo nuovo esecutivo, dalla linea di continuità rispetto alle politiche sull’immigrazione al mantenimento dei decreti sicurezza fino al sempiterno finanziamento delle imprese private espresso attraverso il cosiddetto cuneo fiscale. Proprio quest’ultimo provvedimento ci riporta indietro di diversi anni e ci ricorda una cosa fondamentale, da tenere sempre a mente: nel nostro paese il centro-sinistra si è macchiato di crimini orrendi, dalle guerre alla costruzione dei lager per migranti fino alla precarizzazione del mercato del lavoro. Quello che ancora oggi viene acclamato come il padre nobile del centro-sinistra italiano, Romano Prodi, inaugurò nel 1996 con l’appoggio iniziale di Rifondazione Comunista una stagione che ha segnato un profondo arretramento per il nostro paese, con un forte aumento delle disuguaglianze sociali e della repressione poliziesca, un governo che ha spostato la ricchezza dal basso verso l’alto creando i presupposti per anni caratterizzati da un’ulteriore svolta conservatrice e razzista in Italia. Questo sia detto a chi ancora oggi si aspetta qualcosa dalla sinistra parlamentare e da chi pensa sia efficace una possibile strategia del “male minore” rispetto alle destre fasciste e razziste. Che il centro-sinistra fosse espressione diretta della borghesia criminale del nostro paese lo aveva invece ben presente la deputata Mara Malavenda, eletta con Rifondazione Comunista nel 1996 e poi espulsa dal partito per il suo voto contrario alla fiducia verso il nascente governo Prodi. Riportiamo qui il suo intervento fatto alla camera dei deputati il 31 maggio del 1996, giorno del voto di fiducia all’esecutivo, per dare un piccolo contributo di memoria storica in rispetto di chi ha avuto la lucidità di opporsi ad un governo che avrebbe poi creato il Pacchetto Treu per la precarizzazione del lavoro e costruito i lager per migranti con la legge Turco-Napolitano.

MARA MALAVENDA. Signor Presidente, signore e signori, ieri nella piazza di Montecitorio c’erano i lavoratori dell’Alfa Romeo con le bandiere rosse e i rappresentanti dello SLAI-COBAS. Sono lavoratori che erano qui per rivendicare i loro diritti e per chiedere un atto riparatorio per quella che è stata la svendita dell’Alfa Romeo (la prima vergognosa privatizzazione nel nostro paese) e soprattutto per difendere il lavoro. Eravamo in 27 mila, siamo ridotti a 14 mila e in questi giorni vi saranno 3 mila e 400 nuove «espulsioni»! L’abbiamo chiesto a lei, Presidente, perché all’epoca, quando c’è stata la truffa della svendita dell’Alfa Romeo, lei era presidente dell’IRI. Adesso lei è qui e ci aspettavamo di sentire qualche parola; le abbiamo posto delle domande, glielo voglio ricordare! Quale responsabilità ha avuto lei in prima persona nella svendita dell’Alfa Romeo insieme con Craxi, Darida, Nicolazzi, De Michelis, De Vito, De Lorenzo, Zanone, Goria e Romita? E come mai all’epoca, la sera prima aveva comunicato ai sindacati che l’Alfa sarebbe stata data alla Ford e poi, invece, all’indomani mattina si seppe che era stata regalata alla FIAT? E perché non ha dato elementi utili alla magistratura per accertare quante mazzette e a chi sono state date per la cessione dell’Alfa? O forse questi elementi li ha già dati a Di Pietro nell’interrogatorio del luglio del 1993 al palazzo di giustizia di Milano? Le abbiamo chiesto perché nessuno degli impegni presi all’atto della cessione e formalizzati con la delibera del CIPI del novembre del 1986 sia stato mantenuto. Sono stati chiusi gli stabilimenti della Lancia di Chivasso, della SEVEL-Campania, dell’Autobianchi di Desio, della Maserati di Lambrate! La FIAT sta chiudendo Arese e sta smantellando Pomigliano. Gli 800 lavoratori impiegati nei cablaggi erano qui ieri a manifestare. Al dottor Di Pietro, che è del suo Governo, ho chiesto: perché non ha indagato sulla svendita dell’Alfa? Perché è stata insabbiata la tangente di 10 miliardi data dalla FIAT a Pascucci? Perché 19 milioni di dollari di mazzette del conto « Sacisa » della FIAT sono stati trasferiti dalla Svizzera alla FIAT-Impresit di Sesto San Giovanni invece di essere sequestrati? Queste erano le mie domande! La FIAT è lo Stato nello Stato; la FIAT è il processo a Romiti, è sistema di corruzione, è Pascucci, sono i fondi neri, è lo spionaggio nelle fabbriche! I lavoratori sono spiati e controllati dai servizi segreti: questa è la FIAT! Detto questo, signor Presidente, dai suoi ministri non ci aspettiamo niente di buono. Dini è colui che ha pensato prima alla sua pensione e poi ha tagliato quelle degli altri, in modo vergognoso. Flick è l’avvocato di Agnelli, della FIAT e di De Michelis. Questa è corruzione! Si aspettano da lui quel «colpo di spugna» per insabbiare tutto. Forse è questa la verità! Ebbene, questo Governo, i suoi ministri, non possono avere il nostro consenso: è un Governo antioperaio e antipopolare. È per questo che voto contro.

Foreste in fiamme e corpi da macello

Questa estate 2019 è stata disastrosa per il pianeta. Incendi in Siberia, ghiacciai che si sciolgono in Groenlandia, temperature record ovunque, fino ai roghi devastanti nella foresta amazzonica, che hanno dato il colpo di grazia a un ecosistema già ampiamente provato: gli incendi di quest’anno non sono infatti straordinari ma confermano una tendenza ventennale [1]. I negazionisti dei cambiamenti climatici sono ormai ridotti al silenzio e i capitalisti preparano la loro fuga verso bunker protetti dal disastro in isole lontane e al riparo dalla catastrofe. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite mette in fila le cause principali che sono alla base dei cambiamenti climatici: al primo posto (non è più soltanto qualche documentario girato da registi underground a dirlo) ci sono gli allevamenti animali [2].

Anche l’indignazione da social ha dovuto stavolta fare i conti con la realtà delle cause che hanno condotto agli incendi di Amazzonia, Congo, Angola: serve spazio per bestiame da macellare, e per la coltivazione dei mangimi con cui ingrassarlo. L’evidenza dell’impatto dell’industria della carne sull’ecosistema amazzonico ha potuto farsi spazio – principalmente a causa della coltre di fumo che ha avvolto San Paolo – nelle prime pagine dell’informazione di tutto il mondo; ormai insomma non è più possibile tergiversare richiamandosi alla complessità del fenomeno del riscaldamento globale. Le fiamme vengono appiccate, e primariamente per incrementare la produzione di carne.

Sono irrecuperabili i danni alla biodiversità, al clima, alle popolazioni indigene che sono conseguenza della strategia di deforestazione decennale di queste terre. Una immagine molto circolata in rete recita “non è fuoco, è il capitalismo”: un riassunto tanto lapidario quanto innegabile.

Se la grande mano del capitale muove processi economici, umani, ambientali incontrollabili in cosa consiste allora fare dell’anticapitalismo in tempi di crisi ecologica? C’è a nostro avviso una dissonanza che sorge quando si associa il consumo di animali allo sfruttamento del pianeta: anche se la nostra lotta è (crediamo) anticapitalista, qualcosa ci frena dal rifiutare l’uso della carne in toto, una nostalgia ci coglie ancor prima di fare qualsivoglia tentativo. Le coscienze si riempiono di voci che recitano “ne mangio solo due volte alla settimana”, “non si combatte il capitalismo con scelte di consumo”, “non c’è consumo etico sotto il capitalismo”.

Beh, siamo d’accordo, quello del consumo non è terreno per alcun tipo di conflitto, ma pare che si dimentichino diversi fattori in gioco, soprattutto per chi utilizza le categorie marxiane:

1) quello degli animali non è forse lavoro? Parliamo di corpi di fatto schiavizzati (quella animale è forza-lavoro non pagata e obbligata), esistenti solo in funzione della produzione di un valore sul mercato dei corpi-carne. Come sottolinea Jason Hribal “Consideriamo la ‘carne’. Carne, muscoli, ossa, grasso, questa è la sua forma fisica. Ma la carne non è questo. Piuttosto, la carne è la merce composta dalla forma fisica e creata attraverso la forza lavoro. I principali fornitori di forza lavoro sono polli, mucche e maiali. I fornitori secondari sono gli umani che gestiscono le operazioni e raccolgono i profitti. Se stai acquistando un maialino, stai acquistando la sua forza lavoro futura: sia per produrre beni o riprodurre più forza lavoro. Produrre carne è lavoro tanto quanto lo è guidare i non vedenti o tirare una carrozza. Adam Smith non ha scelto un cavallo come il suo esempio di lavoratore. Ha scelto una mucca.” [3]

2) La scelta vegana non è una scelta di consumo, è un posizionamento politico radicale contro tutti i tipi di oppressione: è il tentativo costante di disinnescare la postura antropocentrica e secolarizzata che respiriamo e riproduciamo quotidianamente. Tirare fuori la scusa dell’insufficienza del “consumo etico” nel capitalismo è semplicemente inaccettabile quando parliamo della libertà e della liberazione dei corpi animali, del rifiuto di ingabbiarli, torturarli, mangiarli. Gira molto nei social questo meme che ironizza sull’inefficacia delle pratiche individuali come andare in bici, riciclare e ridurre il consumo di carne, mentre enfatizza l’unica vera soluzione ovvero fare fuori fisicamente la “classe aziendale corrotta”. A parte il velleitarismo pseudo grillino (la kasta corrottah!1!1!!!) dell’immaginare che all’uccisione di un simbolico re crolli anche il castello ci sembra che manchi (da parte di chi usa il meme in maniera autoassolutoria) la volontà di scomodarsi verso un discorso davvero materialistico, che consideri cioè la catena dello sfruttamento attraverso cui il re ha fatto costruire il castello.

Il capitalismo ha goduto (e gode) dell’appoggio simbolico e materiale di sistemi oppressivi a esso precedenti. Questi sono tra gli altri patriarcato, razzismo, specismo. Non ci sogneremmo mai di dire che il nostro agire personale (aka politico) può essere esente dal tentativo costante di smantellare i sessismi e i razzismi di cui ci nutriamo e le oppressioni sessiste/razziste che esercitiamo o di cui siamo oggetto. Sebbene sappiamo che queste stesse oppressioni sono sistemiche e che sorreggono una complessa costruzione di poteri materiali, economici, ideologici, non ci sentiamo perciò esentat* dalla lotta continua, personale (e a volte per fortuna collettiva) contro le sue manifestazioni. Ecco, non si vede succedere lo stesso quando parliamo invece dello sfruttamento animale, le cui cause e dispositivi sembrano aleggiare in un iperuranio tanto lontano che l’oppressione che continuiamo a (letteralmente) masticare quotidianamente non ha alcun valore nella strategia politica.

Se non vediamo la responsabilità nello scegliere di nutrirsi di un corpo morto (che il capitale si è curato di depurare dalle implicazioni violente e dagli strascichi macabri rendendolo un semplice ‘pezzo di carne’, un prodotto come tanti) allora forse dovremmo davvero abbandonare tutte quelle micro-lotte che ingaggiamo ogni giorno nei confronti della normalizzazione della violenza sia essa patriarcale, razzista, abilista, adultista. O in alternativa potremmo accantonare lo sbeffeggio vegefobico o l’autoassoluzione e ammettere che quel gesto non deve avere necessariamente un peso determinante sull’economia dello sterminio animale mondiale, ma che ha senso innanzitutto perché rifiutiamo che la messa in vita, la messa a lavoro e la macellazione intenzionale e programmata di miliardi di esseri senzienti possa essere parte di un sistema accettabile (accettabile quanto una fetta di prosciutto nel panino).

Note

[1] https://news.mongabay.com/2019/08/satellite-images-from-planet-reveal-devastating-amazon-fires-in-near-real-time/)

[2] Alcuni dati da http://www.fao.org/3/a0701e/a0701e.pdf

Il settore dell’allevamento (diretto e indiretto) copre più del 30% della superficie terrestre, e oltre il 70% di quella coltivabile. Prima causa dell’emissioni climalteranti dei gas serra (18%), più dell’intero settore trasporti. Consumo dell’8% delle risorse idriche mondiali, principalmente per l’irrigazione delle colture destinate all’alimentazione degli animali da macello/produzione. Maggior fattore di inquinamento delle acque, della crezione dele cosiddette ‘zone morte’: suolo reso infertile dallo sversamento delle deiezioni dell’industria dell’allevamento. Nei soli USA l’industria della carne è responsabile del 55% erosione di suolo, 37% dei pesticidi, 50% antibiotici, e un terzo delle emissioni di azoto e fosforo nelle risorse d’acqua dolce.

[3] https://www.all-creatures.org/articles/ar-animals-working-class.pdf pag.19

 

Il flop della sinistra sovranista

Contrariamente a quanto stava da tempo strombazzando tutto il mainstream politico mediatico globale, le ultime elezioni europee non hanno visto l’atteso trionfo delle forze politiche sovraniste, populiste e razziste, che hanno subito in alcuni casi pesanti sconfitte elettorali. L’Fpö austriaca, travolta dagli scandali, passa dal 26 al 17%. In Spagna a solo un mese dalle elezioni politiche, i fascisti di Vox scendono dal 10,2 al 6,2%. Lo stesso avviene con Veri, in Finlandia che si attesta al 13,8% (contro il 17,5% dello scorso 14 aprile), l’Afd tedesca perde due punti rispetto alle politiche del 2017 (dal 12,6 al 10,8%), così come Alba Dorata in Grecia (al 4,9% contro il 7%). Il Partito del popolo danese dimezza addirittura i suoi voti (dal 21,2 al 10,7%). Questo al netto del successo di Salvini (che raccoglie l’eredità dei voti del centrodestra in un quadro segnato da un’astensione che raggiunge quasi il 50%) e del sorpasso del nuovo partito di Le Pen rispetto a Macron.

Non va meglio quella parte di sinistra populista o sovranista che aveva strizzato l’occhio all’ascesa delle destre razziste sperando di raccogliere parte del consenso popolare che si immaginava dovesse comunque “sgocciolare” anche verso sinistra: questo spregiudicato azzardo si è risolto fortunatamente in un clamoroso flop. Vediamo le punte più evidenti di questo tracollo, che spazza finalmente dal campo tutte le inutili discussioni sul pensiero di Laclau, sull’interpretazione di Game of Thrones di Pablo Iglesias e sul colonialismo celodurista di Jean-Luc Mélenchon.

Partendo proprio dal partito rosso-marrone dell’ex senatore socialista francese, la “France Insoumise” passa dal 18% della candidatura del suo leader alle ultime presidenziali ad un modesto 6,3% alle europee. Non sono serviti gli appelli contro l’immigrazione che “abbasserebbe i salari” dei lavoratori francesi Doc, né la mancata adesione di Mélenchon al manifesto contro la xenofobia firmato da tutta la sinistra francese, PCF compreso. Anche in Spagna le ultime elezioni sono andate male per i populisti di sinistra: Podemos raggiunge il 10% dei consensi dimezzandosi rispetto alle politiche del 2016 e scendendo ulteriormente dal 14% delle recenti elezioni politiche. Hanno pesato in questo caso il ritorno dei voti verso il Partito Socialista e la posizione fermamente contraria all’indipendenza della Catalunya.

Anche altrove non va bene per le sinistre, che perdono consensi pure in Germania con la Linke che si ferma al 5,4%. In Italia fallisce la solita coalizione raffazzonata all’ultimo momento utile, con la lista de “La Sinistra” che arriva ad un misero 1,7% e con Potere al Popolo (formazione politica gemellata con Mélenchon per quanto riguarda il programma anti-europeista) che non riesce nemmeno a presentarsi alle urne.

Quale morale trarre di fronte a questi dati impietosi? Sicuramente il progetto del populismo di sinistra di sfruttare a suo vantaggio i movimenti di protesta nati dopo la crisi del 2008 subisce un forte ridimensionamento sul campo prescelto, ovvero quello meramente elettoralistico. Il ritorno in grande stile dell’autonomia del politico rispetto al sociale, spinto da una lettura interclassista (il “popolo” che si unisce contro i poteri forti, finanziari e globali) e nazionalista, si esaurisce quando viene meno la funzione parassitaria nei movimenti sociali che si contrappongono o si sono contrapposti agli stati nazione in questi ultimi anni.

Era troppo bella e facile l’idea di raccogliere consenso e diventare la voce istituzionale di lotte nelle quali le dirigenze di sinistra hanno avuto la solita funzione di pompieraggio e di delazione. D’altro lato, pur abbandonando la tradizione internazionalista che era propria del movimento operaio, strizzando l’occhio al nazionalismo razzista, questi partiti hanno comunque avuto il tempo di sostenere direttamente o indirettamente tutte le dittature che rientravano ancora nel vecchio schema campista dei blocchi contrapposti.

Il regime militare in Venezuela, il genocidio di Assad in Siria, quello di Afewerki in Eritrea, le milizie rossobrune del Donbass: i compagni non si sono fatti mancare nulla, qualsiasi crimine è stato occultato, difeso, sostenuto in ragione di un triste Risiko geopolitico fermo al 1989. Coerentemente con questo atteggiamento, le persone migranti che spesso approdavano in Europa perché fuggivano da questi paesi in fiamme, sono state viste come potenziali nemici, causa di “degrado” e di instabilità sociale, numeri da controllare, respingere o accogliere pietisticamente: mai compagni da affiancare nel loro percorso, nella loro fuga o nella loro lotta contro dittature spietate spesso appoggiate dalle stesse potenze imperialiste.

Non poteva che uscirne, dunque, che una caricatura della stessa idea di sinistra e di anti-imperialismo, declinata in uno spregiudicato gioco di ruolo in cui pur di avere dieci posti in più in parlamento si è accettato di tutto, dalla morte in carcere per tortura di centinaia di migliaia di persone fino al traffico di organi. Il flop di questa sinistra sovranista e, speriamo, la sua prossima scomparsa definitiva, non possono essere che una buona notizia per tutte le persone che hanno a cuore il bene prezioso della libertà.

lino caetani

Da un lager all’altro


È ampiamente risaputo che la rotta che attraversa il mar Mediterraneo dalla Libia all’Italia sia diventata negli ultimi mesi sempre più chiusa e controllata militarmente e che sempre meno persone riescano ad approdare in Europa partendo dalle coste libiche. Dal 1° gennaio sono infatti riuscite a raggiungere l’Italia solo 398 persone, il 93,54% in meno rispetto allo stesso periodo del 2018. Tra queste, le nazionalità più numerose sono quelle tunisine e algerine, 128 persone alle quali come prassi italiana ormai consolidata e contrariamente a quanto previsto da qualsiasi normativa comunitaria viene negata la possibilità di presentare domanda di asilo unicamente in ragione del paese di origine. La maggior parte de* magrebin* sono reclus* nei CPR in attesa dell’espulsione, o vengono rilasciat* con in mano un decreto di espulsione entro 7 giorni. Le persone rimanenti dovranno invece cominciare il percorso a ostacoli nel sistema di accoglienza italiano, trasferite da hotspot a hub e centri di accoglienza in giro per il paese, con la quasi certezza di vedersi alla fine sbattute per strada con un diniego della domanda d’asilo: a inizio anno la percentuale di dinieghi in prima istanza ha raggiunto l’82%.

Nei fatti, come certificato dai dati ufficiali pubblicizzati con enfasi dal ministero degli interni, nei primi tre mesi dell’anno le deportazioni sono state per la prima volta maggiori rispetto a nuovi arrivi: 1.354 (aggiornati al 13 marzo), di cui 1.248 forzati e 106 volontari assistiti [fonte http://www.interno.gov.it/sites/default/files/cruscotto_statistico_giornaliero_21-03-2019.pdf].

Gli effetti delle politiche di Minniti e Salvini cominciano dunque a diventare statistiche da sventolare per le propagande incrociate di governo e opposizione. Allargando un attimo la visuale dallo zoom imposto dal mainstream politico-mediatico-militare ci sarebbero però anche altre questioni di non poco conto da affrontare. Innanzitutto, su quella rotta si continua a morire, a decine e continuamente; nel mediterraneo le persone annegano ancora nel tentativo di fuggire dai lager libici. L’ultima strage è avvenuta solo pochi giorni fa, nel silenzio complice dei media che puntavano i riflettori sullo sbarco della nave “Mare Jonio” a Lampedusa. Secondo problema, pare che a nessuno importi niente dell’enorme apparato concentrazionario messo su in Libia con il contributo del precedente governo italiano e sotto la supervisione dei governi europei e delle agenzie delle Nazioni Unite. Ogni tanto qualche esponente del Partito Democratico in vena di vis polemica contro Salvini ricorda soltanto come “già con Minniti” fossero diminuiti gli sbarchi e come il leader della Lega sia troppo lento nell’effettuare le deportazioni promesse in campagna elettorale (certo, più di mezzo milione di deportazioni sono troppe anche per lo sceriffo leghista, evidentemente il Pd sogna di avere Adolf Hitler al Ministero dell’Interno). Saltuariamente esce qualche reportage giornalistico sui vari lager esistenti oggi sul territorio libico, ma la cosa finisce lì.

Altro problema che interessa davvero poco tutto il panorama politico e giornalistico sembra essere poi quello della sorte delle poche persone che riescono ad approdare ancora sulle coste europee, soccorse dalle navi delle ONG che tanto fanno arrabbiare Salvini. Le cronache degli ultimi mesi sono piene, anzi strapiene, di ogni dettaglio su qualsiasi aspetto di quanto accaduto, dalla nave Diciotti al processo a Salvini stoppato in Senato, alla natura e legittimità delle ONG, al ruolo di mediazione del presidente del consiglio Conte sulla ripartizione de* poch* “profugh*” portati in Europa, alle tiepide dichiarazioni del presidente della Camera, ai contrasti tra Lega e Cinque Stelle, etc.

Facciamo solo alcuni esempi tra i più recenti. Le 177 persone fatte sbarcare dalla nave Diciotti, l’imbarcazione bloccata al centro del Mediterraneo per giorni l’estate scorsa e diventata un caso politico eclatante, erano state ricollocate per lo più in alcuni centri di accoglienza gestiti dalla Chiesa italiana in varie diocesi. Delle cento persone di nazionalità eritrea, 92 uomini e 8 donne, che arrivarono la sera del 28 agosto 2018 nel centro d’accoglienza «Mondo Migliore» di Rocca di Papa, vicino Roma, non è rimasto più nessuno, e lo stesso è avvenuto in altre situazioni in giro per il paese dove erano state distribuite le altre persone provenienti dalla Diciotti. Si potrebbe dire, in questo caso, “tanto rumore per nulla”: se le persone migranti possono decidere liberamente e se hanno libertà di movimento, cercano semplicemente di farsi una vita autodeterminandosi, e non accettano di rimanere nella tanto acclamata “accoglienza” in strutture che loro definiscono “campi” e considerano più o meno simili a carceri e lager.

Altri casi, infatti, sono stati purtroppo diversi. Lo scorso 9 gennaio, 49 persone soccorse in mare dalle navi “Sea Watch” e “Sea Eye” dopo mille polemiche furono fatte sbarcare sulla terraferma europea a Malta solo dopo estenuanti trattative che portarono alla promessa di una ripartizione de* migranti in diversi stati europei. L’Italia avrebbe dovuto “accoglierne” ben dieci, ma solo grazie all’intervento della Chiesa Valdese, che l* avrebbe ospitat* a sue spese, permettendo così al ministro dell’Interno di poter dire che aveva comunque vinto la sua politica dei “porti chiusi”. Ebbene oggi, dopo tre mesi, quasi tutte 49 le persone che scesero dalla “Sea Watch” si trovano (assieme ad altre provenienti da sbarchi precedenti e successivi) in stato di prigionia presso il centro di detenzione per migranti di Marsa, vicino La Valletta, un “hotspot” in cui sono rinchiuse. Per tre giorni, dal 5 all’8 marzo, queste persone hanno portato avanti uno sciopero della fame per protestare contro la detenzione e per conoscere al più presto il loro futuro [https://www.timesofmalta.com/articles/view/20190313/local/hunger-strike-as-migrants-frustration-over-relocation-grows.704407]. Il 12 marzo, 15 persone sono riuscite a fuggire: 13 direttamente dal centro di detenzione e altre due dagli uffici della commissione per i rifugiati, dove erano state condotte per dei controlli. Dopo la caccia organizzata dalla polizia maltese, 5 persone sono state rintracciate e riportate nel centro di detenzione di Marsa [https://lovinmalta.com/news/15-migrants-escape-from-marsa-reception-centre-and-refugee-commissioner]. Ma la questione della “Sea Watch” era già stata archiviata e aveva fatto tutti contenti.

Veniamo infine agli ultimi giorni, quando la nave “Mare Jonio” è sbarcata a Lampedusa dopo un altro forte (ma ben più rapido rispetto al passato) scontro politico, con Salvini che strepitava contro la “nave dei centri sociali” e la sinistra che invocava a gran voce l’apertura del porto dell’isola siciliana. Alla fine * migranti sono sbarcat*, ma la nave è stata sequestrata e il comandante indagato. Salvini è rimasto soddisfatto, mentre il movimento che ha dato vita alla “Mare Jonio” ha organizzato delle manifestazioni in tutto il paese per chiedere il dissequestro della nave. E le 49 persone che sono sbarcate a Lampedusa? Che fine hanno fatto? Anche qui pare che nessuno abbia voglia di mantenere accesi i riflettori. Il governo ha ottenuto lo scalpo dell’imbarcazione della ONG e questa ha portato le persone migranti al sicuro. Talmente al sicuro che adesso si trovano nel lager di Lampedusa, un “hotspot” come quello di Malta e come i tanti che affollano il vecchio continente. Molte di queste persone fuggivano da altri lager in Libia e ora si ritrovano rinchiuse in territorio italiano, mettendo così in evidenza la continuità del sistema concentrazionario creato dall’Europa: il loro grido di esultanza “libertà, libertà” una volta scese dalla “Mare Jonio” è stato spezzato subito, ma non c’erano più le telecamere a documentarlo.

 

Il ritorno del partito e i prossimi fallimenti della sinistra

Viviamo in tempi sicuramente difficili, tempi in cui la distruzione dell’ecosistema prodotta dal capitalismo avanza a ritmi così incalzanti che ad ogni stagione gli effetti di tale devastazione ambientale si evidenziano nel numero crescente di catastrofi che hanno ben poco di naturale. Assieme a questo collasso programmato, per il quale gli scienziati che studiano gli effetti del riscaldamento globale parlano di una situazione ormai praticamente irrecuperabile, nelle nostre città siamo assalite da una reazione aggressiva, che si manifesta nei femminicidi quotidiani come nelle sparate naziste del ministro dell’Interno che si fa un selfie sorridente mentre interi paesi sprofondano tra le acque di torrenti e fiumi in piena. La situazione, per richiamare il celebre detto maoista, non è però affatto confusa e non può essere nemmeno eccellente: appare invece molto chiara, perché chiare sono le cause che l’hanno generata e gli effetti provocati dal dominio capitalista. Deboli e confuse, queste sì, troppo deboli e confuse appaiono invece le risposte a questa onda di reazione globale che punta a mettere a profitto per pochi pure la catastrofe ambientale in corso. La sinistra internazionale, erede della sconfitta del movimento operaio, sembra decisa a ripercorrere strade già battute, fallimentari quando non criminali: da un lato abbiamo il riemergere del richiamo alla costruzione di grandi partiti socialdemocratici di massa, dall’altro (e spesso in linea di contiguità con questo percorso) una deriva vera e propria nel nazionalismo, variamente declinato in sfumature patriottiche, costituzionali o esplicitamente fasciste. Un articolo della rivista americana “Jacobin” richiama ad esempio in maniera positiva “il ritorno del partito”: “Il fatto che i partiti politici stiano tornando nuovamente alla ribalta, è innanzitutto evidente dal crescente numero di membri all’interno dei partiti, una chiara svolta rispetto al progressivo calo di adesioni a cui hanno dovuto assistere molti partiti storici europei all’inizio degli anni Ottanta. In Gran Bretagna, il Partito Laburista sta per raggiungere i 600.000 membri, dopo aver raschiato il fondo nel 2007, alla fine del mandato di Tony Blair, con appena 176.891 adesioni. In Francia, la France Insoumise di Jean Luc Melenchon conta 580.000 sostenitori, rendendolo il più grande partito della Francia, dopo appena un anno e mezzo dalla sua fondazione. In Spagna, Podemos, fondata nel 2014, ha più di 500.000 membri, più del doppio rispetto al Partito socialista. Persino negli Stati Uniti, una nazione che per gran parte della sua storia non ha mai assistito alla nascita di partiti di massa nel senso europeo del termine, possiamo notare una tendenza simile, in quanto i Socialisti Democratici d’America (DSA), la più grande formazione socialista della nazione, ha raggiunto i 50.000 membri, all’indomani della candidatura di Bernie Sanders alle primarie del Partito Democratico, nel 2016. I DSA sono una corrente socialdemocratica che pratica l’entrismo nelle fila del Partito Democratico, vengono sponsorizzati da Jacobin a livello internazionale, tanto è vero che la filiazione italiana della rivista (promossa da vari intellettuali e politici della sinistra italiana, da Wu Ming a Marta Fana fino agli esponenti della casa editrice Alegre e di Communia) ha aperto le sue pubblicazioni parlando dei DSA: un’esperienza che andrebbe vista quanto meno con una lente critica per i rischi che comporta, ovvero quelli di legittimare un partito che è pienamente inserito nell’ordine capitalista globale. Sarebbe bastato ricordare il sostegno di Bernie Sanders a Hilary Clinton nelle ultime presidenziali. Allo stesso modo, le esperienze di sinistra populista come quella spagnola e francese presentano enormi problemi politici, dalla collaborazione di Podemos con i socialisti delle stragi di stato (il Psoe mentre proponeva la manovra “di sinistra” assieme a Pablo Iglesias si accordava nelle stesse ore con il governo marocchino per reprimere meglio i migranti) alle tendenze nazionaliste, colonialiste e razziste di France Insoumise. Insomma, mentre lo Stato assume un volto sempre più esplicitamente violento e legato al dominio capitalista, a sinistra si ripropongono forme più o meno intense di collaborazione e di corsa al potere, per meglio “gestire” il dominio del capitale. Non è un caso che oggi chi cerchi di ricostruire la sinistra istituzionale debba confrontarsi (se non proprio contaminarsi) con idee e pratiche fasciste e reazionarie: gli spazi di riformismo sono sempre più scopertamente inesistenti e anche questa “nuova” sinistra sarà un fallimento doloroso che condannerà altre migliaia di militanti alla disillusione e all’abbandono dell’impegno politico. L’articolo apparso su Jacobin si conclude con un appello alla ricostruzione dei partiti riformisti: “Contrariamente a ciò che alcuni hanno affermato all’alba del nuovo millennio, non c’è modo di cambiare il mondo senza prendere il potere. E non c’è modo di prendere il potere e cambiare il mondo senza ricostruire e trasformare i partiti politici”. Questa considerazione racconta l’esatto contrario di ciò di cui avremmo bisogno, ovvero una spinta diffusa a combattere il potere e ad organizzarsi in rete contro lo Stato e contro i partiti democratici.

L.C.

Vuoto di potere

La figura dell’attuale presidente del consiglio italiano, il carneade professor Giuseppe Conte, balzato improvvisamente agli onori delle cronache politiche mondiali e collocato a Palazzo Chigi per fornire un equilibrio al nascente governo giallo-verde, è emblematica e riassume plasticamente lo svuotamento effettuale della funzione rappresentativa nelle moderne democrazie capitalistiche. Paradossalmente, proprio mentre si rafforza una visione muscolare, populista e nazionalista della gestione del capitalismo italiano, in una deriva verso la ricerca di leadership forti e di partiti verticisti sempre meno democratici al loro interno, il nuovo potere si affida a questo personaggio semi-sconosciuto, utile al nuovo governo proprio per la sua mancanza di personalità. Si dirà che il professor Giuseppe Conte deve bilanciare la forza e gli eventuali contrasti che emergeranno tra i due veri leader del governo, i vice primo ministro Luigi Di Maio e Matteo Salvini, per cui questa evanescenza della prima carica dell’esecutivo è una finzione utile a una rappresentazione meramente amministrativa: dovrà pur servire qualcuno, meglio se un avvocato studioso di diritto privato, a coprire quella casella e fare quel necessario lavoro burocratico di esecuzione di decisioni prese altrove. Il punto però è proprio questo: dov’è questo altrove? Chi decide, chi comanda qui? Per rispondere a questa domanda dovremmo allargare la visuale e giudicare i primi giorni di questo nuovo governo un attimo al di là della rappresentazione giornalistica delle vicende che hanno visto Lega e Cinque Stelle guidare questa nuova fase della politica nazionale. Un primo elemento di contestualizzazione può essere offerto dal ruolo che svolge il ministro dell’economia nell’esecutivo: mentre i due leader Di Maio e Salvini continuano a promettere la realizzazione delle costose riforme sbandierate in campagna elettorale, il professor Giovanni Tria ridimensiona i capitoli di spesa e tiene fermo il governo populista sulla linea di continuità con l’austerity di Monti, Letta, Ciampi etc. Se però questi limiti economici possono anche apparire comprensibili per ragioni di prudenza almeno in questa prima fase, altri limiti di natura giuridica e politica emergono nel confronto con gli altri governanti degli stati europei e con gli stessi poteri della UE. La questione della riforma del trattato di Dublino fa capire quanto, al di là degli interessi dei singoli governi e della rappresentazione nazionalista di Salvini o di Macron, nella gestione dei migranti tutta l’Europa sia unita nell’intenzione di continuare a blindare le frontiere, proseguire nel disegno stragista in atto da anni nel mediterraneo, affermare la propria potenza colonialista nei confronti dei paesi africani, etc. Di fronte alla costruzione condivisa da tutti di nuovi lager, in Europa come in Africa, all’aumento di respingimenti e deportazioni, appare davvero poca cosa la polemica tra Francia e Italia per la gestione degli “hotspot”. Mentre il professor Conte passava la nottata con gli altri leader europei per limare i termini del nuovo accordo tra paesi europei sulla non-riforma del trattato di Dublino, nelle stesse ore più di cento persone morivano nelle acque antistanti la costa libica, uccise da quel sistema che nessun governo può o vuole mettere in discussione. La gestione delle migrazioni è talmente intrinseca al controllo delle persone e allo sfruttamento che nessun governo potrebbe affrontare diversamente la questione, a meno che non intendesse tendere a politiche anticapitaliste e rivoluzionarie, cosa che farebbe cadere questo ipotetico governo nel giro di due secondi. Qui arriviamo dunque alla vera questione di fondo e cioè che la diffusione del potere, la sua articolazione oltre e attraverso i centri nazionali e comunitari, la compenetrazione con i soggetti economici (non con la generica “casta” o le varie lobby ma imprese, finanza, il cuore del potere nel capitalismo) e lo svuotamento della funzione rappresentativa democratica sono tutte caratteristiche che possiamo difficilmente aggirare con richiami retorici che restano vuoti e fini a se stessi. Parallelamente al dilagare delle pulsioni fasciste (le vediamo esplodere minacciose ogni giorno nelle nostre città) ritorna l’illusione che una socialdemocrazia, magari più collocata verso sinistra rispetto al passato (pensiamo a leader come Sanders, Corbyn, Iglesias, Melanchon e…Viola Carofalo) possa impadronirsi delle leve del governo e gestire un capitalismo dal volto umano. Tutti i fenomeni di populismo di sinistra, di rinascita socialdemocratica, di rinnovamento dei partiti comunisti aspirano a cogliere al volo la stessa (impossibile) occasione storica, ovvero l’occupazione di uno spazio di potere all’interno delle istituzioni nazionali, istituzioni da modificare e poi eventualmente da rovesciare in direzione di un “potere popolare” che abbiamo ben visto come funziona, ad esempio nel disastro del regime chavista in Venezuela. Va detto chiaramente che questa prospettiva non è solo inutile perché fa perdere risorse e tempo ai movimenti di opposizione, ma che è profondamente sbagliata e viziata nelle sue stesse fondamenta teoriche e pratiche. Assistiamo dunque a uno strano paradosso: mentre il potere dimostra la sostanziale interscambiabilità delle sue figure rappresentative, che possono essere dei meri gestori burocratici come un Conte o un Junker, in un processo specchio della perdita di rilevanza delle istituzioni rappresentative democratiche, nel contempo i movimenti di sinistra puntano ancora sulla leadership forte, sulle figure carismatiche, sul leader che trascina le masse, in un rovesciamento simbolico che trasfigura la famosa “cuoca di Lenin”, che avrebbe potuto gestire il socialismo realizzato premendo solo un bottone, nella ricerca di famosi e premiati chef a cinque stelle. Eppure, se il potere ci mostra il suo terribile vuoto, anche le istituzioni alternative allo Stato potrebbero essere immaginate similmente, con l’abbandono della macchina statale e la federazione di consigli esclusivamente amministrativi. Un po’ come immaginavano, per riprendere un paragone storico a ridosso della rivoluzione sovietica, gli operai e contadini “machnovisti”, movimento represso e sconfitto nei primi anni ‘20 del secolo scorso, che scrivevano nel loro manifesto: “Come consideriamo il sistema dei soviet? I lavoratori devono scegliersi da soli i propri soviet, che soddisferanno i desideri dei lavoratori – cioè, soviet amministrativi, non soviet di stato. La terra, le fabbriche, gli stabilimenti, le miniere, le ferrovie e le altre ricchezze popolari devono appartenere a coloro che vi lavorano, ovvero devono essere socializzate”.

l.c.

Il nuovo bipolarismo e le sviste della sinistra

Negli ultimi giorni, dopo che è esploso il clamoroso contrasto tra Mattarella e Salvini sulla composizione del cosiddetto “governo del cambiamento” (una proposta di esecutivo dai tratti fortemente autoritari, con un programma antipopolare e giustizialista, caratterizzato dalla “flat tax” e dalla richiesta del carcere per i minori, nel contesto del quale i Cinque Stelle hanno piazzato il loro reddito di cittadinanza e la difesa dell’acqua pubblica ma di fatto consegnando l’indirizzo politico nelle mani della Lega di Salvini, che pure aveva avuto la metà dei voti alle scorse elezioni…) tutto lo scenario politico italiano si è polarizzato sulla questione della sovranità nazionale contro il dominio dei mercati e dei burocrati di Bruxelles. Forse per volontà di entrambi, sia Salvini che lo stesso Mattarella, si è voluto creare un nuovo bipolarismo nei contenuti politici e nelle prossime alleanze elettorali e parlamentari, spiazzando così il povero Di Maio che aveva fatto professione di atlantismo ed europeismo pur venendo da una storia no-euro e filo putiniana: i suoi sforzi di moderare il Movimento Cinque Stelle pur di entrare nella stanza dei bottoni sono stati resi vani dall’accelerazione sovranista di Salvini e dalle contromosse di Mattarella. Ora, se questo sarà dunque lo scenario dei prossimi anni e il contenuto caratterizzante della cosiddetta Terza Repubblica, ovvero un bipolarismo tra fronte euroscettico e fronte repubblicano ed europeista, appare chiaro che tutta la sinistra sia destinata a continuare a rimanere ai margini dello scontro politico in atto nell’ambito istituzionale. Non siamo dunque in Portogallo, dove i socialisti governano con la sinistra radicale cercando di mediare tra i diktat di Bruxelles e lo scontento popolare, oppure in Inghilterra dove il Labour grazie al carisma di Jeremy Corbyn si è ripreso il suo spazio socialdemocratico. Tanto meno siamo in Grecia dove la sinistra radicale, una volta arrivata al potere grazie a una grande mobilitazione sociale, sta gestendo tutte le politiche infami di austerità e repressione. Siamo in Italia, dove quando si parla di “sinistra” si può fare riferimento al Partito Democratico, ossia il referente politico di Confindustria, mentre la sinistra radicale (ricordate la teoria delle “due sinistre” di Fausto Bertinotti?) è sparita dalla scena politica dopo aver appoggiato il secondo governo Prodi, ormai più di dieci anni fa. E allora ci si pone la domanda, anche negli ambiti di movimento che sono fuori da una diretta partecipazione alla politica istituzionale, se sia il caso di attraversare, anche criticamente, uno dei due campi che si stanno creando, quello euroscettico o quello repubblicano. Se il secondo appare impraticabile per la presenza ingombrante del Partito Democratico e per il fatto che a Bruxelles si imponga ancora una politica di pesanti tagli allo stato sociale di stampo monetarista, nel secondo fronte alcuni pensano si possa fare un’operazione di attraversamento critico, scomponendo la parte chiaramente fascista, sovranista e nazionalista dell’euroscetticismo da quella che combatte i poteri europei con un impianto più democratico e aperto alle rivendicazioni popolari e sindacali. Un’operazione del genere, è stata già tentata per altri versi nel passato, quando i movimenti si erano interessati a condizionare le ambivalenze presenti nei famosi “forconi”, nel cosiddetto “No sociale” al referendum proposto da Matteo Renzi. Sia detto per chiarezza, combattere i poteri europei è sacrosanto, quando la “fortezza Europa” sta praticando uno sterminio contro i migranti con la chiusura delle frontiere, oppure quando da Bruxelles si condizionano eventuali politiche progressiste (ove mai queste politiche fossero proposte da un governo nazionale, cosa raramente accaduta negli ultimi decenni, basti pensare che le stesse forme di sostegno al reddito sono state ripetutamente caldeggiate da Bruxelles ai governi italiani, di centrodestra come di centrosinistra, e non sono mai state accettate). In generale, il contrasto ai poteri rappresentativi è una cosa buone e giusta, siano essi collocati a Bruxelles, a Roma o a Varese e Monza (come auspicava la Lega Nord ai tempi di Umberto Bossi). La strada per la costruzione di un blocco sociale antagonista caratterizzato dai temi “No euro”, contro i trattati economici, è comunque veramente stretta e difficilmente porterà ad aggregare qualcosa di più che un movimento residuale. Siamo veramente sicuri, come scrivono alcune riviste online dell’antagonismo, che nella composizione di classe sia prevalente un sentimento anti-europeo, in primis contro la moneta unica? Questa idea, a prescindere se sia conveniente o meno ritornare alla Lira, magari guidati da un esecutivo fascistoide purché sia, sembra veramente lunare. Chi conosce la condizione dei milioni di proletari meridionali, ad esempio, costretti a decidere se emigrare all’estero oppure restare e barcamenarsi tra lavori precari e sostegno del welfare familiare, dovrebbe capire che i desideri e le preoccupazioni che attraversano questa composizione di classe spingono verso tutt’altra direzione. Chi è emigrato all’estero o conta di farlo, magari temporaneamente, sa bene che uno scontro con i paesi forti dell’Eurozona, meta principale dell’emigrazione dall’Italia, sarebbe un bel problema, che indebolirebbe immediatamente la posizione sul mercato del lavoro dei migranti. Chi resta in Italia, con tutte le difficoltà del caso, ricorda quanto avvenne ai tempi del passaggio dalla Lira all’euro, quando una pizza e una birra praticamente raddoppiarono di prezzo, quando ad arricchirsi nel passaggio furono padroni, commercianti etc, non certo studenti e precari: il sospetto, fondato o meno, è che in un passaggio inverso, dall’euro a una nuova moneta nazionale, a perderci siano sempre gli stessi. È troppo facile pensare che per costruire questo fronte anti-euro da sinistra basti fare una filippica ideologica contro lo strapotere dei mercati e il dominio dei burocrati liberisti di Bruxelles. Il sospetto è che le riforme economiche proposte dagli economisti e dai politici no-euro o immediatamente conseguenti dalla rottura con l’eurozona, dalla svalutazione della moneta a una ripresa dell’inflazione, siano devastanti per chi campa con una piccola rendita familiare e non certo grazie solo al solo stipendio. Pensiamo anche a queste cose quando ci facciamo promotori e interpreti dei desideri della classe e degli sfruttati, perché il rischio reale è che l’unico agente ideologico effettivamente efficace nel richiamare le masse a combattere Bruxelles sia il fascismo. Per quanto riguarda invece la costruzione reale di movimenti popolari contro l’Europa, in effetti qui ci troviamo di fronte a una delle più clamorose miopie politiche della sinistra antagonista o come la si voglia chiamare: una lotta di massa contro il dominio di Bruxelles è già attiva e presente oggi e coinvolge migliaia di persone ogni giorno, è la lotta contro le frontiere che praticano le persone migranti rischiando la pelle. Si potrebbero, invece di pensare con quale moneta e quale governo reprimere e sfruttare le persone, rafforzare le reti di solidarietà con i movimenti di lotta che attraversano i paesi del mediterraneo, stringendo relazioni con chi si ribella oggi a Tunisi, nel Rif in Marocco, in Egitto, ché magari sono le stesse persone che qui vengono incarcerate in un C.P.R. o lavorano nelle campagne pugliesi o calabresi.

Pasquale Caetani

Oltre l’autorappresentazione, mettiamo in gioco i nostri corpi

1. Dopo le elezioni del 4 marzo la situazione politica del paese resta incerta e presenta alcuni aspetti di novità rispetto al passato. Le urne hanno bocciato sonoramente i partiti che hanno governato la crisi negli ultimi anni attraverso l’attuazione delle politiche europee e invece hanno premiato chi si è tenuto (almeno nella retorica) in una posizione contro l’austerity o ha proposto una rottura con Bruxelles. Soprattutto nel mezzogiorno, i Cinque Stelle sono stati riconosciuti da milioni di persone come l’unica alternativa elettorale credibile al fallimento delle politiche del lavoro di Renzi, Confindustria e soci. Quello che resta incerto, pur in un quadro di sostanziale stabilità complessiva del dominio capitalista nel nostro paese, è chi avrà la direzione politica che dovrà guidare l’accumulazione del capitale nei prossimi anni: diversamente da quella che viene spacciata come una presunta “uscita dalla crisi” da destra o da sinistra, si tratta di capire quali saranno gli schieramenti che avranno in mano questo ruolo che sarà giocoforza usato contro le persone sfruttate. Completamente scartata dagli elettori è stata la possibilità di tentare una via di uscita da sinistra: diversamente rispetto ad altri paesi come Inghilterra, Francia, Grecia, Spagna, Portogallo etc., la sinistra cosiddetta radicale è stata giudicata come interna al disastro provocato dalla sinistra liberale e non le si è data nessuna chance di guidare eventualmente un governo che conciliasse (fittiziamente) gli interessi del capitale con quelli di chi è sfruttatx. La stessa esperienza di “Potere al popolo!” raccoglie la metà dei voti della lista di “Rivoluzione Civile” del 2013 e si colloca così nella lunga scia dei tentativi falliti di rianimare il cadavere politico di Rifondazione Comunista.

2. Il fallimento di “Potere al popolo!” (PaP) ci porta dritti alla questione che più ci interessa, ovvero quella della ripresa dei movimenti anticapitalisti e rivoluzionari in questo paese. Il tentativo elettorale di PaP aveva anche il chiaro obiettivo di mettere un cappello e realizzare un’egemonia politica sui movimenti di lotta che si muovono ancora in Italia, un tentativo di ridurre e presentare tutte le lotte e le esperienze antagoniste sotto l’unica regia del centro sociale Ex-Opg di Napoli. Questa struttura politica, forte del sostegno del sindaco De Magistris, ha pensato di allearsi con vari gruppi della sinistra (Rifondazione, Pci, Usb, Sinistra Anticapitalista, Rete dei Comunisti, Eurostop etc.) per riuscire a presentarsi come l’avanguardia delle lotte e dei “centri sociali” e iniziare a costruire il proprio partito. Lo scarso risultato elettorale di PaP non può lasciare quindi in secondo piano la ricaduta politica negativa che avrà comunque questa operazione: la cultura fortemente lavorista e riformista moderata di Ex-Opg (rimarranno agli annali le dichiarazioni a favore della Costituzione) ha portato un deciso arretramento nel dibattito politico delle varie realtà anticapitaliste, e alle persone coinvolte in questo percorso (tante e tanti militanti di base a cui si è lisciato continuamente il pelo per tenerle in futuro legate alla dirigenza dell’Ex-Opg) si è proposta una strada completamente fallimentare. Non c’è nessuno spazio per la sinistra radicale a livello elettorale, ma non c’è nemmeno uno spazio di autorappresentazione delle lotte da usare per portare avanti un politica riformista già ampiamente bocciata dal passato remoto e recente: basti pensare al fallimento di Syriza, un partito arrivato al governo in seguito a una mobilitazione popolare molto forte e con il sostegno di varie esperienze sociali e mutualistiche, che ora gestisce i lager per migranti e le politiche di austerità.

3. In questo scenario piuttosto sconfortante restano varie esperienze importanti e significative che ci danno comunque una prospettiva politica di impegno per i prossimi anni. È certo dura non avere le scorte di entusiasmo di “Potere al popolo!”, ma possiamo far valere almeno la nostra rabbia contro le oppressioni. Ci sono lotte molto dure in questo paese, lotte che hanno visto negli ultimi mesi l’uccisione da parte dello Stato di alcuni nostri compagni e vedono in generale una repressione molto forte: dalle lotte dei/delle migranti ai movimenti femministi, dalle pratiche antifasciste alle lotte sindacali, sono tante le situazioni in cui c’è bisogno di mettere in gioco i nostri corpi. Costruire una presenza rivoluzionaria qui e ora è davvero un’impresa complicata, non solo per la repressione ma anche per la tara politica di una militanza diffusa che crede sia più facile e comodo postare su internet le scene di poche lotte (alle quali magari non si è nemmeno partecipato) per risultare efficaci e poi legittimarsi nei contesti politici più allargati. Così facendo però si aumenta solo il proprio ego ipertrofico (anche detto “entusiasmo”) e si ostacolano di fatto i percorsi di lotta. Abbiamo visto in queste settimane anche compagni e compagne denunciate in seguito alle riprese filmate dei cortei fatte non dalla questura ma da alcuni gruppi che dicono di partecipare ai movimenti. Rompere questo gioco delle identità e della legittimazione dei leaderini di movimento che si fanno pubblicità (magari per poi presentarsi alle elezioni) ci sembra un presupposto decisivo per fare chiarezza, cominciando anche a discutere di cosa significhi “mutualismo” in contesti non conflittuali ma solo utili a quella autorappresentazione così deprimente e dilagante. Spesso le pratiche mutualistiche proposte dai movimenti non sono altro che piccole esperienze di impresa privata, cooperativa o meno, gestita dalla direzione di alcune strutture politiche. Vediamo anche la ripresa dell’idea tipicamente cattolica della sussidiarietà nei confronti dell’intervento statale, oppure il progetto di controllare quello che fanno le istituzioni rispetto ad un loro presunto dovere: si è finiti addirittura per affiancare la polizia o le Asl locali in nome di un presunto decoro e buon funzionamento di istituti repressivi come i centri di accoglienza per migranti. Come scrive il Comitato Invisibile, “Pochi settori hanno sviluppato un amore così fanatico della contabilità,  per cura della legalità, della trasparenza o dell’esemplarità, quanto quello dell’economia sociale e solidale. In confronto qualsiasi PMI è un lupanare contabile. Abbiamo centocinquanta anni d’esperienza di  cooperative per sapere che queste non hanno mai minimamente minacciato il capitalismo. Quelle che sopravvivono finiscono, presto o tardi, per  divenire delle imprese come le altre. Non esiste «un’altra economia», ciò che esiste è un altro rapporto all’economia. Un rapporto di distanza e di ostilità, giustamente” [Estratto da Comité invisible, Maintenant, la Fabrique, Paris 2017, pp.87-107(trad. a cura di quieora international).

4. Essere presenti nelle lotte costa fatica, sacrificio, ci sono poche soddisfazioni e non ci appartiene la cultura religiosa del martirio bensì quella della pratica comune e della gioia. La costruzione di percorsi non identitari e conflittuali deve nascere attraverso pratiche orizzontali e non verticistiche, pratiche che superino quel leaderismo machista che tanti danni ha fatto ai movimenti in questi anni. L’obiettivo che ci prefiggiamo non può essere una mera ricostruzione della “sinistra”, un luogo ideale ormai scomparso dal parlamento così come ripudiato nella società, il nostro percorso deve invece riguardare la ripresa di una conflittualità rivoluzionaria e intersezionale di fronte alle varie oppressioni. Non ci interessa dunque nessuna “uscita dalla crisi” che sia una ricomposizione degli apparati economici e repressivi statali guidata da partiti della sinistra, ma vogliamo anzi far aumentare le contraddizioni mediante la pratica del conflitto, costruendo reti e contatti con una visione internazionale. Insisteremo dunque in questo percorso consapevoli che pur nelle difficoltà troveremo tante altre persone disponibili a intraprendere il nostro stesso cammino.