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Cento anni dopo: l’insurrezione che viene

Immortalato nella scena del film “Ottobre” di Ėjzenštejn mentre firma la deposizione del governo tra i bolscevichi che hanno preso d’assalto il “Palazzo d’Inverno”, il comunista dandy con il suo cravattino slacciato e gli occhialini da intellettuale ha nella mano una rivoltella, in una scena quasi da western. L’insurrezione è compiuta, gli orologi si fermano e l’evento impensabile si è realizzato. Questa volta, la prima nella storia dell’umanità, gli oppressi che hanno tentato l’assalto al cielo hanno vinto. Non è più la Comune parigina repressa nel sangue, nemmeno il massacro dei contadini tedeschi a Frankenhausen. Dopo cento anni dai “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, cosa abbiamo da dire oggi sulla rivoluzione dei soviet, cosa rimane dell’insurrezione che ha aperto la strada a milioni di proletari in ogni parte del pianeta? Sarebbe troppo facile o noioso partire dalle cause o dalle conseguenze del termidoro staliniano oppure dalla sconfitta del socialismo reale nel 1989, ricordando come quelle ali si siano bruciate sotto il sole di un tentativo audace o viziato sin dal principio. Pure ricostruire una genealogia comunista basata sulla tendenza dell’economia, sullo sviluppo delle forze produttive, oggi “pur nella mutata fase”, sembrerebbe stonato. Leggendo l’ultima intervista fatta recentemente a Toni Negri si possono trovare ancora le tracce di questo antico vizio economicista, nonostante tutto: “La rivoluzione – afferma Negri – è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo dell’intelligenza collettiva”. Ancorati all’idea della priorità di giustificare in un modello produttivo le nuove istituzioni del potere costituente, rischiamo forse di partire con il piede sbagliato, ovvero rischiamo di dimenticare quanto ci sia da distruggere ancora del vecchio dominio, del potere che ci opprime qui e ora. Assumendo la centralità della produzione, anche se nelle nuove vesti cognitive e cooperative nei network immateriali, siamo costretti a ripetere idealmente la creazione di nuovi poliziotti a difesa di nuovo dello “stato di tutto il popolo”, anche se uno stato certamente “diverso”, ci mancherebbe, uno stato che nasce dalla relazione tra governo democratico e movimenti di opposizione, in una sterile riproposizione del riformismo novecentesco anche se sotto le nuove forme del postmoderno. Eppure è vero che l’intelligenza, il coraggio, la generosità e l’immaginazione dei rivoluzionari non mancano dopo cento anni da quella insurrezione: queste qualità le vediamo all’opera in tante parti del mondo, ancora vive e vitali, mentre cercano di contrastare il capitalismo e le sue istituzioni. Penso a Paul Preciado che dichiara la sua disforia di genere insieme alla sua incapacità di identificarsi con una patria e una nazione: proprio mentre partecipa al processo dell’indipendenza della Catalunya si dichiara estraneo non solo ad uno stato che lo opprime e che c’è già ma anche a quello che non c’è ancora. Oppure penso a chi è rimasto in Siria a combattere il tiranno Bashar Al-Asad, sfuggendo ai bombardamenti chimici e al terrore delle galere o dell’invasione di Putin, magari sorretto anche dalla fede in un Islam che non si esprime, fortunatamente, solo attraverso il volto fascista e totalitario dell’ISIS. Oppure penso agli anarchici che si battono, completamente incompresi dalla sinistra mondiale, contro il regime corrotto di Maduro in Venezuela, consapevoli che nelle lotte non può valere la considerazione borghese della ricerca di un presunto “male minore”, in questo caso rappresentato dalla burocrazia del capitalismo petrolifero bolivariano. O ancora, seguendo proprio la rotta del petrolio, penso a un guerrigliero africano che assalta e rompe l’oleodotto di una multinazionale per redistribuire una parte dell’immensa ricchezza che viene sottratta al suo continente ogni giorno. Non possiamo certo dimenticare che oggi, cento anni dopo, la stessa parola comunismo appaia impronunciabile e richiami alla salma di Lenin o al potere del partito turbo-capitalista cinese: ovunque nel mondo il simbolo della falce e martello chiama a raccolta non i lavoratori ma poliziotti, politici, nazionalisti e feccia di ogni risma. Eppure, ancora, cento anni dopo sentiamo in lontananza quel ritornello che non muore: le sue note ci dicono che il partito storico degli oppressi continuerà a giocare la sua partita, diversa da ieri e da domani, contro gli oppressori in ogni latitudine del pianeta. Chi sarà in grado di vincere oggi? Dove si realizzerà la nuova insurrezione? Sembra banale dirlo, ma una rivoluzione non è possibile senza i rivoluzionari: saranno ancora loro, non anonimi processi storici o astratte tendenze tecnologiche ed economiche, a portare avanti il desiderio di autonomia e liberazione.

l.c.

La guerra contro i/le migranti e il colonialismo della sinistra

“Con il nemico si parla dopo averlo combattuto e mai prima. Ma questo è ciò che tutti i riformisti fanno finta di non capire. Per questo il primo avversario dei rivoluzionari è sempre la socialdemocrazia, quello che bisogna disattivare per poter affrontare il vero nemico ontologico-esistenziale: il capitalismo e il suo mondo” [Vicente Barbarroja, “Gentry, Odio, Metropoli”, in “Qui e ora” n.3]

La stretta repressiva operata dal governo italiano negli ultimi mesi in materia di immigrazione è stata spettacolare e particolarmente efficace: una volta registrata l’indisponibilità europea a rivedere gli accordi di Dublino rispetto alla suddivisione tra gli stati membri dell’Unione delle persone sbarcate nel primo paese-approdo del vecchio continente, ecco che l’esecutivo guidato da Gentiloni ha realizzato in poche settimane un blocco quasi completo della rotta libica. Senza scrupoli di sorta, guidato dal desiderio del ministro Minniti di passare alla storia come l’uomo che ha risolto “il problema dei migranti”, il governo italiano ha di fatto chiuso la missione Triton, bloccato i soccorsi in mare di stato e organizzazioni non governative, appaltando il controllo delle coste libiche alle stesse bande criminali che gestiscono parte del percorso che va dai lager libici all’approdo a Lampedusa. La spettacolare riduzione degli approdi in Italia, diminuiti del 50% a luglio (mese di maggiore frequenza di sbarchi) e ancora di più in questo mese di agosto, ha portato sempre più in auge nel teatrino politico la figura di Minniti, il comunista cresciuto con il culto dello stato e dei servizi segreti, l’uomo che non si fa scrupolo di portare le navi militari nel porto di Tripoli o di stringere accordi coi peggiori criminali degli stati sub–sahariani pur di non far approdare gli africani in Italia. Missione compiuta, dunque? Di certo questa operazione militare, una vera e propria operazione di guerra neo-colonialista, ha raggiunto parte del suo scopo, con il piccolo “danno collaterale” della reclusione nel deserto di migliaia di persone, con l’aumento del rischio di morti nel Mediterraneo e con la distruzione di centinaia e centinaia di vite umane. Poco importa, l’opinione pubblica italiana è grata a Minniti, convinta che “non ci sia posto” per gli africani nel nostro paese, con l’Europa che preme alle frontiere per non farli circolare negli altri stati confinanti, con relativa chiusura a Ventimiglia e al Brennero. Una strage vera e propria, concepita e realizzata con l’idea che la sicurezza del controllo dei confini sia un’idea di sinistra, ugualmente spendibile insieme al discorso di accogliere e gestire le vite di quei pochi fortunati che sono riusciti miracolosamente a entrare nel nostro paese. Che vita fanno queste persone mentre gli altri dannati della terra sono bloccati nei lager libici o nel deserto del Ciad o sono morti nel fondo del mar mediterraneo? Qui entra in gioco l’altro aspetto della faccenda: mentre il fronte esterno della guerra ai migranti dispiega navi militari e bande criminali senza scrupoli, il volto buono dell’accoglienza in Europa spende milioni di euro per controllare, gestire, infantilizzare migliaia di vite umane, inserendole in un circuito di sfruttamento lavorativo e di disperazione. Nessun documento, niente libera circolazione, respingimenti, deportazioni, vite di merda in tendopoli sovraffollate, in centri di accoglienza straordinaria simili a carceri: un vero e proprio inferno, molto più simile alle condizioni dei lager libici che alle promesse del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e altre belle cose scritte solo sulla carta. Di fronte a questo scenario così complesso e terrificante, qual è la reazione del movimento antirazzista italiano? A parte poche lodevoli eccezioni di autorganizzazione dei lavoratori migranti nelle campagne o nel settore della logistica, lo scenario è decisamente sconfortante. Sindacati di base che spacciano per “sindacalizzazione” il corrompere pochi migranti per far spegnere le lotte in corso nelle tendopoli o nei luoghi di lavoro, associazioni che si pongono come mediatori immaginari tra la volontà dello stato di reprimere e i desideri dei/delle migranti di avere documenti e una vita decente. La sinistra italiana, nelle sue espressioni politiche, associative e sindacali, fino alle sue espressioni più radicali nei centri sociali e nei collettivi di solidarietà ai migranti, sta attraversando questo passaggio storico drammatico in cui migliaia di vite umane vengono massacrate e altre vengono gestite in un sistema di controllo e repressione senza porsi alcun problema, anzi partecipando al funzionamento di questo sistema prendendo fondi, aiutando lo stato a reprimere, piazzando clientele di lavoratori del settore, operando divisione e delazione tra i migranti che lottano. Forse oggi non è ancora completamente chiara questa dinamica vergognosa, complice il racconto interessato dei media subalterni alla politica, complice pure la volontà di questi gruppi di sinistra di auto-rappresentarsi con “selfie” e vagonate di pagine Facebook come buoni amici dei migranti: ogni giorno che passa, però, aumenta la visibilità del marchio di infamia della partecipazione a un sistema che ha una doppia faccia ma il medesimo obiettivo, ossia controllo e repressione, gestione e genocidio, colonialismo dal volto umano e massacro nel mar mediterraneo. La sinistra italiana pagherà in futuro la sua mancanza completa di coraggio, ma già oggi gli spazi elettorali e istituzionali che vorrebbe ritagliarsi sono praticamente ridotti al lumicino, mentre tutto il discorso politico generale si sposta sempre più a destra, con il Pontefice della chiesa cattolica che viene visto come un difensore dei migranti e l’Avvenire come foglio antifascista, in un declino sempre più veloce e pericoloso nella normalizzazione e nell’accettazione di pratiche discriminatorie, fasciste e criminali. Se la sinistra ha introiettato questo “colonialismo 2.0”, oggi i migranti che riescono a entrare in Italia sono sempre più soli, mentre una quota esorbitante di cittadini italiani è a sua volta parte di quell’esercito di “migranti economici” in viaggio verso altri lidi europei o internazionali, una quota di emigrazione massiccia, agli stessi livelli del secondo dopoguerra o della fine dell’ottocento. L’Italia si svuota sempre di più, lo stivale diventa una prigione, i padroni sono sempre più in grado di sfruttare la classe lavoratrice perché tutte le colpe e lo stigma sociale vengono scaricati sugli immigrati. Uno scenario veramente disastroso all’interno del quale qualche centro sociale “comunista” riesce addirittura ad accreditarsi e ad attribuirsi come vittoria qualche permesso di soggiorno rilasciato con il contagocce dalla questura. Nonostante questo, lontano da questo atteggiamento paternalista e autoreferenziale, le lotte dei migranti continueranno e saranno sempre di più le uniche lotte in grado di contrapporsi veramente al sistema di sfruttamento del capitalismo nazionale. I/le solidali che stringeranno legami con queste lotte avranno la possibilità di apprendere come ci si oppone al potere in maniera efficace.

Centro di accoglienza a Sicignano degli Alburni: rompiamo l’isolamento, documenti per tutti

Percorrendo l’autostrada Salerno-Reggio, in un giorno segnato dal terribile caldo umido di agosto, abbiamo raggiunto Sicignano degli Alburni per renderci conto di persona delle condizioni dei 35 migranti che da mesi risiedono nel centro di accoglienza nel comune salernitano, frazione Galdo. Siamo stati spinti a cercare questo incontro dal fatto che ormai più volte, negli ultimi mesi, queste persone stanno mettendo in campo una serie di atti di protesta per reclamare documenti, una migliore condizione di vita e l’uscita dall’isolamento. Arrivati sul posto infatti la prima cosa che colpisce è proprio la sensazione di isolamento: il centro di accoglienza è lontano 8 km dal centro abitato di Sicignano ed è, come ci ha detto un migrante, “in the middle of the forrest”. Il “centro” in realtà sarebbero due capannoni prefabbricati in lamiera (immaginiamo come si possa stare in questi giorni di calura là dentro…), uno per la mensa e uno per i letti. Un gruppo di musulmani è costretto a pregare fuori sul cemento, nel frattempo un altro migrante si bagna con una pompa messa fuori sempre alla buona. La cucina è ripetitiva e non sempre tiene conto dell’alimentazione a cui sono abituate le differenti persone, che vengono da vari paesi africani e asiatici. Il centro di Sicignano fa parte del circuito ufficiale dell’accoglienza: i finanziamenti ci sono ma, considerando la situazione e le innumerevoli proteste, nascono forti dubbi riguardo il loro utilizzo e il rispetto di tutti gli obblighi cui sono tenuti i gestori di queste strutture. L’atmosfera di tensione era comunque palpabile, anche rispetto agli effetti della recente protesta: c’è chi è ormai da nove mesi in Italia e non ha ottenuto ancora risposte e vorrebbe costruirsi una vita in autonomia, non essere recluso in un prefabbricato in una frazione di un piccolo paese senza possibilità alcuna di migliorare la propria condizione. Inoltre, a seguito di tale protesta,10 migranti tra quelli coinvolti sono stati denunciati, con la conseguente espulsione dal centro accoglienza e dunque l’impossibilità di ottenere il diritto d’asilo, tornando così in una situazione di irregolarità che mette ancora più a rischio le loro esistenze. Ci sembra fondamentale e mai scontato ribadire che la situazione che questi migranti vivono nel centro di Sicignano non si discosta affatto da quella di chi è costrett* in altri centri di accoglienza, strutture nate per favorire gli affari di pochi, regalare manodopera a basso costo o totalmente gratuita con la scusa dell’integrazione, infantilizzando, controllando e privando della libertà migliaia di persone prigioniere per anni di questo sistema dal quale solo una misera percentuale riesce a uscire con il tanto agognato documento che permetterà la permanenza in Italia. In definitiva, siamo molto preoccupat* per quanto stanno vivendo le persone in questo centro a Sicignano: l’appello che facciamo è che si ascolti la loro voce, si supporti la loro lotta, rompendo l’isolamento, si diano subito risposte alle loro richieste: documenti per tutti e una possibilità di vita indipendente e autonoma in questo paese.

La piega

“Per cominciare ad orientarci in questo mondo leibniziano, per Deleuze ancora attualissimo, potremmo appunto pensare che la realtà è fatta di pieghe, una piega che si prolunga all’infinito e non cessa di differenziarsi, ripiegamenti della materia e pieghe dell’anima. Una realtà porosa, rugosa, cavernosa, sempre in movimento, in uno sterminato brulicare di piccole pieghe: molteplicità che si ripiega e si spiega, e che sta a noi, alla nostra capacità di pensarla, tentare a nostra volta di spiegare. Per semplicità, possiamo pensare proprio alla stoffa e alle sue pieghe, a un tessuto che si trama di infinite increspature; oppure, con un occhio per così dire più orientale, possiamo pensare alla carta e quella sottile arte giapponese di piegarla che si chiama origami” [Pier Aldo Rovatti]

L’idea che sia costantemente importante fare e dare un punto e mai la linea, che la costruzione di soggettività sia più legata alle affinità e alle assonanze che ad un richiamo all’ordine, il tentativo di costruire una serie di composizioni che possano creare un modo differente di porsi rispetto all’analisi della realtà e dei suoi movimenti: questo blog collettivo nasce come un tentativo (uno dei tanti) di dare uno spazio virtuale (e possibilmente in alcuni casi anche fisico) a questa esigenza diffusa tra tant* di noi. La differenza che forse ci contraddistingue da altre elaborazioni collettive è che vorremmo tentare di dare voce a una presa di posizione intersezionale opposta al classico discorso legato ad analisi, commenti, autorappresentazioni politiche e opinioni: pur essendo legittime tutte queste ultime, riteniamo che ci sia una sottile differenza tra “avere” una posizione (il campo delle opinioni, soprattutto nell’era dei social, si dispone su un campo così vasto e sconfinato che sarebbe veramente una fatica improba attraversarlo con la pretesa di “fare egemonia” tra le posizioni contrapposte) e “prendere” una posizione, che implica un coinvolgimento emotivo, affettivo, quando cioè in ballo c’è il nostro corpo e ci sono le possibilità che i nostri incontri, anche i nostri discorsi e i nostri ragionamenti, producano qualcosa di positivo, un di più di gioia e di composizione comune. Viviamo un tempo nel quale è difficile, se non impossibile, costruire percorsi collettivi che siano felicemente intersecati con le volontà di essere singolarmente attivi, capaci di spendere le migliori energie individuali perché spesso questi tentativi si scontrano con la volontà di un soggetto egemone che propone la delega ai suoi associati, a cui chiede semplicemente di assumere un tono uniforme, un vocabolario collettivo, un linguaggio unico che chiuda ogni possibile fuga in avanti o divergenza. In questo stesso tempo, però, già l’emergere di un richiamo urgente alla pratica politica dell’intersezionalità ci porta a dover fare un passo in avanti: contro la gerarchia delle lotte, contro l’immagine del militante umano-maschio-lavoratore-occidentale siamo costrett* ad attraversare le varie faglie che il capitalismo oggi propone nel suo tentativo di riduzione ad uno dei vari mondi che esistono e potenzialmente potrebbero esistere: il transfemminismo queer, il superamento della dicotomia animale-umano, la lotta alle frontiere, non c’è nessun tema che oggi possa pretendere di zittire discorsi e pratiche di un altro percorso, ponendo una riduzione già in partenza delle pratiche di lotta. Attraversando questa realtà, tra le pieghe del molteplice, cercheremo di aprire qualche spazio in più di incontri, di complicità e relazioni solidali.