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I nuovi abiti del Capitalismo

Pubblichiamo la traduzione di un lungo intervento di Evgeny Morozov sul libro di Shoshana Zuboff “Il capitalismo della sorveglianza” [S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019]. In questa recensione, Morozov dimostra come le basi teoriche dello studio di Zuboff siano poco solide, basate più che altro su un funzionalismo sociologico che giustifica tautologicamente le proprie ipotesi, senza un confronto adeguato con ipotesi scientifiche diverse. “Esiste una teoria più semplice, più generale, per spiegare l’estrazione dei dati e la modifica del comportamento che Zuboff trascura, intrappolata com’è all’interno della struttura Chandleriana, con il suo ardente bisogno di trovare un successore del capitalismo manageriale. Questa teoria più semplice va così: le aziende tecnologiche, come tutte le aziende, sono guidate dalla necessità di assicurare una redditività a lungo termine. La raggiungono superando i loro concorrenti attraverso una crescita più rapida, esternalizzando i costi delle loro operazioni e sfruttando il loro potere politico. L’estrazione dei dati e la modifica comportamentale che consente – chiaramente più importante per le aziende in settori come la pubblicità online – sorgono, dove lo fanno, in quel contesto”.

Buona lettura.

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What the Health

What the Health è un documentario (o come si dice più precisamente, un docu-film) del 2017 scritto e prodotto da Kip Andersen e Keegan Kuhn, gli stessi autori del fortunato Cowspiracy. Se la prima opera si soffermava sul disastroso inquinamento provocato su scala globale dagli allevamenti animali, What the Healt prosegue idealmente questa ricerca analizzando i danni provocati alla salute dal consumo di carne, uova e latticini. Il metodo narrativo e d’indagine usato da Kip Andersen durante le scene del documentario è lo stesso di Cowspiracy: il protagonista si interroga all’inizio in maniera generica su quali siano le cause di malattie molto diffuse (soprattutto negli USA) come il diabete e quali siano gli alimenti maggiormente cancerogeni assunti quotidianamente nella dieta dell’americano medio. I risultati di questa ricerca smentiscono i principali luoghi comuni sull’alimentazione, ad esempio sul ruolo principale giocato dagli zuccheri riguardo il diabete, e portano Kip Andersen a cominciare un giro di telefonate e richieste di incontro con diverse organizzazioni che tutelano la salute dei consumatori, dalle fondazioni contro il diabete a quelle per la ricerca sul cancro. Proprio come in Cowspiracy, l’effetto di semplici richieste di incontro è spiazzante e a tratti esilarante: i responsabili di organizzazioni che tutelano i consumatori si rifiutano di parlare di alimentazione, di rispondere a domande sugli effetti cancerogeni della carne (Andersen cita sempre la fonte di queste ricerche, spesso provenienti da organismi internazionali ampiamente riconosciuti) e svicolano in maniera goffa e a volte anche aggressiva. Il perché di questo rifiuto di confrontarsi è presto svelato: i produttori delle sostanze indicate come rischiose per la salute sono gli stessi che finanziano lautamente le organizzazioni a tutela della salute. Per cui, nonostante i derivati della carne, latticini e uova siano sconsigliati soprattutto per chi ha determinate malattie, nella dieta proposta sui siti web di queste organizzazioni li troveremo indicati senza problemi. Facile fare due più due e capire il nesso. L’industria degli allevamenti animali, come spiegato bene in Cowspiracy, è un gigante del sistema produttivo americano e mondiale e finanzia a pioggia le ONG e gli stessi governi, per cui è difficile (è proprio il caso di dire) sputare nel piatto in cui si mangia. Fatta questa prima parte di decostruzione e denuncia, What the Health prosegue nella proposta di un’alternativa radicale a questo sistema, perorando la sostituzione della dieta onnivora con quella vegana. Vari medici, consumatori e attivisti vengono dunque intervistati per spiegare i benefici che comporta l’assunzione di soli prodotti vegetali. Anche qui vengono smascherati un bel po’ di luoghi comuni, come quello della mancanza di proteine nella dieta vegana: le proteine, si spiega nel documentario, sono tutte di origine vegetale, mentre quelle provenienti dagli animali lo sono solo in seconda battuta perché filtrate da quelle assunte ed elaborate dal loro organismo. Il docu-film (finanziato dal basso attraverso le donazioni sulla piattaforma indiegogo) ha avuto una buona diffusione online su Vimeo e Netflix, ma è stato oggetto anche di critiche e accuse di anti-scientificità e cospirazionismo. Non si capisce però perché gran parte delle istituzioni contattate da Andersen si siano completamente sottratte al confronto che, pur mediato dal punto di vista dell’autore, sarebbe stato comunque interessante conoscere. Non si può certo farne una colpa al regista se i responsabili della comunicazione di questi enti (governativi e non) sono scappati a gambe levate di fronte a semplici dati provenienti da rapporti delle Nazioni Unite. Così, per quanto riguarda un’altra accusa fatta al lavoro di Andersen, ovvero quella di aver costruito un prodotto confezionato per propagandare un’idea partigiana e settaria (che sarebbe quella della promozione di una dieta vegana) bisognerebbe pure ammettere da parte onnivora che il documentario espone un punto di vista senza scadere nel sensazionalismo o portando dati taroccati e controversi. What the Healt ha infatti il pregio di essere un’opera caratterizzata da un tono leggero e a tratti divertente, che rovescia uno dei principali pregiudizi anti-vegani: il concetto di buon senso auto-proclamato da parte onnivora resta difficilmente in piedi quando si mettono a confronto gli effetti delle due diete, con la grandissima differenza che emerge non solo da un punto di vista etico ma anche ecologista e di tutela della salute. Alla fine della visione del documentario resta dunque allo spettatore il benefico dubbio su cosa sia effettivamente questo cosiddetto buon senso ispirato dalla moderazione e dove sia il vero estremismo.

Lino Caetani

Oltre l’ironia. Nanette e la trasformazione della stand-up comedy

Non è facile per me parlare di cosa abbia significato vedere ed ascoltare l’ultima performance di Hannah Gadsby, Nanette; dopo diversi giorni e tre visioni ancora sento risuonare dentro l’emozione.

Non mi ha mai attirato la stand-up comedy: non sopporto l’umorismo delle grandi voci privilegiate tutto giocato sulle discriminazioni e gli stereotipi e quando voci emarginate prendono parola spesso –troppo spesso- il modo più rapido ed efficace per essere ascoltate si basa su un umorismo autoironico, in una realizzazione della propria marginalità sul palco che mi suona da sempre davvero terribile.

Non è mai stato così per Hannah Gadsby, che ho sempre ammirato per il suo restare fuori da un facile umorismo e non può davvero essere così per la graffiante comedy Nanette.

Molt* comic* prima di lei hanno raccontato la loro esperienza di vita, ma Hannah fa molto di più: attinge a piene mani dalla sua stessa identità con l’obiettivo di incriminare la commedia stessa per la sua incapacità strutturale di fare di più per sostenere tutte le voci che sono costrette ai margini.

La performance di Hannah in Nanette è fondamentalmente un atto in tre parti di un discorso transfemminista profondamente radicale costruito tutto attorno alla sua esistenza fisica: ci porta al confronto con la realtà della sua identità fisica; poi afferma la propria umanità; infine sfida il pubblico a vivere il disagio che deriva da quella affermazione, senza concedere più il rilascio della tensione dato dalla battuta.

Hannah passa quindi i primi minuti di Nanette a far familiarizzare il pubblico con la sua identità, a rendere evidente ciò che significa esistere come donna queer, butch, non binaria, in un sistema sociale che ti ha sempre reso la battuta finale. Descrive come sia crescere come lesbica nella Tasmania conservatrice, isola famosa per le sue patate e per lo “spaventosamente limitato patrimonio genetico”, dove l’omosessualità era illegale fino al 1997. E fin qui piovono risate.

Poi, facendo riferimento al commento di un membro del pubblico che aveva obiettato non ci fossero abbastanza “contenuti lesbici” nel suo ultimo spettacolo, lei risponde: “Sono stata sul palco per tutto il tempo”.

Con questa battuta Hannah affianca perfettamente due idee che formano un paradosso: da un lato la centralità della sua identità all’interno della sua commedia, e dall’altro l’incapacità della commedia stessa di saper affrontare la complessità di tale identità.

Infatti dopo poco annuncia: “Dovrei smettere di fare comicità”. E da questo punto in poi Nanette diviene una folgorante rivelazione. “Ho fatto dell’autoironia il mio cavallo di battaglia. Ci ho costruito una carriera. Ma non voglio più farlo. Perché vi rendete conto di cosa può voler dire l’ironia per qualcuno che già di suo è marginalizzato? Non è umiltà. È umiliazione. Ironizzo su me stessa allo scopo di parlare, allo scopo di chiedere il permesso di parlare. E ho deciso che non lo farò più, né a me stessa né a chiunque si identifichi con me.”

E continua, scendendo ancora più in profondità nella disamina del suo lavoro: “Una battuta è fatta di due cose che lavorano insieme: un inizio e una battuta forte. Essenzialmente è una domanda con una risposta sorprendente. Ma in questo contesto una battuta non è altro che una domanda che io ho inseminato artificialmente. Tensione. È il mio lavoro. Suscito tensione in voi per poi farvi ridere e dire: “Grazie. Mi sentivo un po’ teso.” Sono stata io a farvi sentire tesi! È un rapporto pieno di abusi.”.

E questo è il cuore di tutto. Nanette è una performance sull’abuso: su come * comic* abusano del pubblico, su come gli uomini abusano delle donne, su come la società abusa della vulnerabilità delle persone che vivono ai margini.

Hannah dice che nel diventare una comica è stata complice del suo stesso abuso e di quello delle persone che si identificano con lei, poiché ha coperto la sua storia di traumi con le risate invece di scavare in profondità.

A questo punto la performance diventa sempre più cruda, le battute sempre più rare fino a tutta la potenza dell’ultimo atto di Nanette, in cui Hannah deliberatamente smette di essere divertente e diventa invece brutalmente onesta e coraggiosa conducendoci in un breve viaggio nella storia dell’arte e della malattia mentale di cui l’arte è inevitabilmente intrisa, una malattia mentale terribile, la misoginia.

E soprattutto in un viaggio nella sua vera storia personale, fatta di abusi e violenze. E inevitabilmente in questo momento, che è il più toccante e il più devastante del suo intero racconto, il pensiero vola velocemente al movimento #metoo e alla sua furia: quel movimento ci ha cambiate, ci sta cambiando; così come spero Nanette cambierà la commedia e tutt* * comic* non riescano mai più a dimenticare l’orrore che celano le loro battute.

S.P.

La storia di Edmondo Peluso, dalla rivoluzione al gulag

Krasnojarsk, Siberia, 19 febbraio 1942. Un colpo di pistola alla tempia pone fine alla vita di Edmondo Peluso, rivoluzionario nato a Napoli nel 1882, uno dei fondatori del Pci, libertario e giramondo. Nel libro di Didi Gnocchi “Odissea rossa. Storia di un fondatore del Pci” viene ricostruita la vita avventurosa di Peluso: compagno degli spartachisti in Germania nel 1918, delegato a Mosca assieme a Bordiga nel IV Congresso dell’Internazionale, poi corrispondente per l’Unità e quindi trasferitosi in URSS, dove viene infine arrestato nel mezzo delle purghe staliniane del 1938. Gli interrogatori fatti dalla polizia russa a Peluso ricalcano quelli rivolti ai grandi dirigenti sovietici travolti dalla furia di Stalin: come Zinov’ev e Kamenev, Peluso è indotto in tutti i modi a confessare i propri crimini di spia o di contro-rivoluzionario, sacrificando sull’altare dell’edificazione del socialismo la propria dignità di uomo e la verità dei fatti. Dopo un’iniziale confessione estorta al rivoluzionario napoletano dagli inquisitori della Nkvd, però, Peluso riprende in mano con grande coraggio il filo della sua coerenza di militante e decide di reagire alle torture psicologiche della polizia, iniziando un percorso sempre più duro di carcere e deportazione che lo condurrà alla fine ad essere ucciso nel gulag siberiano di Krasnojarsk. Nel libro di Gnocchi (un testo tanto poco conosciuto quanto prezioso) si ipotizza che lo stesso Palmiro Togliatti sia intervenuto inviando ai vertici di Mosca una lettera in difesa del suo connazionale e compagno di partito, cercando in questo modo di salvargli la vita: un tentativo, quello che avrebbe fatto il “Migliore”, piuttosto inconsueto, vista la quantità di comunisti e rivoluzionari che venivano condotti al patibolo senza che i vertici del Pci volessero o potessero fare nulla. La richiesta di clemenza di Togliatti, comunque sia, viene ignorata e Peluso viene condannato in qualità di “contro-rivoluzionario”, salvo poi essere “riabilitato”, secondo il costume sovietico dell’epoca, solo nel 1956 nella fase della destalinizzazione promossa da Kruscev: non più spia del fascismo e nemico del popolo, alla memoria di Peluso viene concessa una postuma e sicuramente molto parziale giustizia. La figura del militante comunista resta comunque poco conosciuta nel suo paese di origine, per cui è interessante leggere alcune sue parole attribuitegli dai suoi carcerieri in Siberia. Rinchiuso nel gulag staliniano, secondo un dossier ritrovato negli archivi di Mosca dopo la caduta dell’Urss, nel giugno del 1941 Peluso pronuncia queste parole ad un suo compagno di detenzione:

«Io che sono stato fino a poco tempo fa nemico del fascismo, non desidero più essere cittadino dell’Urss. Non mi rimane più niente da fare in Urss. Il cosiddetto comunismo e socialismo di Stalin boicottano tutti i partiti socialisti e i partiti comunisti, una volta fratelli. In Urss non c’è alcun socialismo, ma esistono degli esperimenti folli, che sbalordiscono tutto il mondo, su un popolo che ha perso il buon senso. Questo non appare vicino nel suo risultato finale al socialismo, bensì ad un rozzo dispotismo, che può fiorire soltanto nelle condizioni della dittatura più crudele. In una situazione imperialistica come noi oggi possiamo osservare, il socialismo, questo bellissimo e seducente fenomeno politico, che da migliaia di anni vive nei sogni più rosei dell’umanità, è presentato al mondo nel modo più deturpato dai dirigenti del partito dell’Urss. Il popolo sovietico è circondato da un mare di lacrime, di dolori, di privazioni, da file interminabili per il pane, questo prodotto principale dell’alimentazione, file per un metro di stoffa per coprire la sua nudità, e da una fatica veramente da galera, un vero pesante lavoro forzato. Insomma su tutti costoro grava il marchio della burocrazia che li opprime appiattendoli tutti allo stesso livello. Tutti i giornali riguardo al contenuto, e non parlo già di indirizzo politico, sono simili l’uno all’altro come due gocce d’acqua. La gente in Urss pensa come le viene ordinato. Il socialismo in Urss rappresenta il trono dell’Nkvd, un trono lordato dal sangue degli uomini migliori. Ma io vi dico che questo potere si regge sulle baionette, sulle camere di tortura, sulle repressioni e questo potere, che mantiene il popolo con razioni da fame, non può essere durevole, sarà sufficiente una sola debole spinta perché questo potere si riduca in polvere. Non appena avrò la possibilità di lasciare il villaggio di Suchobusimo, aprirò gli occhi ai miei compagni»[D.Gnocchi, Odissea rossa. Storia di un fondatore del Pci, Einaudi, 2001, pag. 225].

In queste profetiche righe c’è tutto il coraggio di un uomo che non volle piegarsi al terrore della dittatura staliniana e alla degenerazione di un sistema poliziesco che non aveva più nulla di quel socialismo sognato in gioventù da Peluso e per cui tanto si era speso nella sua vita di militante rivoluzionario. Il giudizio sull’Urss che ci consegnano queste parole risulta quindi essere una testimonianza storica di grandissimo valore, anche perché riporta attuale e viva la coscienza politica di un grande rivoluzionario del novecento.

l.c.

La notte della Repubblica e la damnatio memoriae del conflitto

Il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse è un episodio storico che è diventato lo spunto di una rivisitazione complessiva della stagione conflittuale degli anni settanta, anche attraverso la costruzione di un immaginario che colloca quanto accaduto in Via Fani e poi in Via Caetani all’interno di un dramma storico-teologico ricostruito ad uso e consumo dei poteri attualmente egemoni nel nostro paese.

Diverse sono le opere cinematografiche e letterarie che hanno affrontato gli eventi di quarant’anni fa, dando una particolare interpretazione della figura politica di Aldo Moro, del ruolo delle Brigate Rosse e di quanto è girato attorno a quella drammatica vicenda, presentando talvolta poteri esterni al commando brigatista come attivi in un complotto internazionale (eravamo del resto ancora nel mondo dei blocchi contrapposti USA-URSS) o addirittura richiamando la famosa seduta spiritica a cui partecipò anche Romano Prodi e da cui emerse il nome Gradoli, nome che portò la polizia a scandagliare i fondali del lago in Abruzzo piuttosto che andare nella via di Roma nella quale era detenuto il leader democristiano.

In questo articolo vorrei analizzare brevemente un’opera cinematografica che ha dato un suo contribuito alla costruzione dell’immaginario relativo al sequestro Moro.

Il film è “Buongiorno, notte”del regista Marco Bellocchio, una pellicola del 2003, della durata di 105 minuti, con Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Roberto Herlitzka, Paolo Briguglia. Il film legge la vicenda del sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse da un’angolazione piuttosto originale. Moro (Roberto Herlitzka) viene presentato come un onesto padre di famiglia, dolente e inconsapevole vittima sacrificale, mentre i brigatisti appaiono invece come una specie di setta religiosa fanatica molto “cristiana”, da intendersi nel senso deteriore del termine per il laico Bellocchio, che recita stolidamente mantra come “la classe operaia deve decidere tutto” con i combattenti che non riescono a godersi i piaceri della vita, offuscati come sono dalla loro ossessione ideologica mortifera e castrante.

Il confronto tra la brigatista infiltrata nella biblioteca statale (Maya Sansa) e il suo collega (Paolo Briguglia) che cerca di corteggiarla intuendo e stuzzicando questa sua natura frigida e non aperta all’edonismo, ci conduce ad una sorta di equivoco diacronico per cui i brigatisti nel film di Bellocchio sono un po’ come degli alieni provenienti dai freddi anni di piombo degli anni ‘70 e catapultati nell’Italia edonista del decennio successivo. Il contesto sociale è già quello della “Milano da bere” e degli yuppies degli anni ‘80, solo i brigatisti si aggirano ignari per le strade coi loro mitra senza sapere che la rivoluzione è già finita. Anche il contrasto tra i brigatisti e lo stesso personaggio di Moro è straniante, con l’immagine del brigatista rapitore con la barba lunga, un immenso boscaiolo comunista che controlla Moro nella sua detenzione, e il povero statista democristiano rannicchiato nella sua copertina di lana intento a recitare il rosario e a ripetere in maniera innocente e ingenua come la DC sia un partito popolare, disponibile al confronto con tutti, persino con gli spietati terroristi rossi.

Più che aprire uno squarcio di verità storica sul rapimento Moro, il film di Bellocchio ci rappresenta la contrapposizione ideale tra la scelta di una vita dedicata al sacrificio per un’ideologia astratta e la scelta di una vita orientata ad un edonismo post-ideologico vincente, con la figura di Moro destinata ad essere sacrificata in questo scontro tra mondi incomunicabili. Questa lettura contro-ideologica e libertaria, però, pur nella grande capacità artistica di Bellocchio, innesca una serie di cortocircuiti paradossali. Innanzitutto la presunta innocenza di Aldo Moro non è credibile, così come non può essere quella del sistema democristiano che egli rappresenta, un sistema politico atlantico-mafioso ben più violento e ideologico delle stesse Brigate Rosse, che pretendevano di combatterlo con un piccolo nucleo avanguardista, di fatto destinato al suicidio.

Non convince poi il fatto che l’irrigidimento ideologico stia sempre solo da una parte, quella degli sconfitti, e che il corso della storia sia un naturale dispiego di eventi da cui nutrirsi per la propria felicità individuale, mettendo così da parte ogni istanza etica, anche la più generica. Si finisce così per depotenziare qualsiasi ragionamento serio e l’arte di Bellocchio viene risucchiata nel consueto discorso nazional-popolare oggi obbligatorio sugli anni di piombo: il conflitto è stato una follia e anche il suo ricordo va esorcizzato per paura che si possa riproporre. Non è possibile espungere il conflitto dalla storia o sublimarlo in un vitalismo post-ideologico. Se non nelle vesti dei brigatisti, pseudo-cristiani e fanatici settari, i barbari possono sempre ritornare, anche in questo presente devastato e sterilizzato. Anzi, se ci fate caso e guardate con attenzione, sono già tra noi.

L.C.

Il caso Tulaev

Mosca, 1938. Qualche chilometro fuori dalla capitale dell’URSS, tra boschi innevati e un silenzio spettrale, si incontrano tre alti dirigenti del partito comunista. Il dialogo è drammatico, dopo l’omicidio misterioso del compagno Tulaev, influente e spietato membro del comitato centrale, il cerchio della repressione si stringe non solo verso il possibile esecutore materiale del delitto, ma coinvolge in un’orgia delirante di sospetti tutti i vari uomini dell’apparato che sono invisi per qualche motivo alla polizia segreta oppure semplicemente possono fungere da capro espiatorio per l’occasione. I tre comunisti sono terrorizzati, ormai certi di avere il destino segnato: così come centinaia di migliaia di loro pari, tra i bolscevichi della prima ora come tra le fila dei quadri intermedi del partito, anche per loro è pronto un colpo di pistola alla tempia o una scarica di fucili del plotone di esecuzione, dopo essere stati annientati moralmente in un processo farsa nel quale ammettere le proprie colpe di traditori della rivoluzione. La bianchezza della neve moscovita diventa un tutt’uno con la discussione allucinata: cosa fare? Fuggire, spararsi un colpo di pistola adesso, sperare di essere “solamente” deportati in Siberia? Scende la sera e i tre dirigenti del PCUS ritornano mestamente nelle loro abitazioni, rassegnati ad affrontare gli eventi. Questa scena terribile e magnifica è solo una delle tante del capolavoro di Victor Serge “Il caso Tulaev”, un romanzo scritto nel 1947 durante l’esilio in Messico del rivoluzionario apolide, un anno prima della sua morte. Serge, pseudonimo spagnolo di Viktor L’vovic Kibal’cic, riesce a costruire un racconto di fantasia sul periodo delle purghe staliniane, liberamente ispirato alla carneficina di Stato successiva all’omicidio del capo del partito a Leningrado Sergej Kirov nel 1934. Del grande terrore degli anni trenta, Serge riesce a ricostruire il clima e gli stati d’animo delle vittime e dei carnefici di questa epoca così decisiva per la storia del Novecento e del fallimento nel delirio staliniano del socialismo reale. La fedeltà al Partito della vecchia guardia bolscevica rimase viva anche dopo l’arresto e i processi farsa, spesso i dirigenti arrestati si interrogano sul destino di un regime che reputano, nonostante gli orrori della repressione, storicamente superiore e moralmente migliore del capitalismo occidentale. Tra le pagine del libro compare anche lui, il “capo”, ossia Josip Stalin. Con i suoi occhi furbi e la corporatura massiccia, il paranoico dittatore sovietico parla a tu per tu con alcuni dei suoi vecchi compagni del periodo eroico del 1917, decidendo con una semplice frase il loro destino: una parola in più o in meno del capo e la sorte del dirigente amico di gioventù di Stalin può variare dall’esilio in Siberia a un colpo di rivoltella nella tempia appena usciti dalla stanza del Cremlino. Tutto pare vertere sulla volontà imprevedibile e inaccessibile del capo, ma questi a sua volta si atteggia a semplice esecutore di una volontà storica più grande di lui, una dura necessità sanguinosa che solo la sua grandezza può sopportare e applicare come necessità per far avanzare il socialismo nel suo radioso avvenire. La realtà storica, tuttavia, preme implacabile nelle stesse pagine del romanzo: con la seconda guerra mondiale alle porte, con un paese fiaccato da anni di carestia dovuti al delirante disegno di industrializzazione forzata e di collettivizzazione delle campagne, nonché dall’eliminazione fisica della maggioranza dei quadri del partito e dell’esercito, un massacro ancora maggiore sta per arrivare e travolgere milioni di russi. La domanda che aleggia per tutta la durata del testo è sempre la stessa: come è stato possibile tutto ciò, ovvero che la rivoluzione bolscevica finisse in un Termidoro di sangue e in un regime poliziesco crudele e ottuso? Altra domanda che può farsi oggi il lettore: come è stato possibile che quasi tutta la sinistra mondiale giustificasse questo abominio in nome del supporto al socialismo? Chi sapeva quanto è accaduto, lontano dal pericolo di morte immediato nella Russia di Stalin, che meccanismi mentali ha messo in opera per giustificare di fronte a se stesso e al mondo una strage così scientifica e implacabile? L’elenco degli intellettuali e dei grandi politici fedeli allo stalinismo novecentesco è lunghissimo, ed è veramente difficile pensare che nessuno sapesse quanto stava accadendo a Mosca durante tutti gli anni trenta. Per rispondere a una domanda così complicata e brutale, assieme all’osservazione dei personaggi descritti ne “Il caso Tulaev”, con il loro gregarismo e la loro ottusità, con l’umanissima paura di essere uccisi e la volontà delatoria di scaricare sul compagno di partito più vicino la paranoia assassina di Stalin, possiamo anche rivolgere lo sguardo all’attualità. I crimini del regime di Bashar Al-Asad, per dirne una, come sono stati recepiti dalla sinistra occidentale? Abbiamo visto anche dei fieri compagni comunisti italiani recarsi deferenti in visita dagli uomini del macellaio di Damasco: mentre centinaia di migliaia di persone venivano uccise, massacrate, torturate, esiliate, i compagni stringevano le mani degli ottusi e spietati carnefici del regime siriano in nome del presunto ruolo anti-imperialista di Asad. Forse basta poco nella propria mente per giustificare un omicidio, un genocidio, sull’altare immaginario di una necessità storica o geo-politica che si rivelerà sempre tragicamente falsa. Quasi tutti gli strenui difensori dello stalinismo novecentesco sono diventati dopo il crollo del 1989 i propagandisti più feroci del capitalismo neoliberista attuale: questo non può stupire, visto il carattere della stessa Russia del secolo scorso, nel suo statalismo brutale, nel suo sviluppismo ottuso. Se una transizione poteva esserci non era certo quella “doppia”, dal capitalismo verso il socialismo e dal socialismo verso il comunismo, come si diceva a Mosca nel 1938 mentre i dirigenti comunisti sparivano nel nulla, ma semplicemente una lunga e dolorosa transizione di un paese arretrato verso il capitalismo occidentale. Come oggi la Russia di Putin sia integrata nel capitalismo globale è sotto gli occhi di tutti: imperialismo, economia mafiosa, omofobia, tutti i tratti che imperversano nelle nostre società le ritroviamo perversamente inglobate a Mosca. La stessa Mosca che ha tenuto in piedi il regime genocida di Bashar Al-Asad. Se vogliamo trarre una conclusione per l’attualità di fronte alla rilettura delle pagine di Victor Serge, possiamo forse pensare a quanto la lucidità necessaria per l’analisi della società attuale debba essere accompagnata sempre da altre virtù etiche quali il coraggio, la solidarietà e il desiderio di ricercare sempre la verità, anche quando essa sia scomoda e metta in discussione il nostro orticello fatto da piccole sicurezze e comodità militanti. Nel mentre oggi stesso nei movimenti di opposizione al sistema siamo circondati dai tristi e farseschi epigoni della cultura staliniana, tra maschere di partitini e piccole organizzazioni che si dicono comuniste o per il “potere al popolo”, possiamo riflettere sul valore di un’etica rivoluzionaria sganciata dal sentimento di fedeltà ad un capo o ad una organizzazione burocratica: riprendere oggi il desiderio consiliare del 1917, quel movimento di assemblee che sconvolse per un attimo il mondo intero, significa espungere e ripudiare una volta per tutte ogni residuo di stalinismo che resta nelle nostre pratiche politiche quotidiane.

Lino Caetani

Che cos’è un buongustaio? Le aragoste di David Foster Wallace e i social network

Dopo aver passato qualche decina di minuti su Twitter mi sono reso conto di aver letto ancora una volta il solito profluvio incessante di: foto di raffinati piatti a base di carne e pesce pronti per essere mangiati, battutine simpatiche contro i vegani, battute più esplicite tipo gente in posa davanti alla grigliata con il meme “in culo ai vegani”, polemiche politiche contro la giunta comunale grillina che avrebbe “imposto” nel menù di una mensa scolastica nientedimeno che un pericoloso piatto vegano una volta al mese. Tutto ciò viene postato ogni giorno anche da gente di sinistra, colta e progressista, tutte persone con le quali si condividono molte cose riguardo altre questioni, principi o scelte politiche. Mi è venuta la curiosità, per staccare da questo petulante ritornello, di rileggere il celebre racconto di David Foster Wallace “Considera l’aragosta”. Faccio un breve riassunto del bellissimo scritto di DFW. Lo scrittore americano viene inviato dalla rivista culinaria “Gourmet” a scrivere un reportage sul Festival dell’aragosta del Maine nel 2003. Il risultato del report di Wallace, sebbene parta da una richiesta piuttosto semplice, ovvero indagare alcuni aspetti sociali e di costume nell’ambito di una manifestazione turistica tipicamente americana, esonda massicciamente dal compitino richiesto dal giornale e diventa un classico sia della letteratura che della riflessione animalista. Il punto di partenza di Wallace è molto aperto e dubitativo, infatti più volte nel racconto l’autore si smarca dall’attivismo animalista della PETA (People for Ethical treatment of Animals) e da posizioni già precostituite sull’argomento. Nonostante questo atteggiamento di partenza, espresso con un tono conciliante e ragionevole, Wallace scrive una requisitoria che a distanza di anni resta ancora intatta con tutte le domande conclusive aperte e le questioni di fondo irrisolte. “Nella pratica, sappiamo tutti cos’è un’aragosta. Come al solito, però, c’è molto più da sapere di quanto possa interessare alla maggior parte di noi – è solo una questione di quali sono i nostri interessi”. Le aragoste sono degli enormi insetti marini con cinque paia di zampe, fino all’Ottocento erano un cibo proteico rivolto al consumo dei ceti bassi e venivano cucinate morte e conservate sotto sale. Oggi l’aragosta viene ritenuta un cibo prelibato, simile al caviale, un cibo estivo: l’aragosta appena pescata ha una polpa molto nutriente e gustosa, il metodo comune per essere cucinata è dunque bollirla viva. “Un dettaglio così ovvio che le ricette quasi mai lo menzionano è che le aragoste devono essere vive quando le mettete in pentola”. Questo dettaglio apre la riflessione morale di Wallace, una riflessione tanto sui generis per essere stata scritta sulle colonne di una rivista gastronomica quanto penetrante, attuale e di rilievo etico generalizzabile. “Ed ecco allora una domanda quasi inevitabile di fronte alla Pentola per aragoste più grande del mondo, domanda che potrebbe sorgere in varie cucine degli Stati Uniti: è giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?”. La domanda rimane aperta, anche dopo quattordici anni da quando è stata posta da DFW. Il racconto continua descrivendo lo straziante tentativo degli animali di uscire dalla pentola, aggrappandosi disperatamente e vanamente con le chele sui bordi: l’aragosta agisce come se stesse provando un dolore terribile, ed è ragionevolmente vero che questo strazio sia una cosa molto seria e reale per il crostaceo, poiché esso possiede una quantità sufficiente di struttura neurologica necessaria all’esperienza del dolore (nocicettori, prostaglandine, recettori oppioidi neuronali etc.) e per di più si comporta proprio come se volesse evitare questo dolore. Le aragoste, inoltre, sono sprovviste degli analgesici in dotazione nei sistemi nervosi dei mammiferi, quindi dovrebbero essere soggette in maniera ancora più atroce al dolore conseguente alla morte per bollitura. Alla fine del reportage, David Foster Wallace si dichiara più che altro confuso e curioso e chiede ai lettori della rivista “Gourmet” quali siano le loro sensazioni a riguardo: “Pensate molto allo status morale (possibile) e alla sofferenza (probabile) degli animali coinvolti? Se sì, quali convinzioni etiche avete trovato che vi permettono non solo di mangiare ma di assaporare e godervi vivande a base di carne (dato che naturalmente è il godimento raffinato, e non la mera ingestione, il punto fondamentale della gastronomia)?”. Siamo arrivati al punto di domanda finale del ragionamento di DFW, quello riguardante le implicazioni etiche e morali del mangiare animali per il proprio godimento personale, se debba essere solo una questione sensoriale, di gusto e non anche di empatia ed etica. La stessa domanda, come dicevo in precedenza, si ripropone quando ci troviamo di fronte a tanti compagni che postano ogni giorno le foto di animali uccisi, bolliti, fritti, impanati, pronti per essere mangiati per il proprio godimento raffinato e per essere condivisi sulle tavole e sulle bacheche dei social network.

Lino Caetani