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Le proteste svelano la nuova faglia del conflitto in Iraq: il popolo contro la classe dirigente

La polizia antisommossa irachena impedisce ai manifestanti di prendere d’assalto l’edificio del consiglio provinciale durante una manifestazione a Bassora, in Iraq, il 15 luglio 2018 (foto AP).

di Renad Mansour

da https://www.worldpoliticsreview.com/articles/25161/protests-reveal-iraq-s-new-fault-line-the-people-vs-the-ruling-class

In quello che sta diventando un rituale estivo nel sud dell’Iraq, nel corso delle ultime settimane i/le manifestanti sono scesx in strada per esprimere le loro rimostranze in un caldo torrido. L’incapacità del governo di fornire i servizi di base, vale a dire l’elettricità e l’acqua, rende l’estate insopportabile a moltx irachenx. L’alto tasso di disoccupazione significa che in moltx non possono permettersi uno standard di vita minimo. Rispecchiando l’alto livello di disperazione, l’ultima ondata di proteste è diventata più violenta rispetto agli anni precedenti. In nove province irachene, i manifestanti hanno preso d’assalto gli edifici governativi e le infrastrutture, nonché gli uffici dei partiti politici, a volte incendiandoli. Nessun leader o partito politico è stato risparmiato. I manifestanti hanno attaccato persino gli uffici del religioso populista diventato politico Muqtada al-Sadr, che in passato era un leader delle proteste.

Anche se le ultime dimostrazioni non possono portare a cambiamenti immediati e significativi, segnalano l’instabilità del conflitto in Iraq. Per la prima volta, il governo di Baghdad ha preso di mira esplicitamente i manifestanti nel sud, portando a un numero senza precedenti i morti e i feriti; almeno otto dimostranti sono stati uccisi a partire da questa settimana (20 luglio N.d.T). Questa recente ondata di violenza suggerisce che la prossima faglia del conflitto in Iraq non sarà tra sciiti, sunniti e curdi, ma tra il popolo e la classe dirigente, che non è riuscita a governare negli ultimi 15 anni.

Anche se le proteste di quest’estate sono state sporadiche e senza una chiara leadership, e sebbene non porteranno a cambiamenti drastici, riflettono un substrato di disillusione popolare che mette in discussione la convivenza sociale in Iraq. A partire dall’estate del 2015, questo movimento di protesta è emerso per la prima volta a Bassora e si è diffuso in tutto il sud prima di arrivare nella capitale Baghdad. Nel settembre 2015 la folla è passata da poche centinaia di migliaia di persone a oltre un milione. Da allora, in diverse occasioni, in milioni hanno di nuovo marciato nelle strade di Baghdad e nel sud dell’Iraq per chiedere un cambiamento. Le proteste di questa estate segnalano che le rivendicazioni di questo movimento non sono svanite.

Un fattore importante che spiega l’aumento del movimento di protesta è il miglioramento della sicurezza in Iraq. La maggior parte delle città, tra cui Bassora e Baghdad, non sono testimoni di violenze estreme ormai da diversi anni. Gli iracheni sciiti ora protestano contro i loro stessi leader sciiti perché, al di là della sicurezza, lo stato non soddisfa i loro bisogni primari.

Ciò che chiariscono le attuali proteste, inoltre, è che non è più sufficiente per un aspirante leader politico iracheno mobilitare identità etnico-settarie per garantirsi un collegio elettorale e ottenere legittimità. Il movimento di protesta è emerso nel 2015 all’apice del dominio territoriale dello Stato islamico rispetto ad altre zone prevalentemente sunnite dell’Iraq, in un momento in cui i leader politici stavano ancora tentando di ottenere il consenso della popolazione utilizzando la logica etno-settaria. Molti manifestanti, tuttavia, hanno equiparato i loro leader allo Stato islamico, sostenendo che “il funzionario corrotto è simile al terrorista”.

Le principali rimostranze del movimento, allora come adesso, ruotano attorno all’incapacità del governo, fin dal 2003, di fornire servizi essenziali e occupazione. Ad esempio, Bassora si trova al centro della ricchezza petrolifera irachena. Un particolare che ha provocato l’ironia dei/delle suoi/sue abitanti. Le compagnie petrolifere internazionali e l’élite irachena hanno giovato dei miliardi di dollari di proventi in tutta la provincia, mentre solo una percentuale molto bassa è arrivata ai suoi residenti. Così, un manifestante ha scritto su uno striscione, “2.500.000 barili di petrolio al giorno; $ 70 USD al barile; 2500000×70 = 0”.

Moltx irachenx hanno deciso che il cambiamento può venire solo fuori dal sistema

La leadership irachena post-2003 è detenuta da manifestanti, molti dei quali continuano a governare oggi, responsabili del fallimento dello Stato nel provvedere per o rappresentare i suoi cittadini. Questo fallimento è stato evidenziato negli ultimi anni dall’incapacità di Baghdad di soddisfare le richieste dei manifestanti o colmare il divario tra i cittadini e l’élite politica. In diverse occasioni, il Primo Ministro Haider al-Abadi ha tentato di sedare le proteste apportando modifiche personali al suo Gabinetto. Nel 2016, ad esempio, ha rimescolato sei ministri come gesto simbolico di pacificazione dopo che i dimostranti, guidati da Sadr (politico e religioso sciita N.d.T), hanno preso d’assalto la Zona Verde e occupato il Parlamento. Tuttavia, per molti manifestanti, questi cambiamenti di facciata non affrontano i problemi sistemici del paese.

Piuttosto che un cambiamento nella leadership simile a quella delle rivolte arabe del 2011, il movimento di protesta iracheno sta richiedendo un cambiamento sistematico nell’ordine politico post-2003, e in particolare nel sistema di condivisione del potere delle quote noto come muhassasa. Sotto l’apparenza di inclusività, questo sistema ha potenziato e arricchito i leader sciiti, curdi e sunniti, che però non hanno condiviso il potere o la ricchezza con la popolazione irachena.

A peggiorare ulteriormente la situazione, le istituzioni statali rimangono deboli e sono lottizzate dai vecchi partiti politici. Ciò è stato evidente durante le recenti elezioni, che hanno registrato la più bassa affluenza dal 2003. A Baghdad, Bassora e in altre aree dove il movimento di protesta è stato più forte, l’affluenza è stata inferiore alla media nazionale. Moltx cittadinx di queste zone hanno deciso di boicottare il voto, sostenendo che il cambiamento non sarebbe arrivato grazie alle elezioni che al contrario rafforzano le stesse leadership corrotte.

In larga misura, chi ha boicottato aveva ragione. Sebbene il voto abbia comportato il fatto che circa il 65 per cento dei membri del parlamento sia formato da volti nuovi, i leader e i partiti che governeranno per i prossimi quattro anni sono rimasti gli stessi. Il processo di formazione del governo dopo le elezioni è stato caratterizzato dal negoziato tra i soliti volti noti della politica, tutti disposti a scendere a compromessi per ottenere un pezzo del bottino governativo. Persino Sadr, che ha conquistato la maggioranza dei seggi con una campagna anti-establishment, ha trattato con le figure del sistema che aveva attaccato durante la la campagna, alleandosi con il capo dell’Organizzazione Badr e la Lista di Fateh, Hadi al-Ameri; l’attuale vicepresidente Ayad Allawi; e il capo di Hikam, Ammar al-Hakim. Inoltre, ha trattative in corso con Abadi, l’attuale primo ministro. Per molti iracheni, queste trattative hanno rivelato che le elezioni servono a rafforzare l’élite piuttosto che fornire un mezzo per il cambiamento del sistema.

Allo stesso tempo, gli altri meccanismi istituzionali per determinare il cambiamento – la magistratura, le commissioni indipendenti e gli organi di governo locali – sono compromessi, deboli e politicizzati. Di conseguenza, moltx irachenx stanno concludendo che il cambiamento può venire solo dall’esterno del sistema, perché lo status quo diventerà insostenibile a lungo termine: continueranno a usare proteste e sollevazioni per esprimere le loro frustrazioni. E poiché l’ultima serie di proteste con ogni probabilità non porterà a un vero cambiamento, il senso di disillusione, segnato dal divario tra governanti e governati, continuerà a peggiorare.

2018, fuga nel Fediverso

di Leo Durruti & The Mastodons

L’obiettivo di questo post è – bando ai giri di parole! – quello di incentivare le migrazioni online: la parola d’ordine è abbandonare le grandi navi per costruirne di piccole e a misura d’uomo, autogestite. Fuggire da tutto ciò che in questi anni ha monopolizzato e centralizzato la socializzazione e l’informazione su internet (questo «tutto ciò» ha principalmente due nomi: Google e Facebook). «Decentralizzare» i discorsi e riappropriarsi della privacy e dei nostri «dati sensibili». Rimettere mano agli strumenti con i quali comunichiamo chi siamo, cosa facciamo e cosa vogliamo, per evitare che le nostre interazioni costituiscano la base involontaria di enormi profitti, e di diventare gli involontari sfruttati di questo meccanismo.

Questo post è frutto di una collaborazione nata su Mastodon e di una discussione alla quale hanno partecipato a vario titolo diversi utenti. Non ci illudiamo che basti una “diaspora” volontaria a far saltare tutto. Per spezzare i monopoli [https://www.dreamgrow.com/top-15-most-popular-social-networking-sites/] occorre azione politica, conflitto sociale, e invertire le politiche pubbliche che riguardano il web e i colossi che lo dominano. Tuttavia pensiamo che i monopoli dell’informazione siano un grande problema, e che da qualche parte si debba iniziare: quindi perché non da qui? Dalle nostre scelte di utenti?

Quelle che indichiamo qui di seguito sono solo alcune delle possibili alternative ai servizi web e ai social commerciali: quelle che abbiamo provato essere efficaci e che usiamo quotidianamente; quelle con le quali abbiamo già sostituito – da tempo e a volte in maniera permanente – i servizi che eravamo soliti usare, i quali vivono di una supposta pretesa di insostituibilità, di eternità (la stessa cosa che mantiene in vita il capitalismo, guarda caso). Queste, dunque, le nostre indicazioni e suggerimenti per la «decentralizzazione».

Innanzitutto, sembra banale ma è sempre il caso di ricordarlo, è fondamentale il sistema operativo che utilizziamo sui nostri dispositivi. Usare Windows è una cattiva idea, i motivi sono noti, meglio passare a Linux o in alternativa a BSD. La distribuzione Gnu/Linux più famosa e utilizzata (e anche una delle più «maneggevoli») è Ubuntu, ma ne esistono davvero tante. Per farsi un’idea delle centinaia e centinaia di versioni di questi due sistemi operativi basta andare su distrowatch.com

Passiamo ai motori di ricerca. DuckDuckGo, Startpage o SearX sono buone soluzioni per lasciarsi alle spalle la ricerca di Google, tutta incentrata sul marketing e la personalizzazione dell’esperienza. Una personalizzazione che, come altra faccia della medaglia, ha il furto e la collezione di dati personali e la vendita di “profili” a terzi. Google non fa ricerca sul web, fa marketing con i nostri dati e il nostro «lavoro» online [https://ilmanifesto.it/antonio-casilli-i-robot-non-rubano-il-lavoro-siamo-noi-il-cuore-dellalgoritmo/].

DuckDuckGo [https://duckduckgo.com/] è un motore di ricerca che non traccia le ricerche dell’utente, non raccoglie o condivide informazioni personali. SearX [https://www.searx.me/] è un aggregatore di risultati di ricerca dei browser più utilizzati. Startpage [https://www.startpage.com/] non conserva gli indirizzi IP degli utenti e ha modificato la sua politica di uso dei cookie per non tracciare chi naviga sul sito.

Di Google possiamo abbandonare Google plus – che non serve a niente, lo avrete notato – e gradualmente («gradualmente» perché è un trasloco!) anche gmail, anch’essa parte integrante di quel sistema predatorio sul quale si regge Google: giusto qualche settimana fa, un articolo sul Wall Street Journal [https://boingboing.net/2018/07/03/if-you-use-gmail-know-that.html] ci informava che, nonostante precedenti rassicurazioni sull’interruzione della pratica, Google continua a scansionare le caselle di posta elettronica degli utenti per ricavarne informazioni utili a personalizzare le pubblicità. Ci par lecito credere che gli altri servizi email commerciali (Yahoo, Libero, Hotmail etc.) non siano da meno. Esistono invece dei buoni servizi di posta elettronica che garantiscono effettivamente la privacy attraverso la crittografia/cifratura dei messaggi. Ve ne proponiamo due: autistici/inventati [https://www.autistici.org/] e protonmail.com [https://protonmail.com/]

Per quanto riguarda le repository di app per Android, c’è un modo semplice per disfarsi di Google Play scegliendo F–Droid [https://f-droid.org/], un aggregatore di app esclusivamente free software.

Google maps può essere ben sostituita da Openstreetmap [https://www.openstreetmap.org/#map=5/42.088/12.564], la mappa globale a contenuto libero creata dal basso, con il contributo degli utenti. [vedi questo post: https://www.openstreetmap.org/user/jbelien/diary/44356]. Esiste anche una app per Android chiamata “OSM and” che svolge egregiamente tutte le funzioni di google maps.

Al momento sembra impossibile trovare una valida alternativa a Youtube per quanto riguarda l’ascolto di musica gratuita o lo streaming di video popolari. Tuttavia possiamo consigliare Peertube [https://joinpeertube.org/en/] come piattaforma alternativa per caricare e condividere video. Qual è il vantaggio? Poterlo fare senza essere tracciati.

Per seguire siti o blog, invece che affidarsi alle timeline dei social media, che non sono affatto neutrali ma scelgono attraverso un algoritmo cosa mostrarvi e cosa no (e in questo si comportano come dei veri e propri «media»), ci sono i feed RSS [https://ar.al/2018/06/29/reclaiming-rss/] e una marea di software per leggerli. Spiegare tecnicamente cosa sia un RSS sarebbe fuori luogo e anche un po’ noiso, perciò ci limitiamo a esemplificare il funzionamento di un programma che ci aiuta a leggerli: il software è Liferea [https://lzone.de/liferea/], pensato per sistemi Gnu/Linux (un altro software che legge RSS è Thunderbird; sì, proprio lui, il vostro client di posta elettronica). Basta cercare, nel blog o sito che volete seguire, il simbolo e cliccarci su, copiare il link che risulta, aprire Liferea, cliccare su «nuovo abbonamento», incollarci il link e dare OK. Ora, tutte le volte che aprirete Liferea, vi aggiornerà le vostre pagine con gli ultimi articoli pubblicati (NB: se non trovate il simbolino, non sempre ciò significa che il sito o il blog non ha un RSS; il consiglio è di provare a copincollare l’indirizzo del sito nel «nuovo abbonamento»).

E infine i social.

Il primo da cui fuggire è Facebook, che non solo fa profitti con la nostra privacy e il nostro «lavoro» e rivende profili a soggetti terzi [https://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2018-04-04/facebook-profili-ceduti-cambridge-analytica-sono-87-milioni-212600.shtml] ma decide anche, attraverso un algoritmo, cosa possiamo vedere e cosa no, spingendosi fino a pratiche che possiamo senza alcuna difficoltà definire censorie. Ricordiamo, tra i più recenti, (https://www.facebook.com/1008828154/posts/10215400368894951/ e https://www.infoaut.org/conflitti-globali/la-censura-di-facebook-sulla-solidarieta-internazionalista-alla-siria-del-nord) due episodi che hanno visto coinvolti dei combattenti delle brigate internazionali in Rojava e Siria del Nord o organizzazioni solidali. Per chi volesse ulteriormente approfondire il modo in cui Facebook si presta a far da censore, consigliamo questo articolo (in inglese): https://motherboard.vice.com/en_us/article/vbj4qb/how-fracking-companies-use-facebook-surveillance-to-ban-protest. La pratica censoria si affievolisce e diventa carezza, invece, di fronte ai “poveri” negazionisti dell’olocausto [https://www.bbc.com/news/technology-44883743], e a questa cosa un qualche significato (e un’azione conseguente) dovremmo pur darglielo. Un discorso molto simile può essere fatto per Twitter, che negli anni si è andato sempre più avvicinando all’esperienza utente e alle pratiche pubblicitarie e furtive di Facebook.

Per lasciarsi alle spalle Facebook e Twitter consigliamo Mastodon [https://joinmastodon.org/], social network decentrato suddiviso in piccole e grandi «istanze» comunicanti tra loro che si differenziano in relazione ai contenuti, agli obiettivi, alla lingua e alla regione di appartenenza, etc. Per iscriversi al social bisogna iscriversi a una di queste istanze e c’è persino un sito che vi aiuta a scegliere l’istanza adatta a voi: https://instances.social/. A questo link trovate il manifesto di Bida, alla quale sono iscritti gli autori di questo post https://mastodon.bida.im/about/more. Per gestire il social da smartphone ci sono diverse app sia per Android (Tusky, Mastalab, Tootdon) che per ios (Amarok). Mastodon ha poi il pregio di essere costruito sul protocollo di networking libero ActivityPub, base di numerose altre applicazioni social (Pleroma, Pixelfed, Peertube, etc.). Ciò significa, in pratica, che gli utenti di queste applicazioni social possono leggersi e interagire tra di loro attraverso un’unica timeline (la «federated timeline»), facendo così di questa rete un più grande social network federato.

Pixelfed [https://pixelfed.social/register] è nuovissimo social decentralizzato concepito per condividere foto e immagini, in pratica il posto adatto per chi voglia abbandonare Instagram (anche questo, ricordiamolo, è stato acquistato da Facebook)

Per i lettori che frequentano social tipo Goodreads o Anobii proponiamo infine due alternative: Open Library, gestita da Internet Archive [https://openlibrary.org/], sul quale è possibile aggiungere nuovi testi, modificare quelli esistenti, votare e commentare. L’altra è Inventaire [https://inventaire.io/welcome], una buona applicazione social attraverso la quale è possibile prestare e vendere libri ad altri lettori.

Esistono diverse valide alternative open source anche alle videochiamate di Skype (ricordiamo che il servizio è di proprietà di Microsoft e che ha una policy non certo favorevole alla privacy e all’utilizzo dei dati non a fini commerciali): Tox [https://tox.chat/], Linphone [http://www.linphone.org/], Ekiga [http://ekiga.org/]. Per quanto riguarda invece i servizi di messagistica, abbandonando Whatsapp (da quando è stato acquisito da Facebook, la famosa e usata app è stata sempre più integrata con gli altri servizi del colosso di Zuckerberg e dunque risente delle sue policy) il servizio alternativo più usato è certamente telegram. Per chi volesse però cercare qualcosa di più sicuro e meno mainstream, le alternative sono veramente tante: una è ad esempio Cryptocat [https://crypto.cat/] un’applicazione open source per criptare le conversazioni via desktop. Un’applicazione molto simile a telegram, maggiormente open source e decentralizzata, è Kontalk [https://kontalk.org/]. Un’altra ancora è signal [https://www.signal.org/], che funziona anche da app per gli SMS.

Per concludere. Esiste un sito [https://switching.social/] che si occupa specificamente e in maniera approfondita e costante del tema di questo nostro post. Alcune delle alternative che vi suggeriamo le abbiamo prese da lì. Se vi iscrivete a Mastodon vi invitiamo a seguire il loro account https://mastodon.at/@switchingsocial

Il 19 luglio in Nicaragua

Da http://www.alasbarricadas.org/noticias/node/40403

Oggi è il 19 luglio e nel mondo anarchico si celebra l’impresa della CNT a Barcellona avvenuta nel 1936. Ma visto che quel giorno stavo cercando funghi nella Loira (avevo intuito che stava per succedere qualcosa), preferisco ricordare come il 19 luglio 1979 il Fronte di liberazione nazionale sandinista abbia travolto la dittatura di Somoza in Nicaragua.

Sono stati degli anni, per me, pieni di ottimismo. L’anarchismo era in crisi, ovviamente. Quasi morto. Il marxismo trionfava ovunque. E vai! So che ora nei circoli di sinistra si dice che “quello non era il marxismo”, o che “il marxismo non era quello”. Però se vi immedesimate un attimo in quel periodo, dagli anni ‘70 ai successivi, il marxismo egemonizzava tantissimi movimenti di liberazione e guerriglieri, persino la Chiesa cattolica con la sua teologia della liberazione. Tantissimi sacerdoti hanno abbracciato la causa dei poveri e hanno mischiato Cristo a Marx, in un film che non ho capito bene, ma non fa niente (1).

Bisogna anche tenere a mente che a quel tempo non c’era internet né alcun sito di informazione di sinistra. Per scoprire cosa stava succedendo nel mondo, non c’era nient’altro da fare che leggere la stampa convenzionale o la stampa estera, o ascoltare le emittenti radio a onde corte che trasmettevano propaganda. Le riviste di sinistra, una volta caduta la dittatura di Franco, uscivano una volta al mese. E quando leggevi gli articoli, tra le poche cose scritte dai ben informati e la propaganda tossica che le persone ripetevano come pappagalli, puff. Dovevi immaginare tutto. Sto per dire, quindi, soltanto quello di cui mi sono fatto un’idea per come ho percepito i fatti.

L’anarchismo era un disastro nel ‘79, siamo d’accordo. Quattro gatti. I marxisti ti guardavano dall’alto verso il basso e se fossero entrati in un autobus con tutti i posti occupati, con assoluta sicumera si sarebbero seduti sopra di te, senza nemmeno chiedere il permesso. Hanno avuto l’Unione Sovietica, hanno avuto la Cina, il Vietnam, la Cambogia, una catena infinita di paesi governati da economie non di mercato. Gli anarchici non avevano nulla. Solo i vessilli del 1936. I marxisti avevano resistito agli Stati Uniti, e nella mappa del pianeta il posto occupato dai loro paesi stava diventando sempre più esteso. Il Nicaragua stava nella lista. Dal 1978, più o meno, erano notizie all’ordine del giorno “i colpi di mano del Fronte sandinista”, “gli omicidi commessi dal dittatore”, ecc. Eden Pastora, “il Comandante Zero”, organizzò un sorprendente assalto al congresso assieme ai suoi uomini e, cosa più importante, lo lasciarono vivo e accolsero tutte le loro richieste. E questo e quell’altro ancora…

Ed ecco, che cosa va a succedere? Una guerriglia povera, aiutata da varie circostanze, riesce a sconfiggere la Guardia Nazionale in Nicaragua. E il 19 luglio 1979, i sandinisti entrano vittoriosi a Managua. E dicono che faranno la rivoluzione: espropriazione delle famiglie di oligarchi e somozisti, riforma agraria, campagna di alfabetizzazione, diritti per i lavoratori. Il governo di transizione era composto da diverse tendenze, tutte con ottime intenzioni. Parte della Chiesa cattolica sosteneva la rivoluzione. In Spagna, la musica di Carlos Mejía Godoy veniva ascoltata ogni giorno nelle radio commerciali e le sue canzoni sulle masse contadine venivano vendute come ciambelle. Ne ho qualcuna conservata da qualche parte.

Per contestualizzare meglio le cose, quando i sandinisti hanno vinto, negli Stati Uniti governavano i democratici. Un tale Jimmy Carter. Certo, essere presidente degli Stati Uniti ti rende uno dei cattivi. Ma, più o meno, Carter ha gestito la questione sandinista cercando un compromesso. Poi succede tutto quello che accade dopo il 1979: nel 1980, fu eletto Ronald Reagan. E questo fatto ha scatenato tutte le peggiori forze provenienti dell’inferno, Satana e Attila, insieme a Papa Giovanni Paolo II.

Reagan, presidente dal novembre 1980, dichiarò guerra al Nicaragua. Non ci fu una dichiarazione formale, ma finanziò un esercito mercenario, i Contras, che armò fino ai denti offrendogli anche consulenti e operazioni segrete, armi, elicotteri. Gli Stati Uniti, la Patria dei Liberi, la più grande democrazia del pianeta, cominciarono una campagna terroristica contro il popolo del Nicaragua. Tutto dimostrato: gli USA hanno minato i porti del Nicaragua; compiuto operazioni di sterminio contro la popolazione, liquidando completamente le organizzazioni dei lavoratori agricoli; sabotato il trasporto, le comunicazioni, l’energia, tutte le forniture. Non vedendo altra possibilità, il governo sandinista firmò accordi con l’Unione Sovietica e Cuba, venendo così ascritto al mondo sovietico.

Come può essere sviluppata una rivoluzione, che dia terre ai contadini, diritti ai lavoratori, cibo, salute, cultura etc, mentre migliaia di uomini armati mettono bombe, sequestrano sindacalisti, assaltano le fabbriche, minano le strade, macellano i funzionari, lanciano missili da elicotteri, spiano con i satelliti? Non si può. Anche per dire una messa, dovevi mettere una scorta con le mitragliatrici.

Questa dinamica produce anche un altro effetto. I tipi ben intenzionati vengono messi da parte, perché tutto si concentra sulla difesa e sull’esercito: servizio militare, addestramento, logistica. E questo fa prevalere quella gente che, se non ha una cattiva disposizione, se la crea in un percorso accelerato. La discussione non è consentita, né lo scambio di opinioni, né la dissidenza, né la critica all’interno del Fronte, perché siamo in guerra e dobbiamo rimanere uniti. Inoltre, l’informazione è controllata, dosata, tutto diventa scuro, sinistro.

Aggiungiamo questo a quello che succede con qualsiasi nuovo governo: che i militanti diventano funzionari, che arrivano dozzine, centinaia, migliaia di individui il cui più grande desiderio è quello di mantenersi ben stretto il posto, fino all’arrivo della Fine del Mondo. E i dirigenti si corrompono, se non lo erano già. Daniel Ortega, che era un ragazzo per me sconosciuto, era Il Presidente. Pensavo che avrebbero messo Eden Pastora, invece no. Apparentemente il comandante Zero era un buon capo guerrigliero, ma per comandare il paese era necessario l’uomo della provvidenza, l’uomo forte: Ortega. In breve tempo si è scoperto che Eden Pastora era un nemico della rivoluzione, che era finita a pesci in faccia con Ortega. Non ricordo perché. Ci sono stati anche problemi con le comunità indigene dei miskito, che avrebbero ucciso dei sandinisti, o almeno così si diceva, e una serie di storie…che quando mi venivano raccontate dai sostenitori del governo, io non dicevo una parola, perché mi sembravano un così grande cumulo di bugie che non sapevo nemmeno da dove cominciare. Dico solo una cosa: i dirigenti, i leader, i capi e i “grandi uomini” sono cattivi. Ma intorno a loro c’è tutta una schiera di uomini grigi che si prendono cura di loro, li coccolano e li proteggono, perché è grazie alla loro esistenza, al loro benessere, al loro carisma indiscutibile e alle loro straordinarie qualità coltivate e protette con pazienza, che dipende lo stipendio che li fa arrivare a fine mese. Se i capi sono crudeli, quelli lo sono ancora di più. I grigi funzionari che fanno da attendenti al potere sono e saranno sempre la peste. E i sandinisti che andavano e venivano, nemmeno ti dicevano molto, magari qualche aneddoto, perché li mettevano in cooperative e comuni a occuparsi di qualsiasi cosa, ma non avevano una visione globale. In breve: non mi fidavo di nessuno. Lo stesso di adesso.

Risultato: nel 1990 il Fronte sandinista perde le elezioni. La gente era stufa della guerra, della corruzione, della violenza, della povertà, o qualunque cosa fosse, e fu eletta Violeta Chamorro che, siccome era neoliberista, ha messo il paese nicaraguense agli ultimi posti nella classifica della povertà mondiale. Amen. Tutto ciò è accaduto sotto il controllo dell’URSS. Siamo passati dall’arroganza marxista-leninista alla sconfitta assoluta. Il mondo dei due blocchi è passato alla storia. L’ho guardato stoicamente, perché sono un anarchico e sono abituato alla sconfitta. I leninisti, invece, fecero finta di niente. Come se non fosse successo nulla. Cercando di darsi un tono. E intanto il tempo passava.

Nel 1998 accadde qualcosa che mi colpì davvero: Daniel Ortega, il ragazzo del ’79, il comandante della rivoluzione, fu denunciato dalla figliastra Zoilamérica Narváez Murillo. In quel periodo ricordo Zoilamerica da una foto, come una ragazza sulla trentina. Bene, la ragazza testimonia davanti ai tribunali e alla stampa che il suo patrigno, Daniel Ortega, l’aveva stuprata ripetutamente tra il 1978 e il 1982, più o meno. Lei aveva 12 anni. La denuncia che ho letto faceva rizzare i capelli (2). Ma la cosa peggiore era la difesa di Ortega. Affermò che aveva l’immunità essendo un deputato, che tutto era caduto in prescrizione e che negava i fatti. La causa non è andata in giudizio “perché è prescritta”. E i fan di Ortega con cui ho parlato, mi risposero che la ragazza era pazza, che aveva del risentimento contro il patrigno, che era una “contras” e cose simili e peggiori. Quando ho risposto che la testimonianza della giovane donna era simile a quella di molte altre donne maltrattate, mi hanno detto che era normale che sembrasse così, perché la ragazza aveva preparato una falsa testimonianza studiata ad arte, ecc. E che avrebbero voluto sapere chi e quanto la stesse pagando. Che schifo.

Caliamo un velo pietoso su questa vicenda e arriviamo al 2006, quando Daniel Ortega, messi da parte i suoi problemi di pedofilia, è di nuovo il candidato alle presidenziali del Fronte Sandinista, e vince le elezioni una dopo l’altra, fino ad oggi. E sua moglie, quella attuale, diventa vicepresidente. Che grande coincidenza. Ortega propose e riuscì a riformare la norma che impediva la rielezione dei presidenti, e ora può rimanere lì fino alla fine del mondo, come nella burocrazia sovietica. Il programma che il suo partito ha in questo momento è piuttosto socialdemocratico: rispetto per la proprietà privata, la sanità pubblica, l’istruzione e tutto il resto. Continuano a invocare Dio ogni tanto, ma penso che abbiano completamente mollato la presa e parlano solo di Dio come una scusa per continuare ad averne beneficio, senza la teologia della liberazione o altro, perché la gente alla fin fine è cattolica(3). E ora Daniel sta manipolando il budget statale, che sembra essere piuttosto scarso, e propone una riforma della previdenza sociale e delle pensioni dannosa per le tasche dei poveri…

E così scoppia una rivolta della popolazione (4). Sono cose che capitano e qui mi fermo. Questa volta non sono i Contras, ma gli studenti, i pensionati, le casalinghe. Qual è la risposta del signor rivoluzionario? La repressione. Oltre 300 morti per mano delle forze di sicurezza e delle milizie irregolari. E qual è la risposta della sinistra? Come quando i sovietici schiacciarono le rivolte di Kronstad, Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia: che la destra golpista istiga le masse e che le masse realmente popolari stanno coi sandinisti. Che i morti nelle manifestazioni sono prodotti dagli stessi manifestanti, molti dei quali terroristi. Che ci sono rivendicazioni di cui si può discutere, ma non così, istigando la popolazione, costruendo barricate e altro ben di Dio. Queste cose vanno bene, quando il governo è di destra. Ma non quando c’è uno “stato sociale”, per chiamarlo così.

Ad ogni modo, io, come regola, sono dalla parte dei manifestanti che muoiono, anche se provengono dalla Fratellanza Musulmana. Non per fede: come regola.

I governanti, anche se hanno la bandiera rossa e nera, non li sopporto.
Il 19 luglio 1979, i sandinisti entrarono a Managua e formarono un governo…perché gli eroi inciampano sempre, sulla stessa pietra.

Note:

(1) Nelle parole dell’arcivescovo di El Salvador, Óscar Arnulfo Romero (per niente marxista tra l’altro), assassinato dai paramilitari nel 1980, proclamato beato dalla Chiesa cattolica, una spiegazione del perché il sostegno della Chiesa per i poveri: “Las mayorías pobres de nuestro país son oprimidas y reprimidas cotidianamente por las estructuras económicas y políticas de nuestro país. Entre nosotros siguen siendo verdad las terribles palabras de los profetas de Israel. Existen entre nosotros los que venden el justo por dinero y al pobre por un par de sandalias; los que amontonan violencia y despojo en sus palacios; los que aplastan a los pobres; los que hacen que se acerque un reino de violencia, acostados en camas de marfil; los que juntan casa con casa y anexionan campo a campo hasta ocupar todo el sitio y quedarse solos en el país. […] Es, pues, un hecho claro que nuestra Iglesia ha sido perseguida en los tres últimos años. Pero lo más importante es observar por qué ha sido perseguida. No se ha perseguido a cualquier sacerdote ni atacado a cualquier institución. Se ha perseguido y atacado aquella parte de la Iglesia que se ha puesto del lado del pueblo pobre y ha salido en su defensa. Y de nuevo encontramos aquí la clave para comprender la persecución a la Iglesia: los pobres. De nuevo son los pobres lo que nos hacen comprender lo que realmente ha ocurrido. Y por ello la Iglesia ha entendido la persecución desde los pobres. La persecución ha sido ocasionada por la defensa de los pobres y no es otra cosa que cargar con el destino de los pobres. […] El mundo de los pobres con características sociales y políticas bien concretas, nos enseña dónde debe encarnarse la Iglesia para evitar la falsa universalización que termina siempre en connivencia con los poderosos. El mundo de los pobres nos enseña cómo ha de ser el amor cristiano, que busca ciertamente la paz, pero desenmascara el falso pacifismo, la resignación y la inactividad; que debe ser ciertamente gratuito pero debe buscar la eficacia histórica. El mundo de los pobres nos enseña que la sublimidad del amor cristiano debe pasar por la imperante necesidad de la justicia para las mayorías y no debe rehuir la lucha honrada. El mundo de los pobres nos enseña que la liberación llegará no sólo cuando los pobres sean puros destinatarios de los beneficios de gobiernos o de la misma Iglesia, sino actores y protagonistas ellos mismos de su lucha y de su liberación desenmascarando así la raíz última de falsos paternalismos aun eclesiales. Y también el mundo real de los pobres nos enseña de qué se trata en la esperanza cristiana”

(2) Testimonianza di Zoilamérica in: http://www.latinamericanstudies.org/nicaragua/zoilamerica-testimonio.htm

(3) Più o meno al 20° minuto del video, si può ascoltare il discorso della Vice Presidente, moglie del Presidente, e dirmi se le cose che accadono nella testa della gente sono normali o cosa https://www.youtube.com/watch?v=t60mABJIHk4&t=1383s

(4) Il governo del Nicaragua lancia un attacco su larga scala contro la città di Masaya, la roccaforte dei manifestanti https://www.eldiario.es/internacional/Gobierno-fuerte-comunidad-indigena-Nicaragua_0_793721450.html

La Siria e l’imperialismo

Tradotto da http://m1aa.org/?p=1527

di KS of M1 Michigan Collective

Una rivoluzione contro il neoliberismo

Quando Bashar Al-Assad salì al potere in Siria nel 2000, qualsiasi illusione che il regime autoritario dinastico baathista fosse “socialista” in qualche modo avrebbe dovuto essere dissipata, se non fosse già accaduto quando Hafez Al-Assad prese il potere in un colpo di stato controrivoluzionario negli anni ’70. Il giovane Assad iniziò vigorosamente a liberalizzare i mercati siriani, in particolare il cibo e l’agricoltura, e ad aprire la Siria ai capitali stranieri. Nei successivi undici anni, insieme agli effetti dei cambiamenti climatici causati dal capitalismo globale, il programma neoliberista di Assad ha prodotto risultati devastanti: l’occupazione agricola è stata dimezzata, il costo delle merci è aumentato in modo significativo, i servizi pubblici sono stati tagliati, il reddito pro capite è diminuito drasticamente e la povertà crebbe dilagante. Mentre i centri urbani hanno lottato per assorbire il massiccio esodo rurale, le città rurali di piccole e medie dimensioni sono state decimate e si sono così poste le basi di classe della rivoluzione siriana. (1) (2).

Se il neoliberismo e decenni di violenta repressione furono il carburante per la rivoluzione siriana, la scintilla fu la primavera araba. L’ondata di rivolte rivoluzionarie pro-democratiche e anti-austerità iniziate in Tunisia e diffusesi in tutta la regione (che hanno colpito indiscriminatamente paesi allineati e contrari agli Stati Uniti) ha catturato l’immaginazione degli operai e degli studenti siriani, e nel 2011 il popolo siriano ha iniziato prendendosi le strade in segno di protesta contro il regime di Assad. Il regime di Assad ha “accolto” le richieste pacifiche dei manifestanti con proiettili e diversivi, similmente a come altri regimi mediorientali hanno risposto alle persone che resistevano all’austerità, all’autoritarismo e alla violenza di stato. Mentre i proiettili di Assad piovevano sulla sua opposizione, le proteste si trasformarono in una rivoluzione; rivolte spontanee e informali si sono trasformate in organizzazione rivoluzionaria. Influenzati dal lavoro dell’anarchico siriano Omar Aziz, oltre un centinaio di consigli di commissioni rivoluzionarie locali di diverse federazioni furono organizzati in tutta la Siria, a cominciare da Damasco e proliferando verso l’esterno. (3)

Mentre i giovani riempivano le strade chiedendo la fine del governo neoliberista e autoritario, lo stato baathista iniziò a perdere il suo decennale controllo del paese. La conseguente instabilità divenne un invito per l’intervento delle potenze imperiali e un’occasione di sviluppo delle correnti reazionarie. Mentre Assad rilasciava i jihadisti dalle carceri siriane (4) e uccideva i rivoluzionari di sinistra (5), Stati Uniti, Russia, Iran, Turchia e le altre potenze regionali che circondano la Siria iniziarono i loro tentativi di sviluppare approcci e strategie per approfittare dell’instabilità. Gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali offrirono assistenza limitata a una parte dell’opposizione siriana fin dall’inizio nel conflitto, allo scopo di proteggere la loro egemonia nella regione – ma presto concentrarono tutte le loro risorse sulla strategia di “combattere il terrore”. Russia e Iran intervennero militarmente, nel momento di maggiore difficoltà del regime di Assad, con la pretesa di “combattere il terrore” e di contrastare le manovre degli Stati Uniti. Mentre la rivoluzione offriva un’apertura alla lotta curda per l’autodeterminazione, lo stato turco intensificò la sua campagna di violenza per contrastare il progresso curdo*. All’interno di questo conflitto multiforme e multidimensionale, è emerso un tema comune tra gli interessi degli attori imperiali intervenienti: la priorità è “combattere il terrore”. Questo tema unificante in realtà non rende la situazione più facile da capire, ma espone strati di contraddizione e complessità nel modo in cui ciascun attore in questo conflitto si relaziona con gli altri. Il regime di Assad e le potenze del golfo hanno aiutato la nascita dell’ISIS e di altri gruppi jihadisti in Siria (6) (7) per ragioni opposte: per Assad era un capro espiatorio per screditare la rivoluzione; per gli stati del golfo, era quello di ottenere un punto d’appoggio in Siria. Gli Stati Uniti hanno armato i curdi (che erano soliti chiamare terroristi) per combattere l’ISIS e si sono messi in contrasto con la loro storica alleata Turchia. Il conflitto dei curdi con la Turchia e l’ISIS li ha messi in una posizione di collaborazione con il governo di Assad. Gli Stati Uniti, che chiedevano apertamente la fine del dominio di Assad, dichiararono una linea rossa invalicabile sull’uso di armi chimiche da parte del regime mentre eseguivano migliaia di attacchi aerei contro i nemici di Assad – e, a fini strategici e propagandistici, un paio di attacchi aerei contro obiettivi del regime mezzi vuoti (depositi di armi, capannoni, basi militari evacuate, Ndt), dopo essersi accordati con la Russia su quali fossero gli obiettivi accettabili e dando comunque un discreto preavviso prima delle incursioni (8) (9). Le complessità di come il conflitto si riproduce ogni giorno, con tutte le sue contraddizioni, sono travolgenti. Tuttavia, chiaramente, implicito in questa decisione di dare la priorità al “combattere il terrore” c’è un solido consenso attorno al sostegno al regime di Assad, anche se questa posizione non è esplicitamente articolata. Sebbene non vi sia una sola tematica in grado di riassumere il conflitto, questo è un punto importante e una base per la discussione.

Più avanti in questo pezzo, vorrei collocare la discussione sulla geopolitica al suo posto precipuo, data la centralità di altre considerazioni: la tendenza a ridurre i conflitti e le rivoluzioni alle manovre degli Stati è orribilmente riduttiva, come lo è ridurre ogni causalità a considerazioni esclusivamente economiche – entrambe le tendenze sono espressione della (di una varietà di) analisi marxista-leninista dell’imperialismo e sono qualcosa che dobbiamo contrastare nell’ottica di un discorso finalmente umano sull’antimperialismo e sulla rivoluzione. Tuttavia, in primo luogo voglio criticare la concezione teorica esposta da molti marxisti-leninisti nei confronti dell’imperialismo e della Siria, per evidenziarne i suoi limiti. Sebbene le considerazioni economiche, geopolitiche e politiche non siano esclusivamente determinanti, sono comunque importanti e meritano qualche interrogativo.

Il Monopolio e il Mito del Capitalismo Multipolare

La complessità della presenza imperiale in Siria ha colto l’occidente alla sprovvista; è stato un momento in cui molti hanno finalmente realizzato che il mondo unipolare che sorgeva sulla scia del crollo dell’Unione Sovietica dovesse essere messo in discussione, se non addirittura da considerare sulla via del tramonto. Direi che il mondo è ancora unipolare sotto diversi punti di vista, ma questo ordine sta effettivamente affrontando delle sfide. La politica post-seconda guerra mondiale di unire i rivali inter-capitalisti in tutto il mondo è diventata insostenibile, poiché l’emergere di Cina, Russia e altri mercati emergenti ha alterato il campo geopolitico. Gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, l’Iran e anche la Siria sono tutti imperi di dimensioni e portata diverse, ma non si distinguono nella forma. Man mano che questi paesi si integrano ulteriormente nell’ordine capitalista globale, le loro tendenze verso l’espansione e l’ulteriore sfruttamento diventano più potenti. Lo stato imperiale nel capitalismo svolge il ruolo di facilitare la conquista e anche la difesa (proteggendo gli investimenti e gli interessi ad essi collegati). Il capitalismo non è storicamente l’unico motore dell’imperialismo, ma l’imperialismo è stato parte integrante del capitalismo sin dal suo inizio. (10)

L’idea che l’espansionismo imperiale sia inerente al capitalismo è un importante punto teorico, e non è una cosa che viene misconosciuta dai marxisti-leninisti. Tuttavia, c’è forse una strategia di elusione quando si parla di questo fatto. Una contraddizione all’interno della teoria marxista-leninista dell’imperialismo e del capitalismo monopolistico è che l’autodeterminazione capitalista ha come risultato l’impero. Il capitalismo è sostenuto solo dalla sua espansione. Riconoscere questo non implica che si sia contrari alla liberazione nazionale, ma piuttosto ci fornisce una lente anticapitalista critica per comprendere la liberazione nazionale. Con questa comprensione, possiamo andare avanti con il riconoscimento che la Russia e l’Iran, per esempio, non sono stati anti-imperialisti per definizione; sono imperi capitalisti emergenti, i cui interessi nello sfruttamento e nel territorio possono o non possono essere in conflitto con gli Stati Uniti (e l’un l’altro), ma non hanno forme diverse. Pertanto, i loro interventi in Siria sono interventi imperiali; e dato che Assad non avrebbe potuto sopravvivere alla rivoluzione popolare senza il sostegno russo e iraniano, crediamo che sia una farsa riferirsi al regime di Assad come espressione dell’autodeterminazione nazionale (11).

A parte la comoda abitudine di seguire la semplicistica logica binaria della guerra fredda, il sostegno geopoliticamente motivato a Bashar Al-Assad da parte di alcuni è il segno della generica aspirazione ad una multipolarità capitalista. I fondamenti teorici di questa idea possono essere trovati in Lenin, nella scuola della “Monthly Review” e nei teorici della “dipendenza” come Samir Amin – ed è fondamentale dire che questa aspirazione alla multipolarità capitalista si rivela allo stesso tempo come un’illusione e come una teoria controrivoluzionaria. Secondo questa teoria dell’imperialismo, l’imperialismo è guidato dagli interessi del capitale monopolistico, i cui interessi e istituzioni si sono fusi con la finanza e lo stato (12). Quindi l’imperialismo è un’espressione monopolistica del potere nel mercato globale, e la posizione antimperialista è impegnarsi in lotte di liberazione nazionale contro i capitalisti monopolistici del nucleo imperiale. In particolare, ciò che viene enfatizzato in questo contesto è la lotta tra gli stati che rappresentano i capitalisti, mentre la lotta tra lavoro e capitale viene relegata in un angolo. Abbiamo visto storicamente come questo di solito si sia tradotto nel “Frontismo popolare” e nella giustificazione di allearsi con la borghesia nazionale in quella che è essenzialmente una versione esagerata di una posizione favorevole alla piccola impresa; se ciò che è più importante è espellere i capitalisti monopolisti stranieri, allora un’alleanza con i capitalisti nazionali è giustificata. In effetti, questa strategia è ciò che spinse il regime baathista siriano inizialmente negli anni ’60, proprio come fu per gli ayatollah in Iran negli anni ’70. In entrambi i casi, la strategia ha lasciato le forze progressiste vulnerabili alle forze reazionarie all’interno del fronte, e il capitalismo e il conservatorismo sono stati rafforzati. (13) (14).

L’idea che sia assolutamente necessario prendere le parti all’interno delle rivalità inter-capitaliste per resistere al monopolio è un vicolo cieco fondato su due cruciali assunzioni economico-politiche borghesi: che la competizione capitalista assegna le risorse in modo efficiente e ottimale, e che il monopolio è il contrario della concorrenza (rimando al mio ultimo saggio sulla teoria del capitale monopolistico http://m1aa.org/?p=1486). In realtà, non vi è alcuna prova che la concorrenza capitalista assegni risorse migliori del monopolio capitalista, e tutto il monopolio che esiste è in realtà un’intensa competizione oligopolistica. I prezzi non sono determinati dal potere di mercato o dalla sua mancanza (come affermano gli economisti borghesi), ma sono determinati dalla intensità dello sfruttamento del lavoro (15). In effetti, ciò che conta per i lavoratori non sono *principalmente* le relazioni di potere tra capitalisti o nazioni capitaliste, ma le relazioni di potere tra lavoro e capitale. In effetti, uno studio del 2010 mostra che la disuguaglianza di reddito negli Stati Uniti è cresciuta contemporaneamente a un calo delle grandi imprese; questo sviluppo contro-intuitivo comincia ad avere un senso quando consideriamo il fatto che questo aumento della disuguaglianza di reddito coincide con un declino del lavoro organizzato (16). La composizione di classe è ancora importante; i capitalisti nazionali tradiranno i lavoratori con la stessa rapidità dei capitalisti monopolistici e respingere i monopolisti senza rifiutare il capitalismo è un approccio limitato.

Ci opponiamo al monopolio e ai capitalisti monopolistici come chiunque altro, ma dobbiamo essere entrambi accurati su come il monopolio opera in relazione alla concorrenza capitalista, oltre che essere critici verso la strada che ha portato ripetutamente al Frontismo popolare e al capitalismo di stato. Un “mondo multipolare” di diversi imperi capitalisti concorrenti non può essere semplicemente assunto come “storicamente progressista”, poiché dice quasi nulla sulla relazione tra gli sfruttatori e gli sfruttati, non affronta i problemi di distribuzione delle risorse da solo, e in effetti, senza la componente di classe, può solo portare a maggiore sfruttamento e guerre a causa dell’aumentata concorrenza tra i capitali. L’egemonia degli Stati Uniti deve essere sfidata, ma sotto la direzione e nell’interesse dei lavoratori e dei popoli emarginati.

Nel caso del regime di Assad, le sembianze della multipolarità consentono all’intervento imperiale e al neoliberismo di essere equiparati all’anti-imperialismo e persino al socialismo. Trasformando il conflitto in un esercizio geopolitico ingannevole e borghese, la lotta di classe è lasciata sul versante della sinistra autoritaria. Il monopolio più grande e determinante che esiste è il monopolio che i capitalisti detengono sulle risorse produttive: sarebbe meglio se non lo ignorassimo.

Globalizzazione, inter-imperialismo e islamofobia

Sebbene l’era della tregua tra le potenze capitaliste sembri stia cadendo a pezzi in molti modi, ci sono relazioni significative e connessioni di reciproco interesse che legano insieme i rivali capitalisti. Queste relazioni sono generate dal sistema capitalista globale, in cui gli Stati Uniti sono in cima e pongono forti vincoli alla prospettiva dell’autodeterminazione. In un mondo in cui il profitto è definito dal grado di sfruttamento del lavoro e dall’estrazione delle risorse, l’integrazione nell’economia capitalista mondiale e l’adozione della forma merceologica occidentale pongono nuove domande e sfide per l’anti-imperialismo. Il modo in cui la sinistra autoritaria vuole definire potenze capitaliste come la Russia, l’Iran e la Siria come antimperialiste è inadeguato date le critiche qui fatte alla struttura del capitalismo monopolistico, ma ignora anche le implicazioni della globalizzazione neoliberista. Piuttosto che comprendere l’adozione della forma occidentale delle merci come propria forma di imperialismo occidentale – un risultato dell’egemonia mondiale occidentale, al servizio degli interessi capitalistici occidentali – molti a sinistra desiderano proteggere le élite neoliberiste nei paesi presumibilmente anti-imperialisti che stanno istituendo questa adozione. Putin, Assad, Khamenei non sono agenti insignificanti nella proliferazione del neoliberismo globale; e la loro supposta resistenza è sempre stata contraddetta dalla loro partecipazione al capitale globale. Le riforme neoliberali di Assad hanno scatenato la rivoluzione contro di lui, e sono stati Putin e Khamenei a venire in aiuto al neoliberismo in Siria.

Quando guardiamo al fatto che la Russia e la Cina hanno dei rilevanti investimenti negli Stati Uniti e quindi hanno un interesse per la crescita USA (17) (18), o che il giovane Assad ha aperto i mercati siriani all’occidente, vediamo che ci sono grandi aree di reciproco interesse tra le potenze capitaliste. Si potrebbe affermare che si tratta di rapporti di dipendenza dal nucleo imperiale occidentale: il mio interesse non è quello di esprimere giudizi su una situazione di dipendenza imperiale. Tuttavia, quando le classi emarginate che sono state impoverite da queste misure si innalzano in una rivoluzione contro il neoliberismo, non dovremmo avere esitazioni a scegliere da che parte stare. Quando le élite come Assad e la sua famiglia beneficiano di questo impoverimento, dovremmo sapere da che parte stiamo. Il regime di Assad e i suoi sostenitori non hanno schiacciato la rivoluzione per sconfiggere il capitalismo occidentale: in molti modi, lo hanno fatto per preservarlo.

Come accennato in precedenza, forse la più grande area di reciproco interesse tra le potenze capitaliste rivali in Siria e nel mondo si trova nella “guerra al terrore” islamofobica. Dagli Stati Uniti alla Russia, alla Cina, l’intera classe dirigente globale ha collaborato per anni alla campagna per sterminare i musulmani. Il jihadista è diventato il nemico archetipico dell’ordine e della stabilità per il sistema capitalista, e nessuna quantità di morti civili è considerata eccessiva in questa caccia portata avanti dagli imperialisti. Mentre la sinistra occidentale ha sollevato vigorosamente obiezioni a un paio di raid aerei contro obiettivi del regime di Assad (dei magazzini semivuoti) nel 2017 e nel 2018, non si è detto molto sui 273 civili siriani uccisi dalle forze di coalizione statunitensi nel maggio 2017 nella “lotta contro il terrore” (19) o delle migliaia di altri bombardamenti fatti dagli Stati Uniti in Siria. Il silenzio della sinistra occidentale quando gli imperialisti statunitensi uccidono i civili mentre cacciano i nemici di Assad ci aiuta a capire la natura totalizzante dell’egemonia culturale occidentale e dell’orientalismo: alcune cose sono diventate questioni risolte e quindi non più appartenenti al regno della politica – l’idea che le morti musulmane innocenti siano il sottoprodotto necessario della “Guerra al Terrore” è diventata così radicata che non vale più la pena parlarne per molti militanti di sinistra in occidente e altrove. Se invece dovessimo parlarne, la bancarotta intellettuale che sta nel sostegno ad Assad sarebbe evidente, poiché Assad sta usando il terrorismo come un comodo capro espiatorio e una giustificazione per la violenza nello stesso esatto modo in cui l’Occidente ha sempre fatto. E l’enorme quantità di civili innocenti che ha ucciso nel farlo è stata sbalorditiva. (20)

Un discorso eurocentrico e disumano

L’eurocentrismo dei sostenitori marxisti-leninisti di Assad è come una moneta dalle due facce. Privo di un sistema teorico che consenta chiaramente l’etica, la creatività e, in generale, la produzione del nuovo, si basa quasi esclusivamente su un calcolo storico riduttivo ed eurocentrico. Il materialismo storico ha un ruolo importante nella teoria sociale e rivoluzionaria, ma è limitato da standard eurocentrici di sviluppo e di potere; la vera autodeterminazione de-coloniale è elusa in questo quadro fintanto che ciò che è “storicamente progressista” è definito da criteri eurocentrici. Allo stesso tempo, i corpi delle persone dalla pelle scura sono reificati nella traiettoria rivoluzionaria marxista-leninista, con i Terzisti e altri che misurano il successo del marxismo da quanti corpi sono impegnati nella sua perpetuazione. Questa contraddizione in sostanza cerca di cancellare l’attività delle persone dalla pelle scura nella regione, con ogni atto di resistenza a un regime presuntamente “storicamente progressista” (nominalmente anti-americano) trasformato in un complotto della cospirazione della CIA. I sogni e le aspirazioni dei siriani che vivono nella povertà del neoliberismo sono meno importanti della posizione della Siria nello schema del capitale da monopolio difettoso, o delle presunte credenziali “laiche e secolari” del suo stato settario. Di fatto, ai siriani non è nemmeno permesso di sognare una vita migliore; sarebbe astorico. L’esistenza del regime è già giustificata come rivoluzionaria, e qualsiasi resistenza deve essere screditata come controrivoluzionaria, indipendentemente dallo scopo.

E quindi, quando dicono “storicamente progressista”, dovremmo chiedere “per chi?” – Il regime di Assad era “storicamente progressista” nei confronti degli innocenti musulmani detenuti nei siti segreti che la CIA ha costruito negli anni dopo l’11 settembre? (21) È “storicamente progressista” per le famiglie di coloro che furono uccisi quando assediò Aleppo? L’esercizio dell’universalizzazione di uno standard di progresso storico è un esercizio problematico che non si sposa bene con l’autodeterminazione – e ha sdoganato lo sviluppo capitalistico, le industrie estrattive, l’emarginazione di coloro che sono ai margini della società, così come l’imperialismo. È questa la rivoluzione che la sinistra autoritaria sostiene?

Crediamo che il popolo siriano, come tutte le persone, sia capace di una rivoluzione sociale; il disfattismo orientalista che ritrae il mondo al di fuori dell’Occidente come una massa monolitica di persone arretrate, che hanno bisogno di accontentarsi di ciò che hanno, deve essere respinto. La cancellazione di persone che hanno il sogno di vivere al di là della miseria neoliberista deve essere respinta. La presenza di manovre imperialiste e di elementi reazionari non esclude automaticamente ogni opposizione a regimi “storicamente progressisti”; questo è il mondo moderno, e l’impero e la reazione sono ovunque. Probabilmente, la totale sfiducia della sinistra occidentale nei confronti dei rivoluzionari siriani deriva da un’arroganza e un bigottismo profondamente radicati; perché non potevano fidarsi del fatto che i rivoluzionari siriani, che hanno vissuto con il jihadismo reazionario e l’imperialismo nelle loro stesse comunità per anni, sapessero meglio come affrontare questi elementi, in una sorta di paternalismo orientalista. (22) È legittimo criticare – è così che tutti miglioriamo – ma è tutt’altra cosa diffidare e screditare. Questo paternalismo parla dell’idea che il popolo siriano sia reificato agli occhi di alcuni della sinistra occidentale; non sono più esseri umani, ma ingranaggi in una macchina storica che hanno solo bisogno di svolgere il loro ruolo appropriato e utile nelle grandi narrazioni dell’imperialismo e della geopolitica.

Verso l’internazionalismo

Quindi, quali sono i modi in cui possiamo dimostrare la solidarietà internazionale ai nostri compagni in Siria e altrove? Come dovrebbe essere oggi un internazionalismo veramente antimperialista? In realtà, le risposte non sono ben definite; come con tutti gli sforzi organizzativi, dobbiamo imparare mentre andiamo avanti, mentre assorbiamo le critiche e le lezioni del passato. Tuttavia, la base minima che suggerirei di far passare è che gli internazionalisti e gli anti-imperialisti dovrebbero sostenere tutte le lotte per la giustizia sociale, la democrazia radicale e l’autodeterminazione in tutto il mondo. Ciò significa un rifiuto generale di tutti gli interventi imperialisti, che siano degli Stati Uniti o delle altre potenze imperiali. Ciò significa anche un rifiuto della globalizzazione neoliberista e il sostegno alle lotte contro l’austerità e la povertà.

Dobbiamo anche riconoscere che lo stato opera principalmente nell’interesse delle classi dominanti, siano essi capitalisti monopolistici o capitalisti nazionali o entrambi, e gli stati in generale sono istituzioni securitarie e di rapina, il cui interesse è distruggere i movimenti sociali o incanalare i movimenti sociali verso i propri fini. Uno stato non è un movimento, anche quando uno stato sostiene o è sostenuto da movimenti, e questa distinzione deve essere chiara quando si pensa alle lotte di liberazione nazionale. Come anarchici, dovremmo opporci a tutti gli stati, ma anche riconoscere i movimenti che stanno cercando di essere visti come legittimi e sostenerli nella misura in cui esigono giustizia sociale e autodeterminazione. Quindi, dobbiamo offrire un sostegno fondamentale alle lotte di liberazione nazionale contro l’impero, e riconoscere anche quando la facciata della liberazione nazionale e dell’anti-imperialismo vengono utilizzati esclusivamente per servire gli interessi imperialisti, capitalisti e statali – come nel caso di Assad.

Come antimperialisti, dobbiamo anche continuare a capire i problemi delle intersezioni. Le intersezioni di classe, razza, genere, orientamento sessuale e identità religiosa sono ancora importanti per le persone nella loro vita quotidiana, indipendentemente dal fatto che le oppressioni possano essere chiaramente rintracciate nell’impero o localmente. La nostra solidarietà ai popoli emarginati non deve essere limitata da stati apparentemente di sinistra o grandi narrazioni geopolitiche. Gli oppressi hanno il diritto di chiedere dignità a chiunque glielo neghi e abbiamo il dovere di sostenerli come compagni.

La tendenza degli attivisti a reificare le persone nella lotta rende ancora più chiaro che la cosa più importante che dobbiamo fare è costruire connessioni internazionali per la comunicazione e il supporto tangibile. In Occidente, l’anti-imperialismo non può rimanere entro i confini delle discussioni sui social network e dei meme di Stalin; le situazioni diventano astratte, gli argomenti diventano un mezzo per il capitale sociale. Le persone diventano semplici cose o dispositivi. È imperativo e urgente organizzare e agire in solidarietà con i nostri compagni oppressi e minacciati in Siria e in tutto il mondo. Come rivoluzionari e internazionalisti, abbiamo il dovere di rendere concreta la nostra solidarietà. Come può il movimento per la casa di Detroit riferirsi agli sfratti di massa in Cina? Come possono coloro che si trovano all’interno del movimento abolizionista carcerario degli Stati Uniti connettersi con coloro che vivono nella prigione a cielo aperto di Gaza? Come possono gli insegnanti iraniani e americani in sciopero lavorare insieme per la stessa causa? (23) Come può la nostra presenza nel cuore dell’impero contribuire a fermare le guerre di aggressione degli Stati Uniti? Queste sono le domande che dobbiamo porre e le connessioni che dobbiamo attivare, in dialogo con i nostri compagni nel mondo.

* Dato che questo pezzo doveva esporre il modo in cui dovremmo orientarci nei confronti della rivoluzione siriana, ho deciso di focalizzare la mia attenzione e non approfondire la lotta curda. Molto è stato scritto su Rojava dagli anarchici; non tanto è stato scritto in solidarietà con la rivoluzione siriana.

Note

(1)http://www.synaps.network/syria-trends#chapter-3699080

(2)https://syriafreedomforever.wordpress.com/2018/04/29/syria-is-not-exceptional-interview-with-joseph-daher-part-1/

(3)https://tahriricn.wordpress.com/2013/09/16/syria-the-struggle-continues-syrias-grass-roots-civil-opposition/

(4) https://syriafreedomforever.wordpress.com/2014/01/14/assad-and-isis-theyre-both-the-same

(5) https://isreview.org/issue/107/revolution-counterrevolution-and-imperialism-syria

(6) http://news.sky.com/story/is-files-reveal-assads-deals-with-militants-10267238

(7) https://www.thedailybeast.com/americas-allies-are-funding-isis

(8) https://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/syria-air-strikes-us-russia-warn-ahead-airbase-donald-trump-putin-missile-attack-tomohawk-cruise-a7671736.html

(9) http://www.newsweek.com/now-russia-says-it-told-us-where-syria-it-was-allowed-bomb-895204

(10) https://antidotezine.com/2018/04/19/the-specter-of-slavery-still-stalks-the-land/

(11) https://www.sbs.com.au/news/russia-saved-syria-as-a-state-says-putin-during-assad-meeting

(12) https://www.marxists.org/archive/lenin/works/1916/imp-hsc/ch07.htm

(13) http://www.marxist.com/in-defence-of-the-syrian-revolution-the-marxist-perspective-2.htm

(14) Moghadam, Valentine M. “Socialism or Anti-Imperialism? The Left and Revolution in Iran”

(15) Shaikh, Anwar. Capitalism: Competition, Crises, Conflict. 69

(16)https://thenextrecession.wordpress.com/2016/05/17/monopoly-or-competition-which-is-worse/

(17) http://money.cnn.com/2017/05/17/investing/russia-us-debt/index.html?iid=EL

(18) https://sputniknews.com/business/201608171044357006-russia-us-debt-investment/l

(19) http://sn4hr.org/wp-content/pdf/english/964_civilians_killed_in_May_2017_en.pdf

(20) https://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-syria-casualties/syrian-war-monitor-says-465000-killed-in-six-years-of-fighting-idUSKBN16K1Q1

(21) https://www.wired.com/2013/02/54-countries-rendition/

(22) https://socialistworker.org/better-off-red/12-save-kevin-cooper-the-crisis-in-syria-with-anand-gopal-and-yasser-munif @ 42:17

(23) https://www.allianceofmesocialists.org/what-can-u-s-teacher-protests-learn-from-iranian-teacher-protests/

Più imprese o meno imprese: il monopolio e la debole sinistra del Partito Democratico

Tradotto da http://m1aa.org/?p=1486

di K of First of May Anarchist Alliance Detroit Collective

Sulla scia della vittoria elettorale di Trump e dell’estrema destra, il Partito Democratico ha tentato di sfruttare strategicamente la crescente corrente populista del malcontento economico in questo paese. I democratici, da ferventi sostenitori del capitalismo quali sono, si sono trovati in cattive acque; l’ala clintoniana è stata efficace nel bloccare la maggior parte delle misure economiche progressiste, tra cui la legislazione in materia di assistenza sanitaria e legislazione contro il libero mercato. Allora, dove sono sono andati i democratici per ottenere il voto populista? Negli ultimi mesi, il partito ha lanciato una piattaforma economica chiamata “Un patto migliore” e tra tutte le agevolazioni fiscali per gli imprenditori e altre riforme insignificanti, nella loro proposta complessiva ce n’è una in particolare che attirerà sicuramente l’attenzione della gente: un nuovo orientamento contro il monopolio (1) (2). Questo orientamento è un tentativo superficiale di politica progressista di sinistra da parte di un partito politico storicamente favorevole agli affari, una diversione dalle reali questioni economiche che affrontiamo oggi, qui negli Stati Uniti o in tutto il mondo.

Sembra una questione semplice: i monopoli sono concentrazioni di potere economico nel mercato. L’idea convenzionale è che i monopoli sono in grado di ottenere profitti superiori alla media grazie alla loro posizione prevalente nel mercato; la loro capacità di aumentare i prezzi limitando la crescita dell’offerta, basata sui propri capricci e non sulla concorrenza, è considerata da molti economisti sia convenzionali che eterodossi come un segno di “imperfezione” del mercato e di “inefficienza”. Per arrivare al cuore di questo problema e spiegare perché l’attenzione al monopolio sia una diversione, dobbiamo capire cosa si intende per “imperfezione” e quale sia il ruolo del prezzo nell’economia neoclassica (la scuola di economia che è dominante in tutte le principali università di tutto il mondo ).

Nell’economia mainstream e nelle sue varianti (includo l’economia keynesiana e post-keynesiana qui, ma anche i marxisti come Hilferding, Lenin e la Monthly Review School), i prezzi dovrebbero essere segnali di informazione. All’interno di un prezzo vi è presumibilmente una misura della scarsità di un bene e della sua relazione con la domanda di quel bene. È importante sottolineare che in un mercato “perfettamente competitivo”, in cui le curve di domanda e offerta si incontrano, è considerato il prezzo di equilibrio – dove la quantità fornita e la quantità richiesta sono equivalenti. Dobbiamo comprendere l’economia neoclassica non come una scienza, ma come un progetto ideologico – e l’implicazione ideologica del prezzo di equilibrio è che è il punto in cui le scarse risorse sono allocate più “razionalmente” ed “efficientemente” si trova considerando la loro domanda. In particolare, si presume che questo fenomeno si verifichi solo quando il mercato è libero da “imperfezioni” che possono distorcere il prezzo, tra cui la regolamentazione governativa, l’attività dei sindacati e il potere di monopolio. Quest’ultimo aspetto è importante perché nell’economia tradizionale, le imprese in “concorrenza perfetta” sono considerate “acquirenti di prezzo” – cioè, nessuna singola impresa è abbastanza grande da influenzare il prezzo di mercato; i monopoli, invece, sono in grado di essere “regolatori dei prezzi” e possono quindi ridurre il prezzo di mercato al fine di escludere dal mercato altre imprese e aumentare la quota di mercato del monopolio e, quando il mercato viene completamente catturato, limitare l’offerta in ordine di aumentare i prezzi. Tuttavia, l’idea che le imprese in condizioni competitive siano “acquirenti di prezzo” è ridicola; il mito della concorrenza perfetta oscura in realtà il fatto che la concorrenza è in atto e che prezzi e riduzioni di costo competitivi sono parte integrante dell’esistenza di qualsiasi impresa sul mercato (7).

Le aziende più grandi, in scala, sono in grado di avere un vantaggio assoluto essendo in grado di mantenere bassi i costi. Ciò produce un ostacolo maggiore sulla capacità di altre imprese di entrare e competere sul mercato – ma ciò non significa che le grandi aziende non siano in competizione intensamente tra loro, né significa che le risorse vengano allocate in modi meno “socialmente ottimali” come se ci fossero solo tante piccole imprese. Tali conclusioni si susseguono solo se si accetta il quadro ideologico dell’economia borghese, dove la competizione viene esaltata come razionale piuttosto che condannata come distruttiva. Ci sono anche tutta una serie di ipotesi che fondano la possibilità del modello della “concorrenza perfetta”: assunzioni come la perfetta simmetria dell’informazione (il consumatore sa tanto di un bene quanto il venditore) e il comportamento iper-razionale di “massimizzare l’utilità” da parte di consumatori e imprese – tutte cose non solo imprecise, ma impossibili. Infine, non è chiaro cosa si intenda per allocazione “razionale” delle risorse quando la maggior parte della storia capitalista ha portato a un aumento della disuguaglianza (3) e quando esiti socialmente rilevanti come i cambiamenti climatici sono considerati “esternalità di mercato”.

Molti economisti di sinistra, progressisti, sostengono che il modello di competizione perfetta non ha rilevanza per la vita reale a causa del suo fondamento di false assunzioni, e quindi aggiungono modifiche al modello ortodosso come “concorrenza imperfetta” (prezzi fissati da istituzioni / monopoli). All’inizio, questo sembra essere un passo nella giusta direzione, in quanto chiunque può vedere che la concorrenza perfetta è una farsa assoluta e che studiare l’economia come se si comportasse in quel modo sarebbe irresponsabile. Tuttavia, introducendo imperfezioni nel modello, gli economisti di sinistra sono ancora intrappolati nel paradigma della perfezione. Sostenere che la concorrenza sia imperfetta presuppone che la concorrenza perfetta sia ancora lo standard con cui misuriamo la “razionalità” e l ‘”efficienza” dell’assegnazione delle risorse. L’azienda ideale è ancora considerata come un “acquirente di prezzi” e l’implicazione è ancora che meno imprese equivalgono ad un’allocazione meno razionale delle risorse – che una maggiore competizione porterebbe risultati più “socialmente ottimali” e una società più equa. L’eterodossia di sinistra sostiene in modo arretrato le conclusioni ideologiche della destra su come il capitalismo dovrebbe operare: più imprese hanno un mercato, meglio sarà. L’assunto sottintende che tale implicazione è duplice: che la concorrenza è vantaggiosa e che più imprese vi sono e più mercato hanno, più c’è competizione. Questo è inaccurato su tutti i fronti. Persino i marxisti come Hilferding e Lenin cadono in questa trappola assumendo che una volta ci fosse un’età d’oro del capitalismo competitivo – in realtà i monopoli sono sempre esistiti, il capitalismo ha sempre oscillato tra periodi di concentrazione relativamente alta e bassa (4) e i monopoli sono sempre stati competitivi.

Questo non significa certo che il capitalismo non abbia la tendenza a concentrare e centralizzare il capitale, ma la teoria spesso utilizzata per spiegare ciò che questo significa è radicata nell’ideologia borghese. La dicotomia che deve essere sfidata è l’idea che il monopolio e la competizione capitalistica sono opposti, quando in realtà si collocano nella stessa area. Non ci sono quasi mai monopoli puri, ma piuttosto c’è competizione monopolistica. I monopoli non sono stabili, entità statiche in grado di controllare i mercati senza concorrenza; la concentrazione di capitale intensifica solo la concorrenza. Se una massiccia impresa assume un settore, competerà con altri settori dell’economia per gli investimenti e si sposterà in altri settori per espandere il proprio mercato. La pressione del taglio dei costi è ancora imperativa, e quindi le leggi del movimento del capitale sono ancora le stesse di quelle del diciannovesimo secolo; contrariamente a quanto afferma Lenin, non siamo entrati in una nuova fase del capitalismo con nuove leggi di movimento. In termini empirici, le correlazioni tra “concentrazione di mercato” e categorie come rigidità dei prezzi, tassi di profitto e margini di profitto sono state del tutto nulle o inconcludenti (Shaikh, 370-379).

Politicamente, questo è motivo di perplessità e scetticismo riguardo alle campagne populiste contro il monopolio. Non è che il monopolio non sia una cosa negativa – intensifica la competizione – ma un monopolio reale e rilevante viene ignorato in tali campagne politiche: il monopolio del potere economico e della violenza della classe capitalista. Inquadrando i monopoli come nemici, ci ritroviamo a schierarci all’interno delle rivalità inter-capitaliste: grande impresa contro piccola impresa, grande capitalista contro piccolo capitalista. In realtà, e per i nostri scopi, le lotte che contano non sono tra i capitalisti, ma tra capitale e lavoro e tra mercato e popolo. La concorrenza perfetta è un mito potente e oscura l’esistenza di un conflitto di interessi tra padroni e lavoratori, con o senza monopolio, e non è un caso che il Partito Democratico abbia scelto questa campagna così poco compromettente e rischiosa come la base di un’importante piattaforma populista. Una tale mossa è in contraddizione rispetto all’affrontare le questioni economiche che hanno un impatto maggiore su di noi a livello globale, come la globalizzazione neoliberale, il razzismo istituzionale o la mancanza di beni pubblici. Il meglio che si può dire dei democratici è che sono degli opportunisti. Ma è la natura competitiva del capitalismo, e non la mancanza di competizione, ad essere distruttiva: la guerra quotidiana del taglio dei costi ci ha regalato salari stagnanti e disoccupazione attraverso l’automazione e lo sfruttamento accresciuto del mondo colonizzato. L’impatto sul nostro pianeta è stato grave e probabilmente irreversibile.

Il nemico, oggi, nell’era della globalizzazione neoliberista, è lo stesso di ieri: la competizione capitalista. Il monopolio è ed è sempre stato una parte della competizione capitalistica, quindi sorge la domanda: stiamo andando a combattere semplicemente contro il monopolio, o ci stiamo impegnando nella vera, significativa lotta contro il capitale? Onestamente, quando i democratici stanno parlando di livellare il campo di gioco, dobbiamo essere realistici su chi ha il permesso di stare sul campo e chi no.

Note:

[1]“Democratics are Finally Waking up to the Monopoly Problem” http://www.huffingtonpost.com/entry/democrats-antitrust_us_5976572fe4b0a8a40e817612

[2]“Chuck Schumer: A Better Deal for American Workers” https://www.nytimes.com/2017/07/24/opinion/chuck-schumer-employment-democrats.html

[3] Piketty’s Inequality Story in Six Charts https://www.newyorker.com/news/john-cassidy/pikettys-inequality-story-in-six-charts

[4]“Getting a Level Playing Field” https://thenextrecession.wordpress.com/2017/03/06/getting-a-level-playing-field/

[5]“Monopoly or Competition: Which is Worse?” https://thenextrecession.wordpress.com/2016/05/17/monopoly-or-competition-which-is-worse/

[6]“Productivity, Profit, and Market Power”

https://thenextrecession.wordpress.com/2017/09/05/productivity-profit-and-market-power/

[7]Shaikh, Anwar. “Capitalism: Competition, Conflict, and Crisis”

Oltre l’ironia. Nanette e la trasformazione della stand-up comedy

Non è facile per me parlare di cosa abbia significato vedere ed ascoltare l’ultima performance di Hannah Gadsby, Nanette; dopo diversi giorni e tre visioni ancora sento risuonare dentro l’emozione.

Non mi ha mai attirato la stand-up comedy: non sopporto l’umorismo delle grandi voci privilegiate tutto giocato sulle discriminazioni e gli stereotipi e quando voci emarginate prendono parola spesso –troppo spesso- il modo più rapido ed efficace per essere ascoltate si basa su un umorismo autoironico, in una realizzazione della propria marginalità sul palco che mi suona da sempre davvero terribile.

Non è mai stato così per Hannah Gadsby, che ho sempre ammirato per il suo restare fuori da un facile umorismo e non può davvero essere così per la graffiante comedy Nanette.

Molt* comic* prima di lei hanno raccontato la loro esperienza di vita, ma Hannah fa molto di più: attinge a piene mani dalla sua stessa identità con l’obiettivo di incriminare la commedia stessa per la sua incapacità strutturale di fare di più per sostenere tutte le voci che sono costrette ai margini.

La performance di Hannah in Nanette è fondamentalmente un atto in tre parti di un discorso transfemminista profondamente radicale costruito tutto attorno alla sua esistenza fisica: ci porta al confronto con la realtà della sua identità fisica; poi afferma la propria umanità; infine sfida il pubblico a vivere il disagio che deriva da quella affermazione, senza concedere più il rilascio della tensione dato dalla battuta.

Hannah passa quindi i primi minuti di Nanette a far familiarizzare il pubblico con la sua identità, a rendere evidente ciò che significa esistere come donna queer, butch, non binaria, in un sistema sociale che ti ha sempre reso la battuta finale. Descrive come sia crescere come lesbica nella Tasmania conservatrice, isola famosa per le sue patate e per lo “spaventosamente limitato patrimonio genetico”, dove l’omosessualità era illegale fino al 1997. E fin qui piovono risate.

Poi, facendo riferimento al commento di un membro del pubblico che aveva obiettato non ci fossero abbastanza “contenuti lesbici” nel suo ultimo spettacolo, lei risponde: “Sono stata sul palco per tutto il tempo”.

Con questa battuta Hannah affianca perfettamente due idee che formano un paradosso: da un lato la centralità della sua identità all’interno della sua commedia, e dall’altro l’incapacità della commedia stessa di saper affrontare la complessità di tale identità.

Infatti dopo poco annuncia: “Dovrei smettere di fare comicità”. E da questo punto in poi Nanette diviene una folgorante rivelazione. “Ho fatto dell’autoironia il mio cavallo di battaglia. Ci ho costruito una carriera. Ma non voglio più farlo. Perché vi rendete conto di cosa può voler dire l’ironia per qualcuno che già di suo è marginalizzato? Non è umiltà. È umiliazione. Ironizzo su me stessa allo scopo di parlare, allo scopo di chiedere il permesso di parlare. E ho deciso che non lo farò più, né a me stessa né a chiunque si identifichi con me.”

E continua, scendendo ancora più in profondità nella disamina del suo lavoro: “Una battuta è fatta di due cose che lavorano insieme: un inizio e una battuta forte. Essenzialmente è una domanda con una risposta sorprendente. Ma in questo contesto una battuta non è altro che una domanda che io ho inseminato artificialmente. Tensione. È il mio lavoro. Suscito tensione in voi per poi farvi ridere e dire: “Grazie. Mi sentivo un po’ teso.” Sono stata io a farvi sentire tesi! È un rapporto pieno di abusi.”.

E questo è il cuore di tutto. Nanette è una performance sull’abuso: su come * comic* abusano del pubblico, su come gli uomini abusano delle donne, su come la società abusa della vulnerabilità delle persone che vivono ai margini.

Hannah dice che nel diventare una comica è stata complice del suo stesso abuso e di quello delle persone che si identificano con lei, poiché ha coperto la sua storia di traumi con le risate invece di scavare in profondità.

A questo punto la performance diventa sempre più cruda, le battute sempre più rare fino a tutta la potenza dell’ultimo atto di Nanette, in cui Hannah deliberatamente smette di essere divertente e diventa invece brutalmente onesta e coraggiosa conducendoci in un breve viaggio nella storia dell’arte e della malattia mentale di cui l’arte è inevitabilmente intrisa, una malattia mentale terribile, la misoginia.

E soprattutto in un viaggio nella sua vera storia personale, fatta di abusi e violenze. E inevitabilmente in questo momento, che è il più toccante e il più devastante del suo intero racconto, il pensiero vola velocemente al movimento #metoo e alla sua furia: quel movimento ci ha cambiate, ci sta cambiando; così come spero Nanette cambierà la commedia e tutt* * comic* non riescano mai più a dimenticare l’orrore che celano le loro battute.

S.P.

Benefit per “La lima”

Sabato 21 luglio 2018 – presso Murotorto a Eboli (Sa)

Evento benefit per “La lima”, cassa di solidarietà

http://www.informa-azione.info/nasce_la_cassa_di_solidariet%C3%A0_la_lima

h.20.00
Discussione: situazione specifica del Cpr di Roma, contro frontiere e oppressioni multiple, approccio intersezionale alla lotta
h.22.00
Cena vegan di autofinanziamento
h.22.30
Concerti: Maybe i’m…(afro/punk – Salerno), Monobanda71 (onemanband garage/blues – Napoli), Amphist (Death-Crust, Campania)

Dj set a seguire

Per un’estate di lotta, a fianco di chi vive nelle campagne foggiane

Giriamo e condividiamo l’appello del Comitato dei lavoratori delle campagne:

Appello a Volontarie e Volontari:
PER UN’ESTATE DI #LOTTA, A FIANCO DI CHI VIVE NELLE #CAMPAGNE FOGGIANE

In Capitanata, la vasta pianura attorno a #Foggia, vivono migliaia di #migranti. Abitano in casolari abbandonati, in accampamenti auto-costruiti senza acqua né luce, o in veri e propri campi di lavoro, voluti e controllati dalle istituzioni. Tra queste, molte sono le persone espulse o fuoriuscite dal sistema dell’accoglienza, che non hanno altre alternative. Lavorano nei campi di pomodoro e non solo, pagati-e a cottimo o comunque a giornata, per 20 o 30 euro di schiena spaccata.
Lo sfruttamento lavorativo e le condizioni di vita sono legate a doppio filo al loro status giuridico: non tutti e tutte hanno i documenti, molti e molte hanno #permessidisoggiorno precari, e la questura compie su di loro abusi costanti.
Tutto ciò li e le rende ancora più ricattabili, per il solo profitto della grande distribuzione organizzata che fa utili milionari con la produzione agricola.

Ricattabili, ma non vinti-e. I lavoratori e le lavoratrici delle campagne infatti lottano da anni, con cortei, scioperi e blocchi, chiedendo a gran voce Documenti, Case e Contratti di lavoro. È una lotta auto-organizzata, contro lo sfruttamento e contro il razzismo, una lotta difficile di fronte alla quale non possiamo stare a guardare. La Rete Campagne in Lotta nasce proprio per questo: dare solidarietà concreta a queste esperienze, essere al fianco dei e delle diretti-e interessati-e nelle loro rivendicazioni.

Il periodo estivo è quello della stagione del #pomodoro, quando è massimo l’afflusso di lavoratori e lavoratrici e le condizioni di sfruttamento toccano l’apice. È per questo che anche quest’anno daremo una presenza costante sul territorio e facciamo appello a chi vuole unirsi a questa lotta.
In particolare, invitiamo chiunque sia interessato-a a impegnarsi al fianco di chi vive nelle campagne a raggiungerci a Foggia per contribuire con varie modalità:

• supporto alle assemblee auto-organizzate negli accampamenti
• sportello legale e contro lo sfruttamento
• lavoro di inchiesta sulla filiera agro-industriale e il governo della mobilità
• scuola di italiano

L’intervento estivo comincerà a inizio luglio e terminerà a settembre (ma l’attività della Rete e la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici prosegue tutto l’anno).

Per informazioni e contatti:

Sito: www.campagneinlotta.org
Mail: campagneinlotta@gmail.com
Telefono: 3511033277; 3511960376
Facebook: Comitato Lavoratori delle Campagne
Twitter: @campagneinlotta

Vi aspettiamo in tanti e tante! Meglio se automuniti-e!

Fonte: https://www.facebook.com/comitatolavoratoridellecampagne/posts/1983605781705537

Vuoto di potere

La figura dell’attuale presidente del consiglio italiano, il carneade professor Giuseppe Conte, balzato improvvisamente agli onori delle cronache politiche mondiali e collocato a Palazzo Chigi per fornire un equilibrio al nascente governo giallo-verde, è emblematica e riassume plasticamente lo svuotamento effettuale della funzione rappresentativa nelle moderne democrazie capitalistiche. Paradossalmente, proprio mentre si rafforza una visione muscolare, populista e nazionalista della gestione del capitalismo italiano, in una deriva verso la ricerca di leadership forti e di partiti verticisti sempre meno democratici al loro interno, il nuovo potere si affida a questo personaggio semi-sconosciuto, utile al nuovo governo proprio per la sua mancanza di personalità. Si dirà che il professor Giuseppe Conte deve bilanciare la forza e gli eventuali contrasti che emergeranno tra i due veri leader del governo, i vice primo ministro Luigi Di Maio e Matteo Salvini, per cui questa evanescenza della prima carica dell’esecutivo è una finzione utile a una rappresentazione meramente amministrativa: dovrà pur servire qualcuno, meglio se un avvocato studioso di diritto privato, a coprire quella casella e fare quel necessario lavoro burocratico di esecuzione di decisioni prese altrove. Il punto però è proprio questo: dov’è questo altrove? Chi decide, chi comanda qui? Per rispondere a questa domanda dovremmo allargare la visuale e giudicare i primi giorni di questo nuovo governo un attimo al di là della rappresentazione giornalistica delle vicende che hanno visto Lega e Cinque Stelle guidare questa nuova fase della politica nazionale. Un primo elemento di contestualizzazione può essere offerto dal ruolo che svolge il ministro dell’economia nell’esecutivo: mentre i due leader Di Maio e Salvini continuano a promettere la realizzazione delle costose riforme sbandierate in campagna elettorale, il professor Giovanni Tria ridimensiona i capitoli di spesa e tiene fermo il governo populista sulla linea di continuità con l’austerity di Monti, Letta, Ciampi etc. Se però questi limiti economici possono anche apparire comprensibili per ragioni di prudenza almeno in questa prima fase, altri limiti di natura giuridica e politica emergono nel confronto con gli altri governanti degli stati europei e con gli stessi poteri della UE. La questione della riforma del trattato di Dublino fa capire quanto, al di là degli interessi dei singoli governi e della rappresentazione nazionalista di Salvini o di Macron, nella gestione dei migranti tutta l’Europa sia unita nell’intenzione di continuare a blindare le frontiere, proseguire nel disegno stragista in atto da anni nel mediterraneo, affermare la propria potenza colonialista nei confronti dei paesi africani, etc. Di fronte alla costruzione condivisa da tutti di nuovi lager, in Europa come in Africa, all’aumento di respingimenti e deportazioni, appare davvero poca cosa la polemica tra Francia e Italia per la gestione degli “hotspot”. Mentre il professor Conte passava la nottata con gli altri leader europei per limare i termini del nuovo accordo tra paesi europei sulla non-riforma del trattato di Dublino, nelle stesse ore più di cento persone morivano nelle acque antistanti la costa libica, uccise da quel sistema che nessun governo può o vuole mettere in discussione. La gestione delle migrazioni è talmente intrinseca al controllo delle persone e allo sfruttamento che nessun governo potrebbe affrontare diversamente la questione, a meno che non intendesse tendere a politiche anticapitaliste e rivoluzionarie, cosa che farebbe cadere questo ipotetico governo nel giro di due secondi. Qui arriviamo dunque alla vera questione di fondo e cioè che la diffusione del potere, la sua articolazione oltre e attraverso i centri nazionali e comunitari, la compenetrazione con i soggetti economici (non con la generica “casta” o le varie lobby ma imprese, finanza, il cuore del potere nel capitalismo) e lo svuotamento della funzione rappresentativa democratica sono tutte caratteristiche che possiamo difficilmente aggirare con richiami retorici che restano vuoti e fini a se stessi. Parallelamente al dilagare delle pulsioni fasciste (le vediamo esplodere minacciose ogni giorno nelle nostre città) ritorna l’illusione che una socialdemocrazia, magari più collocata verso sinistra rispetto al passato (pensiamo a leader come Sanders, Corbyn, Iglesias, Melanchon e…Viola Carofalo) possa impadronirsi delle leve del governo e gestire un capitalismo dal volto umano. Tutti i fenomeni di populismo di sinistra, di rinascita socialdemocratica, di rinnovamento dei partiti comunisti aspirano a cogliere al volo la stessa (impossibile) occasione storica, ovvero l’occupazione di uno spazio di potere all’interno delle istituzioni nazionali, istituzioni da modificare e poi eventualmente da rovesciare in direzione di un “potere popolare” che abbiamo ben visto come funziona, ad esempio nel disastro del regime chavista in Venezuela. Va detto chiaramente che questa prospettiva non è solo inutile perché fa perdere risorse e tempo ai movimenti di opposizione, ma che è profondamente sbagliata e viziata nelle sue stesse fondamenta teoriche e pratiche. Assistiamo dunque a uno strano paradosso: mentre il potere dimostra la sostanziale interscambiabilità delle sue figure rappresentative, che possono essere dei meri gestori burocratici come un Conte o un Junker, in un processo specchio della perdita di rilevanza delle istituzioni rappresentative democratiche, nel contempo i movimenti di sinistra puntano ancora sulla leadership forte, sulle figure carismatiche, sul leader che trascina le masse, in un rovesciamento simbolico che trasfigura la famosa “cuoca di Lenin”, che avrebbe potuto gestire il socialismo realizzato premendo solo un bottone, nella ricerca di famosi e premiati chef a cinque stelle. Eppure, se il potere ci mostra il suo terribile vuoto, anche le istituzioni alternative allo Stato potrebbero essere immaginate similmente, con l’abbandono della macchina statale e la federazione di consigli esclusivamente amministrativi. Un po’ come immaginavano, per riprendere un paragone storico a ridosso della rivoluzione sovietica, gli operai e contadini “machnovisti”, movimento represso e sconfitto nei primi anni ‘20 del secolo scorso, che scrivevano nel loro manifesto: “Come consideriamo il sistema dei soviet? I lavoratori devono scegliersi da soli i propri soviet, che soddisferanno i desideri dei lavoratori – cioè, soviet amministrativi, non soviet di stato. La terra, le fabbriche, gli stabilimenti, le miniere, le ferrovie e le altre ricchezze popolari devono appartenere a coloro che vi lavorano, ovvero devono essere socializzate”.

l.c.