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App di messaggistica e privacy, uno sguardo su XMPP. Intervista a Sylke Vicious

di lino caetani

Il recente cambio di policy adottato da WhatsApp ha rilanciato e aperto più del solito un dibattito internazionale sulla sicurezza e la privacy nelle app di messaggistica online. Abbiamo fatto alcune domande a Sylke Vicious.

Innanzitutto ti chiederei una breve presentazione

Mi faccio chiamare Sylke Vicious sul web. Sono un ragazzo con la passione per l’informatica, anche se non è quello che faccio di lavoro, ma fin da piccolo ho sempre smanettato alla grande coi pc e coi telefoni. Leggo tantissimo in internet notizie, guide, e altro di questo settore, specialmente tutto quello che riguarda linux e gli argomenti relativi alla privacy.

Ho chiuso con i social commerciali due anni fa e sto nel fediverso, sto cercando di eliminare anche le email di Google e Microsoft, e sto pensando di selfhostarmi un servizio email. Attualmente ho un server con Nextcloud (che sostituisce Google drive) e un server XMPP (a sostituire gli IM dei quali parleremo sotto).

Cerco di utilizzare il minimo numero di app provenienti dallo store di Google e utilizzo un telefono senza GAPPS. Ma in futuro sto pensando ad un telefono linux. Spero già quest’anno.

In generale la discussione nel mondo mainstream di media e social network ha riguardato un punto in particolare, ovvero la paura diffusa (o sarebbe meglio dire, l’improvvisa consapevolezza…) degli utenti di WhatsApp di condividere i loro dati personali con Facebook, che come sappiamo è dal 2014 il proprietario dell’app. Cosa pensi della questione del cambio di policy di WhatsApp e cosa pensi del dibattito che ne è seguito?

Personalmente credo che WhatsApp-Facebook abbia solo “legalizzato” o “messo nero su bianco” (chiamatelo come ne avete voglia) quello che probabilmente già facevano da tempo più o meno sottobanco. Non lo dico io, già sono usciti articoli in passato (cito per esempio: https://www.wired.com/story/whatsapp-facebook-data-share-notification/), quindi non sono per niente stupito da questa mossa. Dal loro punto di vista non vedo errori: sono un’azienda privata che fornisce un servizio (apparentemente) gratuito (in realtà l’unico che non vede soldi sei tu utente).

Perchè gestire 3 identità separate quando (io facebook) so che tu (utente) sei la stessa persona sui miei 3 siti? Uniamo tutto in un unico calderone. Così se su whatsapp passi il tempo a parlare di politica con i tuoi amici, magari qui su facebook ti interessa la pagina di questo quotidiano che ha pagato questa inserzione attivata dalle parole chiave x, y, z, anche se su FB segui solo pagine di gattini. Non sto dicendo che sia giusto, ma sto dicendo che dal loro punto di vista è corretto e fa sicuramente guadagnare molto di più a loro, riuscendo a centrare molto meglio il target pubblicitario.

Il dibattito? Io sono fuori da Facebook/Instagram/Twitter dal 2018 e da WhatsApp dal 2019, quindi non so bene cosa viene detto su questi social a tal proposito. Dalla mia “bolla” del fediverso e dai pochi contatti tra colleghi, parenti e amici non mi sembra sia cambiato molto: tanto fumo e niente arrosto.

Le motivazioni sono le solite: ma WA lo usano tutti, tanto sanno già tutto di te, cos’hai da nascondere, come ti faccio a contattare se togli WA…posso andare avanti se vuoi…

Quindi tra poche settimane tutto tornerà come prima, tutti su WA. La gente purtroppo dimentica alla svelta…

Il dibattito mainstream più diffuso sui siti online che si occupano di tecnologia, software e app di messaggistica hanno puntato la loro attenzione sulle differenze esistenti tra tre app in particolare, WhatsApp, Telegram e Signal, escludendo tutto il vasto mondo che pure esiste oltre, soprattutto nel campo del free software. Eppure, l’illusione di sicurezza quando non si è affatto tutelati dalle app che dovrebbero proteggerti è di per sé una delle principali falle di sicurezza oggi esistenti in rete. Cosa pensi dunque di Signal e Telegram? Quanto sono sicure e quanto invece danno un’illusione di falsa sicurezza ai propri utenti?

Esatto, proprio così, è l’illusione di sicurezza che frega la maggior parte delle persone. Certo, il marketing non aiuta… Sia Signal che Telegram sono centralizzate, quindi già un punto a sfavore. Se cade il server (che sia per manutenzione o un attacco) nessuno parla più. Entrambe richiedono un numero di telefono per registrare un account. Altro punto negativo. Vero che è più comodo rintracciare amici o parenti, ma si è anche molto più identificabili. Dal punto di vista delle funzionalità di messaggi criptati e di messaggi effimeri invece sembrano essere fatte per bene. E quindi non basta? No. Telegram è sviluppato dallo “Zuckerberg” di Russia, ovvero il fondatore di VKontakte, il Facebook russo praticamente. Ci fidiamo? Boh…

Signal è sponsorizzato a squarciagola da Edward Snowden (e fin qui ok), ma è un’azienda USA (male), ed i suoi server sono ospitati da Amazon (male male).

Quindi per me sono entrambe no.

Nel vasto mondo del free software, come si diceva, esistono diverse alternative alle app mainstream più diffuse. Una delle migliori soluzioni è sicuramente XMPP. Potresti descrivere cos’è, come funziona e perché lo suggeriresti?

L’esempio più semplice per far capire XMPP a chi lo sente per la prima volta è dire: funziona come le email.

Facciamo finta che io ho un account email su gmail.com. E tu uno su outlook.com.

Io posso inviarti le mail, tu le puoi ricevere da me, e viceversa. Non importa che server email abbiamo. Non importa che applicazione usiamo per inviare le email. Funziona. Punto. Basta conoscere uno l’indirizzo dell’altro in qualche modo.

Altro esempio:

Avete presente WhatsApp? Ecco XMPP è WhatsApp. O meglio WhatsApp è XMPP.

No non lo dico per convincervi o altro, ma è proprio così a livello tecnico.

XMPP è un protocollo alla base di tanti programmi di messaggistica, tra i più famosi Whatsapp, Zoom, Hangout…

Whatsapp ha “preso” lo standard XMPP e si è fatto il suo serverone gigante, con la sua app e ha eliminato ogni possibile collegamento con gli altri server.

XMPP come le email sono degli standard.

Magari domani ci svegliamo e gmail “chiude” il suo “walled garden” come si dice in gergo, e non puoi più ricevere mail dal tuo amico che ha l’account su outlook. Già lo sta facendo in parte con i server minori, i server fatti in casa…

Dopo questo spiegone rispondo alla domanda:

Quindi, basta installare su pc o su telefono un programma XMPP, registrare un account e iniziare a contattare altre persone passandosi gli indirizzi, proprio come fosse una mail.

Così semplice? Sì.

Quasi.

XMPP è un protocollo libero ed estensibile (come dice il nome eXtensible Messaging Presence Protocol). Ed è costituito da tanti moduli, tipo mattoncini lego. Per esempio sul mio server potrei non volere attivare il modulo che riporta quando un utente è online o è stato online per mille ragioni di privacy. Lo disattivo. Mi interessa il modulo delle videochiamate? Ok lo attivo. E cosi via.

Questa infinita possibilità di personalizzazione ha però una controindicazione, cioè che i server sono diversi uno dall’altro come funzionalità e non esiste uno standard. A tamponare questo, la fondazione XMPP rilascia ogni anno una “compliance suite”, praticamente una lista di moduli che è caldamente consigliato attivare. Per controllare quanto è “standard” un server è possibile controllare il sito https://compliance.conversations.im/ e sceglierne uno in base alle proprie esigenze.

Ho detto questo, perchè è successo di incontrare persone, specialmente nelle conversazioni di gruppo, e far fatica ad aggiungerle (all’inizio). Ma successivamente zero problemi.

Se guardiamo al lato server (ce ne sono diversi di programmi che permettono di fornire un servizio XMPP) è relativamente facile sia da installare che da configurare da chi ha una conoscenza media di linux e di server (tutti abbiamo almeno un amico buono coi computer che ne sarebbe in grado, non richiede grosse conoscenze e ci sono guide validissime sul web). Consuma talmente poche risorse che potrebbe essere perfettamente gestibile da un Raspberry Pi (ovviamente se fornite un servizio per famiglia e amici, non all’intero internet).

 

Ivan Illich, attualità e solitudine di un pensiero necessario

Una società che definisce il bene come il soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a “imporre” il consumo e mutila in modo intollerabile l’autonomia della persona. Nella misura in cui il consumo programmato aumenta, l’austerità adottata per scelta personale diventa un’attività antisociale. Una soluzione politica alternativa a questo utilitarismo è quella che definisce il bene come la capacità di ciascuno di modellare l’immagine del proprio avvenire.

I.Illich, La convivialità, Boroli Editore, 1973, p.26

Mai come in questo periodo storico appare al contempo particolarmente inattuale (e quindi necessario) il lascito di un pensatore come Ivan Illich, un autore singolare ed eterodosso che si stenta a catalogare. Il pensiero di Illich è stato sempre solitario, forse anche perché ha iniziato ad avere una certa diffusione negli anni ‘70, ovvero nel momento storico in cui i filoni marxista e cristiano si incontravano nel tentativo di produrre innesti come la teologia della liberazione. Illich ha infatti proposto da un lato una teologia negativa molto distante anche dalla teologia politica che andava di moda all’epoca nel cattolicesimo democratico e dall’altro ha sviluppato una parallela critica radicale del marxismo, distanziandosi da tutte le categorie interne al pensiero moderno, positivista e scientifico.

Oggi ci troviamo di fronte a una caduta quasi macchiettistica del marxismo, ridotto ad un disperato tentativo di riproposizione ottusa proprio di quelle sue caratteristiche compatibili col pensiero capitalista che furono un tempo già criticate dall’operaismo di Panzieri e Tronti, ma anche dal lavoro di Bordiga, per citare due delle scuole marxiste minoritarie del Novecento. Dialettica hegeliana e dispositivi meccanicistici di rapporto tra struttura e sovrastruttura, funzione storica del partito e della classe, conflitto capitale-lavoro inteso come astrazione puramente economica: tutti concetti appartenenti ad una lingua di legno e ad un sistema morto che si tenta inutilmente di resuscitare contrapponendolo al contemporaneo disastro della cultura e della politica liberale, anche di sinistra.

Illich ha avuto il merito di scavare un tunnel sotterraneo opposto sia al modernismo marxista che a quello cristiano, ritrovandosi in una terra straniera di cui soltanto oggi capiamo l’importanza e la necessità per una critica al capitalismo che sia efficace. Pensiamo a un testo come “Descolarizzare la società”, pubblicato nel 1971, che ricevette anche un discreto successo, per poi essere relegato nel dimenticatoio assieme a tutta quella serie di scritti critici della pedagogia e dell’istruzione che oggi sono sommersi da un’ondata di studi e riflessioni che vorrebbero umanizzare la scuola-azienda (mission impossible).

Interrogato sull’origine e il significato di questo testo, Illich affermava che: “Se la danza della pioggia non sortisce alcun effetto, puoi biasimare te stesso per avere danzato nel modo sbagliato. La scolarizzazione, come ho potuto via via rilevare, è il rituale di una società impegnata nel progresso e nello sviluppo. Essa crea quei miti che per una società consumistica sono una necessità. Per esempio ti fa credere che l’apprendimento può essere diviso in varie parti e quantificato, o che è qualcosa che acquisisci solo attraverso un processo. Un processo nel quale tu sei il consumatore e qualcun altro l’organizzatore, e tu collabori producendo la cosa che consumi e interiorizzi. Perciò sono giunto ad analizzare la scolarizzazione come il rituale di fabbricazione di un mito, il rituale che crea un mito su cui la società contemporanea poi costruisce se stessa. Ne deriva, per esempio, una società che crede nella conoscenza e nel confezionamento della conoscenza, che crede nell’invecchiamento della conoscenza e nella necessità di aggiungere conoscenza a conoscenza, che crede nella conoscenza come valore – non come bene, ma come valore – e che quindi la concepisce in termini commerciali. Tutto ciò è fondamentale per essere un uomo moderno e vivere nelle assurdità del mondo moderno” (D.Cayley, Conversazioni con Ivan Illich. Un archeologo della modernità, Eleuthera).

Ricostruendo quello che è il progetto fondamentale della scienza moderna, Pierre Thuillier racconta nel suo libro “Contro lo scientismo” (S-edizioni) questa ossessione per il quantitativo:

la quantificazione è divenuta un’ossessione socioculturale. Gestire le giacenze, verificare le quantità consegnate, calcolare le entrate e le uscite, i guadagni e le perdite, tutto questo è entrato nei ranghi delle competenze che bisognava assolutamente padroneggiare […] C’è stato bisogno che i mercanti acquisissero un grande potere sociale perché la “natura”, infine, diventasse veramente l’oggetto di una fisica degli “scambi razionali”. La nozione di energia riceverà, a sua volta, lo stesso trattamento. Ancora oggi possiamo vedere chiaramente le tracce di questa metafisica da droghiere in un’espressione quale “il bilancio energetico”(pagine 40-41).

L’homo scientificus realizza il suo principio attraverso cui “se si può fare, allora facciamolo”. E così nei report che misurano e quantificano la distruzione del pianeta (deforestazione, allevamenti intensivi, estinzione di specie animali, cambiamento climatico, etc.) possiamo anche leggere quanti miliardi di dollari perdiamo all’anno in seguito a queste catastrofi ben poco “naturali”. Si possono quantificare i ricavati della trasformazione del mondo così come gli effetti della sua completa distruzione. Non è nient’altro che un bilancio economico.

Anche se oggi leggiamo interessanti analisi di una corrente di pensiero marxista come quella dell’eco-socialismo, da queste riflessioni mancano quasi sempre tutte le vite delle varie differenti specie animali che popolano questo disgraziato pianeta. La lettura di fondo rimane quella antropocentrica e scientista, per cui la “natura” è un oggetto di studio e trasformazione ad opera dell’uomo, meglio se fatta dal socialismo piuttosto che dal capitalismo, ma sempre oggetto che gli umani modellano a loro piacimento. Il concetto di totalità (caro al pensiero hegeliano, marxista e cristiano) è completamente interno ad un pensiero della violenza razionalizzante, un pensiero che resta ancorato alle fondamenta del capitalismo occidentale. Per questo motivo le riflessioni di Illich sulla società conviviale sono oggi profondamente necessarie.

lino caetani

 

L’abolizionismo deve includere la psichiatria

Ho scelto di tradurre quest’articolo perché ho vissuto e vivo da vicino (e da diverse angolazioni) che cosa sia la psichiatria, e da abolizionista mi sono sempre chiesta perché le galere psichiatriche siano ancora ritenute da tantx così necessarie. Lo dedico ad Ennio: non sei più qui, ma le nostre chiacchierate sono anche in tutte queste righe. E sempre sarai in queste lotte. S.P.

da https://disabilityvisibilityproject.com/2020/07/22/abolition-must-include-psychiatry/?fbclid=IwAR23wqh8Ao7aMdIPeBpKy9t4ouKAAj64F4nEH8zkpMUg-xErymeqQiuWWNs

di Stella Akua Mensah e Stefanie Lyn Kaufman-Mthimkhulu

Note sui contenuti: sanità mentale, razzismo, violenza, violenza di stato, incarcerazione, istituzionalizzazione, “trattamento” forzato, tortura, coercizione medica, moderazione, isolamento, abuso, violenza sessuale, colonialismo

C’è una storia pericolosa negli Stati Uniti, basata sul mito della deistituzionalizzazione dei manicomi1. Attraverso questa storia, ci viene detto che il manicomio è morto ed è una cosa del passato. Ci viene detto che, ora, i/le “pazienti” hanno diritti, sono trattati con dignità umana e non sono criminalizzatx per la loro neurodivergenza. Ci viene detto che le restrizioni e i farmaci forzati avvengono solo in casi “estremi”. Ci è stato detto che il sistema di cura della salute mentale è qui per aiutarci, sostenerci e “curarci”. E ora, quando l’abolizionismo è entrato nel discorso mainstream, ci viene detto che questo stesso sistema dovrebbe essere considerato un’alternativa all’incarcerazione nelle prigioni. Ma quellx di noi che sono sopravvissutx all’incarcerazione psichiatrica sanno che non solo il manicomio non è mai morto, ma è, ed è sempre stato, un’altra prigione. Conoscendo la verità di questi miti, lavoriamo per scrivere una nuova storia.

Come afferma Hussein Abdilahi Bulhan nel suo lavoro Frantz Fanon: The Revolutionary Psychiatrist, “la psichiatria come qualsiasi terapia dovrebbe essere l’incontro di due persone ‘libere”. Nella nostra società attuale, questo non potrebbe essere più lontano dalla verità. Ogni stato (e Washington DC) consente a una persona di essere trattenuta involontariamente per “trattamento, osservazione o stabilizzazione”. Sebbene le specifiche varino a seconda dello stato, le tre principali forme di impegno sono: ricovero d’urgenza per valutazione, ricovero ospedaliero involontario, cure ambulatoriali “assistite”. Ciò significa che altre persone possono decidere (senza il tuo consenso) che tu rappresenti un rischio per te stessx o per altrx e che devi essere rimossx o sorvegliatx all’interno della tua comunità per il “trattamento”. Sebbene le persone disabili abbiano combattuto instancabilmente per il nostro diritto a vivere nella comunità, come previsto dall’ADA 30 [Americans with Disabilities Act (ADA], dobbiamo riconoscere le numerose scappatoie esistenti che rendono la nostra reclusione involontaria in contesti congregati una realtà.

Mentre parliamo di abolizione della prigione, discorso che è stato ampiamente fondato e rimane guidato dalle rivoluzionarie donne nere, dobbiamo fare i conti con la storia della psichiatria e capire meglio come il sistema di salute mentale perpetua i processi di criminalizzazione, polizia e sorveglianza. Quando guardiamo più in profondità, possiamo vedere sorprendenti somiglianze tra carceri e istituzioni psichiatriche. Come ha descritto Leah Ida Harris, sia carceri che istituzioni psichiatriche: hanno una sovrarappresentazione di BIPOC (neri, indigeni e persone di colore), ignorano i diritti e la sicurezza delle persone TGNC (trans e di genere non conforme), utilizzano il trasporto/risposta delle forze dell’ordine, utilizzano la reclusione e l’isolamento nelle celle /”stanze”, medicano forzatamente le persone (note anche come restrizioni chimiche), usano restrizioni fisiche, offrono un accesso estremamente limitato alla luce solare, all’aria fresca, ai telefoni cellulari, alle notizie/ai media e al mondo esterno. Inoltre, la violenza sessuale è di routine, c’è un potere limitato di appellarsi a decisioni legali/mediche e la stragrande maggioranza dex detenutx sono sopravvissutx a precedenti esperienze traumatiche. Quest’anno, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura ha presentato un rapporto affermando che gli interventi psichiatrici involontari “potrebbero benissimo equivalere a tortura”.

La cultura carceraria non è risolvibile “finanziando il sistema di salute mentale” in modo più robusto. Il sistema di “salute” mentale è fondamentalmente carcerario, il che significa che è uno dei tanti sistemi affini che funzionano per contenere e sorvegliare le persone, togliere il loro locus of control, isolarle dalle loro comunità e limitare la loro libertà.

Poiché funziona in America e in tutti i luoghi toccati dal colonialismo, la psichiatria è radicata nella tortura, nella supremazia bianca e in una cultura della vergogna e della punizione. Sì, il manicomio vive e la polizia ama il manicomio.

Abolizionismo significa che tutte le gabbie vengono rimosse, comprese quelle che funzionano con il pretesto di “cure” psichiatriche.

L’abolizione della psichiatria non significa che a nessunx sia permesso identificarsi con diagnosi psichiatriche che ritengono essere loro utili, o che nessunx possa continuare a prendere farmaci psichiatrici che ritengono efficaci². Significa, tuttavia, che la nozione di “malattia mentale” è stata inventata per patologizzare le risposte logiche allo stress e ai traumi che sono onnipresenti in un mondo brutalizzato dal colonialismo e dal capitalismo. La psichiatria è stata descritta come una “colonizzazione medicalizzata di terre, popoli, corpi e menti”. Un notevole esempio delle intenzioni coloniali della psichiatria fu la diagnosi di “drapetomania”: la “malattia” mentale che spiegava perché le persone nere schiavizzate nell’Antebellum south scappavano dai loro campi di sterminio (il “trattamento” li considerava “come bambini”). Come afferma China Mills in Globalizing Mental Health, “il disagio causato dalle condizioni socio-economiche (e spesso dalle riforme economiche neoliberiste) viene riarticolato come ‘malattia mentale’, trattabile usando tecniche che attingono a motivazioni simili a quelle che inizialmente hanno portato allo stress.”

Abolizionismo psichiatrico significa che il risultato previsto e realizzato dell’avvento “malattia mentale” come significante è far sentire alle persone che non miglioreranno mai e che il loro disagio è inerente alla loro chimica cerebrale piuttosto che una reazione a stimoli esterni. Questa logica è essenzialmente victim-blaming e allontana la responsabilità dai cicli di violenza che creano le condizioni per la sofferenza psicologica – per non parlare del fatto che la teoria dello “squilibrio chimico” è stata ampiamente sfatata. Significa anche che la psichiatria è stata costruita con un desiderio fondamentale di disumanizzare, drogare e scartare coloro il cui comportamento e modi di essere sono divergenti dallo status quo. Questo status quo era ed è bianco, patriarcale e assolutamente innamorato della rispettabilità e del rispetto delle nozioni egoistiche dello stato di “normalità”.

Molti Psichiatrici Sopravvissuti hanno fatto passi da gigante nella ricerca della giustizia, delle riforme e talvolta dell’abolizionismo. Ma la natura attuale dei reparti psichiatrici, che, per la maggior parte, sono rimasti prigioni violente e degradanti in cui la maggioranza delle persone ex detenute afferma di non essere stata aiutata e di essere stata ulteriormente traumatizzata, indica probabilmente che il manicomio non è mai morto. Perché? Perché non è mai stato supposto. La psichiatria È l’etica del manicomio e il manicomio non cadrà finché non cadrà la psichiatria.

***

Le nostre discussioni sull’abolizionismo psichiatrico sono approfondite quando guardiamo alla storia della cultura carceraria nelle sue molteplici forme: polizia, pena di morte, eliminazione del dissenso e, al di sotto di tutto, una fedeltà alla nozione binaria per cui ci sono brave persone e ci sono persone cattive. La punizione e l’eliminazione dex “cattivx” e delle persone dissidenti non è solo un problema americano, ma le sue manifestazioni in questo paese sono uniche e inestricabilmente radicate nella schiavitù e nel genocidio delle persone nere e indigene. In Amerikkka, coloro che sono persone “buone” aderiscono (o si adattano naturalmente) allo status quo dello Stato, e sono utili ingranaggi nelle macchine gemelle della supremazia bianca e del capitalismo. All’interno della categoria “cattiva” dello stato ci sono quellx la cui utilità per lo stato è discutibile, che include in modo sproporzionato BIPOC, persone TGNC, persone LGBTQIA2S+, persone disabili e neurodivergenti, persone povere e coloro che tentano di ritenere lo stato responsabile della sua violenza.

È anche importante che parliamo di danni. Quando moltx di noi pensano alle istituzioni, pensiamo di mantenere la società al sicuro dax più dannosx tra noi. La verità è che tuttx noi causeremo danni nelle nostre vite, e sapere questo piuttosto che proiettarlo su determinati individui è molto importante per l’abolizionismo in modo da poter praticare l’antidoto alla punizione: la responsabilità. La cultura carceraria ci ha portato a negare la nostra capacità condivisa per l’intero spettro di danni, dando la priorità al “crimine” e definendolo in gran parte in termini di come interrompiamo l’”ordine” piuttosto che come ci danneggiamo a vicenda. La verità è che le strutture a cui dovremmo aderire per essere considerate “buone” sono alla radice dei cicli di violenza che creano le nostre capacità di danno. Non solo, ma le nostre ragionevoli reazioni alla violenza autorizzata dallo stato sono considerate “dannose”, attribuendo la colpa alle vittime. Sì, c’è molto danno nel mondo, ma se proviamo a immaginare un mondo in cui le strutture coloniali non abusino più delle nostre comunità mentre sponsorizzano felicemente cicli di violenza al loro interno, è possibile vederci guarire a livello interpersonale e comunitario in un modo che ha il potenziale per trasformarci andando oltre la cultura carceraria.

Vale la pena sottolineare che la cultura carceraria esiste nel nostro mondo da almeno 4.000 anni, con alcunx antropologx che datano a decine e persino centinaia di migliaia di anni fa la pena capitale. Tutto questo per dire: la cultura della prigione e della punizione sono abbastanza fondamentali per l’umanità. Denominare la prigionia per quello che è – antica – ci aiuta ad affrontare il colossale compito di guarire verso l’abolizione. Allo stesso tempo, ci sono state – e ci sono ancora – società e comunità che resistono a gerarchie e punizioni dannose. I popoli indigeni hanno usato cerchi di parola per migliaia di anni, “che incarnavano hozjooji naat’aanii, una frase navajo che significa “qualcosa di più di ‘persone che parlano insieme per riformare le relazioni tra loro e l’universo'”.Guardiamo a queste pratiche di giustizia riparativa (RJ) come guide venerate nella nostra ricerca abolizionista. Transformative Justice (TJ) è un’evoluzione di RJ che riconosce la nostra necessità di curare anche i sistemi di oppressione che causano in primo luogo il danno alle nostre relazioni.

La cultura carceraria diffusa nel mondo è in gran parte il risultato di una gerarchia di valori umani che è servita a lungo a semplificare la nostra reciproca comprensione. Se condividiamo effettivamente la capacità di nuocere, allora siamo tuttx degnx di entrare in contatto con le nostre capacità condivise di trasformazione. Se condividiamo anche la capacità di diverse manifestazioni di stress e neurologiche, dobbiamo eliminare il binario “sano di mente”/”folle” e darci il permesso di essere liberx e trovare la guarigione. Basati sugli insegnamenti di Restorative, Transformative e Disability Justice, crediamo fermamente che un mondo post-istituzioni sia possibile e in atto.

Non c’è modo per tuttx noi di essere liberx senza smantellare i sistemi riduttivi di controllo che impongono nozioni di normalità e correttezza al servizio dello stato, le cui conseguenze sono fatali per tantx di noi. Spiritualmente, possono essere fatali per tuttx noi.

La giustizia sulla disabilità e la giustizia riparativa e trasformativa ci chiedono di immaginare il mondo in cui vogliamo vivere, collettivamente e di mettere in pratica queste idee e valori ogni giorno. Queste strutture ci forniscono gli strumenti necessari per plasmare una società che supporta la nostra guarigione. Quando pensiamo a un mondo post-psichiatrico e post-carcere, vediamo pari camminare insieme attraverso la sofferenza e sviluppare abilità empatiche che favoriscono la reciprocità. Vediamo i processi di TJ che ci aiutano a resistere alla vergogna e alla punizione, ad accettare la responsabilità e a smantellare le tendenze interiorizzate al danno e all’abuso. Ci vediamo consapevoli che la nostra angoscia è una risposta comprensibile ai cicli di danno e sofferenza³. Ci vediamo trascorrere del tempo riposante e formativo con persone amorevoli in spazi amorevoli quando siamo in crisi. Ci vediamo curare il nostro trauma secondo i nostri ritmi e nei nostri modi. Non ci vediamo più patologizzare e diffamare manifestazioni belle e innocue della neurodiversità. Non ci vediamo mai, in nessuna circostanza, introdurre farmaci psichiatrici nel corpo dell’altro senza (leggi: non coercitivo) consenso. E, forse la cosa più fondamentale, ci vede che ci prendiamo effettivamente cura l’uno dell’altro, senza paternalismo e senza imprigioniarci a vicenda mentre ci riferiamo a questa violenza come “cura”. 4

Intorno a noi si stanno già evolvendo forme amorevoli e non carcerarie di assistenza comunitaria e risposta alle crisi, per aiutarci a scrivere questa storia post-carcere. Il progetto LETS fa questo lavoro ogni giorno, attraverso i nostri modelli Peer Mental Health Advocate (PMHA) che esistono al di fuori del complesso carcerario-industriale. Altri meravigliosi esempi includono: The Hearing Voices Network, Mad in America, Sins Invalid, Health Justice Commons, Western Mass Recovery Learning Community, HEARD, e molti altri. Le basi sono state gettate, ma insieme, dobbiamo fare il lavoro di costruire, immaginare e creare i nuovi mondi in cui vogliamo vivere. Come ha brillantemente affermato Frantz Fanon, “se è la società che è ‘malata’, allora è la “società che deve essere sostituita.”

Appunti

1 Ci riferiamo alla deistituzionalizzazione come a un mito perché non è mai stata pienamente realizzata. Sebbene le popolazioni all’interno degli istituti siano state ridotte, molte delle persone della nostra comunità sono ancora incarcerate in istituti psichiatrici, carceri, case di cura, case residenziali e altri ambienti congregati usati per far sparire le persone. Per ulteriore contesto, consigliamo: Decarcerating Disability di Liat Ben-Moshe.

2 Sebbene la psichiatria sia un sistema fondamentalmente violento, ci sono alcuni farmaci psichiatrici che sono efficaci per alcune persone (sebbene il trauma culturale e strutturale che crea manifestazioni angoscianti di neurodivergenze è necessario sia la priorità). Non siamo anti-farmaci e non sosteniamo che le persone interrompano l’assunzione di farmaci a loro utili. Crediamo, tuttavia, che la creazione e l’evoluzione degli psicofarmaci potrebbe essere concretamente rilevata da entità post-psichiatriche che si riconoscono/costruiscono sulla piccola saggezza che è uscita incidentalmente da questa struttura violenta.

3 Alcune manifestazioni di neurodivergenza non si sentono come risposte a traumi interpersonali o stress. A volte questo è perché sono risposte a traumi sistemici e stress che sono così onnipresenti che non ci rendiamo conto del loro impatto sulle nostre menti e corpi. A volte, questo è perché il trauma e lo stress vengono ereditati nel corpo dai nostri genitori e/o antenati. A volte non sappiamo da dove provenga la nostra angosciante neurodivergenza, e qui sta il valore dell’identificazione con una “malattia mentale”. A volte la nostra neurodivergenza non è in alcun modo angosciante e quindi non ha bisogno di spiegazioni. Puoi scegliere il linguaggio che descriva la tua esperienza. La nostra speranza è che tu permetta a te stessx l’esplorazione di come le diagnosi e i meccanismi psichiatrici possano toglierti la conoscenza di te stessx, facendo delle scelte per te.

4 Vorremmo anche confermare che alcune persone hanno avuto buone esperienze in istituti psichiatrici. Da un’ottica abolizionista, crediamo che le parti buone di quelle esperienze potrebbero essere replicate e migliorate all’interno dei centri di riposo e altre innovazioni negli spazi di guarigione non carcerari. Inoltre, dire che hai avuto una buona esperienza in un reparto psichiatrico e quindi la psichiatria non dovrebbe essere abolita è come dire che la polizia ti ha aiutato e quindi non dovrebbe essere abolita – il punto è che sei in minoranza, e la saggezza di coloro che hanno sofferto per mano di questi delinquenti sostenuti dalle istituzioni devono essere centrali.

 

I nuovi abiti del Capitalismo

Pubblichiamo la traduzione di un lungo intervento di Evgeny Morozov sul libro di Shoshana Zuboff “Il capitalismo della sorveglianza” [S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019]. In questa recensione, Morozov dimostra come le basi teoriche dello studio di Zuboff siano poco solide, basate più che altro su un funzionalismo sociologico che giustifica tautologicamente le proprie ipotesi, senza un confronto adeguato con ipotesi scientifiche diverse. “Esiste una teoria più semplice, più generale, per spiegare l’estrazione dei dati e la modifica del comportamento che Zuboff trascura, intrappolata com’è all’interno della struttura Chandleriana, con il suo ardente bisogno di trovare un successore del capitalismo manageriale. Questa teoria più semplice va così: le aziende tecnologiche, come tutte le aziende, sono guidate dalla necessità di assicurare una redditività a lungo termine. La raggiungono superando i loro concorrenti attraverso una crescita più rapida, esternalizzando i costi delle loro operazioni e sfruttando il loro potere politico. L’estrazione dei dati e la modifica comportamentale che consente – chiaramente più importante per le aziende in settori come la pubblicità online – sorgono, dove lo fanno, in quel contesto”.

Buona lettura.

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Abolo

traduzione di Camilla e Cristina

RIT:

Io che ero abolo quasi dichiarata

E ora sto con una puttana empoderada [da empowered ndT]

Non so chi sia la puttana

Lei è quella che paga

Dice che non guadagno abbastanza per pagarla (bella, bella)

 

Ha due cellulari come i gangster

Non so se a me ha dato quello dei clienti

Mi ha scritto su Instagram per criticarmi

Dice che non le piace la mia maniera di esprimermi

Dice di imparare a fare i distinguo

Tra la tratta di umani e il lavoro sessuale

Dice di smettere di dare la mia opinione senza avere idea di niente

Che tutte ci prostituiamo a nostro modo, tesoro

Nel sistema e che il lavoro salariato è la stessa merda ma con un guinzaglio diverso

Che le mie argomentazioni contribuiscono allo stigma

E che per colpa di ciò lei ha due vite

Che devo controllare quella bocca

Perché il linguaggio offende e qui siamo femministe

Che non mi scaldi tanto perché sembro moralista

Mi porta in vacanza con i soldi che alza

 

Dice che sta riscuotendo dal patriarcato

Che non mi lamenti tanto, ché con me lo fa gratis

Che non mi ha mai fatto pagare

Che la figa è le perché non è mai nato l’uomo che l’ha sfruttata

 

Ho un amore per strada (come Los Chichos) [gruppo musicale https://www.youtube.com/watch?v=-rKRgwkzW5s NdT]

Non credo a quello che dici tesoro

Che non mi rendo conto del resto degli sfruttamenti

Che se voglio non mi resta che provarci e fare a metà, mi ha detto

 

RIT x2

Mi dice: ho io il controllo mami, non sottovalutarmi

Li sto espropriando di tutto quello che ci devono

Che se parlano a nome mio

Se mi tappano la bocca, non è meno padrone quello che proibisce rispetto a quello che sfrutta

 

Stiamo facendo i soldi, cugina, che non siamo “richis”

È peggio non farsi pagare, lo ha già detto Federici

Vengono da me e chiamano ai cattivi, sono “snitchis”

Io sono una delle altre, del sindacato “bitchis”

 

Dimmelo dimmelo dimmelo dimmelo

Tu sei padrona del tuo tempo, o no?

Io metto le mie regole, le mie condizioni, i miei orari

Io segno i giorni del party sul calendario

 

Dicono che è peccato che sto vendendo il mio corpo

Ma se così fosse non ce l’avrei più, no?

Altre sorreggono il vassoio con il polso del proprio braccio

Anch’io vendo la mia forza lavoro

 

Stiamo facendo i soldi, cugina, che non siamo “richis”

È peggio non farsi pagare, lo ha già detto Federici

Vengono da me e chiamano ai cattivi, sono “snitchis”

Io sono una delle altre, del sindacato “bitchis”

 

Crimi crimi crimi criminalizzano i miei gesti

Preferiscono che concluda l’accordo clandestinamente

Dimmelo dimmelo dimmelo dimmelo

Se il tuo attuale lavoro era la tua prima opzione

RITx2

 

Pensare alle prigioni nel momento della pandemia di Coronavirus in Africa

Testo di Marie Morelle, relatrice HDR in Geografia (Università Paris 1 Panthéon Sorbonne, UMR PRODIG, nella delegazione IRD Cameroun presso la Fondazione Paul Ango Ela), Frédéric Le Marcis, professore in antropologia (Ecole normale supérieure, delegato IRD presso il Centro di ricerca e formazione in infettologia della Guinea) e Sylvain Faye, professore in antropologia (Università Cheikh Anta Diop, Sénégal).

da http://libeafrica4.blogs.liberation.fr/2020/04/07/penser-la-prison-lheure-de-la-pandemie-de-coronavirus-en-afrique/

Da alcune settimane, la pandemia di Coronavirus occupa le pagine o le trasmissioni dei media.

Ora, per una volta, essa dà origine a diversi articoli sulla situazione sanitaria e sociale nelle prigioni, dalle proteste dei detenuti privati dei colloqui in Italia agli appelli alla liberazione dei prigionieri in Francia e in Senegal, per esempio. Man mano che il virus circola da un continente all’altro, le dichiarazioni degli avvocati, delle ONG o dei ricercatori si moltiplicano, diffuse dalla stampa e dalle radio sia nazionali che internazionali. Vedere ad esempio la dichiarazione congiunta di un collettivo di ONG e di attori nazionali e internazionali per le prigioni in Africa, diffusa da Avvocati senza frontiere – Belgio: <<di fronte alla propagazione del Covid-19, prendere misure urgenti e immediati per proteggere i diritti dei detenuti in Africa>>, 24 marzo 2020; l’appello dei ricercatori, avvocati e magistrati in Francia: <<Coronavirus: riduciamo il numero di persone incarcerate per pene brevi o verso fine pena>>, Le Monde, 19 Marzo 2020; l’analisi di Gwenola Ricordeau: <<Perché svuotare le prigioni è necessario>>, The conversation, 25 Marzo 2020.

L’epidemia avrà quantomeno contribuito a riaprire il dossier sulla salute in prigione, in particolare sulle questioni riguardo la promiscuità e le condizioni igieniche nei luoghi di detenzione che sarebbero favorevoli alla trasmissione del virus. Ci si può interrogare sul tempismo col quale si riconosce e si mette all’ordine del giorno una questione sanitaria per le carceri discussa già da molto tempo. Tuttavia è importante andare oltre l’analisi della situazione per riflettere sul ruolo dell’istituzione penitenziaria nelle politiche della sanità pubblica così come sulla dimensione politica di una tale discussione. Noi proponiamo di farlo a partire dalle carceri africane, trattenendoci da qualsiasi generalizzazione riguardo il continente e da una lettura afrocentrica, che andrebbe a discapito di una lettura che vogliamo sia universale. In effetti è sulla pena detentiva e sulla sua portata socio-politica che si tratta ancora e sempre di riflettere.

Un breve riassunto sulla situazione delle carceri nel continente africano permetterà di dimostrare la vulnerabilità nella quale si ritrovano sia i detenuti che il personale penitenziario. Si cercherà allora di individuare le risposte delle autorità pubbliche e dei soggetti generalmente coinvolti nel settore carcerario. Infine, rifletteremo su ciò che la gestione delle prigioni ci dice riguardo alle politiche della vita.

Una eterogeneità di situazioni che non deve mascherare una forte vulnerabilità

Nelle prigioni in Africa vi sono diverse situazioni, sia nel numero delle carceri, che nella loro localizzazione e nella loro grandezza. I tassi di detenzione sono variabili, e perfino inferiori a quelli che si conoscono in degli stati europei o americani. Se l’Africa del Sud si distingue per un tasso di circa 300 detenuti per 100.000 abitanti, non è lo stesso per il Burkina Faso con meno di 50 detenuti per 100.000 abitanti. Quanto al Camerun è vicino al tasso della Francia, oscillando attorno ai 100 per 100.000 abitanti. In Senegal la popolazione carceraria è stimata in 11547 detenuti nel 2019, ossia una media di 68 detenuti per 100.000 abitanti.

Tuttavia, qualunque sia il tasso di detenzione, numerose carceri nel continente (e nel mondo) sono caratterizzate da un forte sovraffollamento, in particolare nelle grandi città. Ciò si traduce innanzitutto in una insufficienza di letti per i detenuti, una promiscuità enorme nelle celle e negli spazi comuni. Inoltre, le razioni alimentari così come le infrastrutture di accesso all’acqua (e quelle di drenaggio) sono sottostimate all’interno di budget spesso deboli. Molti prigionieri soffrono dunque di dermatosi (da cui la scabbia) e di malnutrizione (da cui il Béri Béri, carenza di vitamina B). A queste malattie se ne aggiungono altre: la popolazione carceraria si distingue in effetti per una maggiore incidenza dell’HIV e della tubercolosi rispetto al resto della popolazione. I detenuti appartengono dunque a quelle che nel momento della pandemia di Coronavirus (Covid-19) sono definite come “popolazioni vulnerabili”. I detenuti sono vulnerabili a causa del sovraffollamento carcerario di cui sono vittime, in un contesto dove il distanziamento sociale è considerato come l’arma fondamentale per spezzare la catena di trasmissione del virus. Da molto tempo le prigioni, luoghi chiusi e isolati sono divenuti “incubatori” per diversi virus dalla rapida propagazione, senza trascurare lo storico disprezzo per le carceri come vettori di malattie ma anche di contaminazione morale.

In effetti i detenuti soffrono di interruzioni ricorrenti del loro percorso di cura (all’ingresso in detenzione quando sono già sotto trattamento come all’uscita se hanno iniziato il trattamento durante la loro detenzione) e dell’assenza di controlli sistematici al loro ingresso in prigione. Le infermerie, quando vi sono, mancano di materiali e medicine. Considerate per la maggior parte del tempo come parte del livello più basso del sistema sanitario, esse non sono rifornite che di farmaci per l’assistenza sanitaria di base. Per il resto esse dipendono dalle donazioni delle ONG, dalle associazioni religiose, dagli sponsor o dalle agenzie internazionali. Infine le visite delle famiglie e il loro contributo finanziario sono essenziali per facilitare la presa in carico sanitaria del detenuto malato (acquisto di medicine, realizzazione di un esame o presa in carico sanitaria fuori dalla prigione). La sanità penitenziaria soffre di una disconnessione con gli operatori e i centri della sanità: essa è troppo spesso dimenticata nelle politiche di sanità pubblica. In Senegal la competenza dell’amministrazione penitenziaria riguarda solo la sorveglianza delle prigioni e la sicurezza dei detenuti. La sanità e l’igiene carceraria fanno capo al ministero della Sanità, e sono sfortunatamente dimenticate dal sistema sanitario.

In dei contesti dove le infrastrutture sanitarie sono insufficienti, portare la questione della salute carceraria all’ordine del giorno può sembrare quasi una richiesta illegittima. Le logiche di sicurezza prevalgono spesso sulle logiche sanitarie.

La circolazione attiva del Covid-19, e la minaccia epidemiologica che la prigione rappresenta in questo contesto, impone non solo di non chiudere più gli occhi sulla negazione del diritto alla salute dei detenuti, ma anche, ricordiamolo, sulle condizioni di lavoro del personale penitenziario, delle guardie così come dei medici.

Prime risposte

La situazione dunque sembra confermare che la prigione non è un edificio isolato, protetto dai suoi alti muri, ma uno spazio poroso, prodotto e inscritto in una varietà di flussi. Le amministrazioni penitenziarie hanno fatto il punto su questa situazione. In Senegal, l’inquietudine crescente degli agenti della divisione medico-sociale dell’Amministrazione penitenziaria li ha condotti a interpellare il ministro della Sanità perché siano immediatamente prese delle misure di controllo mediche e igieniche nelle prigioni. Molto spesso le visite sono state proibite. Tuttavia è essenziale insistere sulla dipendenza dei prigionieri dalle loro famiglie (denaro, alimenti, medicine ma anche sostegno morale) e all’inverso, di questi ultimi da alcuni detenuti che riescono a svolgere attività generatrici di reddito (informali o criminali). Rompere questo legame può avere degli effetti devastanti nella vita dei prigionieri e dei loro cari. Presso la Casa di detenzione e correzione di Ouagadougou (MACO), se le visite sono sospese, è stato messo in atto un sistema di pacchetti (che è necessario disinfettare). Esso non rimpiazza una visita anche se la circolazione illegale di telefoni non è un mistero per nessuno (a condizione che si disponga delle chiamate). In Senegal, l’amministrazione penitenziaria non ha ancora interdetto, ma soltanto ridotto le visite familiari, promettendo un dispositivo di comunicazione a costo ridotto allo scopo di permettere ai detenuti di mantenere il contatto con le proprie famiglie. D’altro canto tutte le autorizzazioni di accesso agli stabilimenti penitenziari accordati ai rappresentanti diplomatici, alle associazioni, alle organizzazioni non governative, agli studenti e ai ricercatori sono state sospese fino a nuovo ordine.

Tuttavia, si deve anche riflettere su un altro flusso, ossia quello verso il tribunale. Si tratterà di sospendere i processi, come ha fatto la Guinea, il Senegal, o ancora, parzialmente, il Gabon (salvo per i reati più gravi, le delibere e le domande di messa in libertà provvisoria)? A rischio di allungare le durate delle detenzioni preventive oltrepassando le scadenze legali? Come garantire le visite degli avvocati? La crisi sanitaria non può giustificare una sospensione dei diritti!

Si pone anche la questione di coloro che entrano in carcere. E infine, non si può trascurare l’andirivieni delle guardie che avviene maggiormente nel contesto di città che non hanno messo in atto misure di confinamento in ragione del loro costo sociale, economico e politico.

Ovviamente possiamo prendere in considerazione la messa in atto di sistemi di sicurezza senza rinunciare alla sensibilizzazione: prendere la temperatura dei visitatori e delle guardie, obbligarli a lavare le mani all’entrata, mettere dei secchi di candeggina, o con del sapone, in assenza del gel idroalcolico insufficiente nei centri di detenzione e negli uffici dell’amministrazione e infine equipaggiare il personale sanitario con mezzi di protezione (maschere, guanti, camici). Questo è ancora più necessario in molti paesi dove le associazioni e le ONG (le cui autorizzazioni sono ormai spesso sospese) hanno fornito una risposta a determinate esigenze sanitarie dei detenuti. Resta da sapere se queste azioni sono sostenibili nel tempo e replicabili in tutte le prigioni di uno stesso paese, in particolare per delle ragioni finanziarie.

Sottoporre a screening con l’aiuto di kit le guardie e i nuovi entrati è una sfida, visto che i kit mancano. Inoltre gli individui sottoposti a screening devono essere isolati dagli altri detenuti, ulteriore problema in un contesto di sovraffollamento. Per quanto riguarda le maschere c’è carenza anche di quelle.

Non ci si stupirà dunque degli appelli alla liberazione di alcune categorie di detenuti lanciati più spesso dalle ONG (in Sud Africa o in Camerun ad esempio) e dagli avvocati (in Algeria), allo scopo di permettere alle autorità sanitarie di poter controllare e proteggere l’ambiente carcerario: i più anziani ad esempio, i più vulnerabili o ancora secondo la pena da scontare o il tipo di reato. Se la legge non lo permette, si può ricorrere a un decreto presidenziale, per delle grazie, frequenti sul continente e a cui l’Etiopia ha fatto ricorso il 25 Marzo scorso per le prigioni di Kilinto, Shewarobit, Ziway, Dire Dawa e Qualiti. In Kenya dei detenuti della prigione di Shimo La Tewa effettueranno la loro fine pena ai domiciliari partecipando a dei lavori per la comunità. Il Niger ha ugualmente annunciato di aver liberato 1540 detenuti. In Senegal il presidente della Repubblica ha graziato 2036 detenuti, condannati per diversi reati e detenuti in diversi edifici penitenziari sparsi nel paese. Le liberazioni interessano principalmente i detenuti che beneficiano di una remissione totale o parziale della pena, i minori, i gravemente ammalati o quelli oltre i 65 anni. Si può anche tenere in conto della commutazione dell’ergastolo alla reclusione di 20 anni, facilitando altre liberazioni immediate. Va fatto notare che i detenuti condannati per omicidio, stupro, pedofilia, traffico di droga, furto di bestiame sono stati esclusi dall’amnistia.

Si può far riferimento al sito di Prison Insider che raccoglie le azione intraprese paese per paese e continente per continente giorno per giorno. In questo contesto, si nota che spesso l’oggetto delle richieste di liberazione sono i detenuti politici, come in Egitto o nel Niger. Se molto spesso attraverso questi detenuti si è potuto dare una risonanza maggiore alle condizioni di detenzione, non ci si può accontentare di una liberazione che ignori i prigionieri ordinari.

Ciò che la pandemia dice sulla prigione: una politica dei diritti

L’accesso alle cure resta un diritto e la sua negazione non dovrebbe aggiungersi legittimamente alla pena già subita. Sottoporre a screening dei detenuti, in entrata o no, o delle guardie, quando ciò è possibile, implica in seguito curarli: organizzando le celle disponibili, costruendo rifugi nei cortili e distribuendo le medicine necessarie, impedendo la contaminazione. Ciò richiede che la sanità in prigione sia chiaramente inscritta nel dispositivo del sistema sanitario e di cura e che non sia lasciata alle iniziative delle associazioni e delle organizzazioni per i diritti umani. Bisogna anche che i ministeri di tutela si sforzino a investire in questo ambito, garantendo il principio di diritto alla sanità per tutti.

La crisi sanitaria attuale dimostra che esiste una coscienza: quella dell’inclusione della prigione negli ambienti sociali e dei flussi che si generano tra essa e l’esterno. Niente di nuovo in ciò dal punto di vista delle scienze sociali, se non che il mito dell’impenetrabilità della prigione, con il pretesto della sicurezza e della punizione cade un po’ più apertamente. Privare i detenuti del sostegno esterno, vuol dire esporsi a delle rivolte. Privare i detenuti delle cure, il personale medico penitenziario lo sa, vuol dire fare delle carceri dei nuovi focolai di epidemie. Non si potrà quindi continuare a chiudere gli occhi sul ruolo legittimo della prigione, dei detenuti e del personale nelle politiche di sanità pubblica, ai fini della lotta contro le epidemie (il coronavirus oggi, Ebola domani e infine già l’HIV, la tubercolosi e l’epatite). Questa affermazione non deve tuttavia limitarsi a una questione pragmatica. Essa deve anche portare alla depenalizzazione dei reati meno gravi e a una messa in atto di misure alternative finché il sovraffollamento carcerario non avrà fine. Essa deve sopratutto essere una opportunità per parlare dei diritti dei detenuti e dei diritti che lasciamo che gli Stati violino, in Africa come altrove.

Aggiornamenti sulle prigioni francesi

Da una settimana la Francia ha dichiarato uno stato di “guerra sanitaria” con misure di confino forzato e controlli polizieschi rinforzati in strada – soprattutto nei quartieri dove vive la popolazione non bianca, più precaria e sfruttata, a rinforzare la gestione coloniale già in atto in queste aree urbane. Nei luoghi di reclusione, l’arrivo dell’epidemia da Coronavirus ha determinato l’applicazione di restrizioni ancora più dure. Nelle carceri e nei centri di detenzione per persone migranti i colloqui sono stati interrotti da lunedì scorso (16 marzo). Lo stesso giorno è arrivata la notizia della morte di un detenuto di 74 anni, rinchiuso da dieci giorni nel carcere di Fresnes, a sud di Parigi. Nessuna alternativa per comunicare con l’esterno è stata proposta alle persone detenute, e sono state vietate tutte le attività collettive: nella pratica, i/le prigionieri/e resteranno rinchiusi nelle loro celle 22 ore su 24. Le parole dei/lle prigionieri/e uscite in questi giorni dalle mura delle carceri denunciano l’isolamento forzato a cui sono costretti/e da queste misure, la mancanza totale di misure di igiene e prevenzione all’interno delle carceri e la tutela completamente assente nei loro confronti, allorché le guardie penitenziarie continuano ad entrare e uscire dal carcere, e sono potenzialmente esposte al virus.

La privazione di ogni forma di socialità e di contatto con l’esterno, unite alle violenze e gli insulti dei/lle secondini/e hanno portato a delle rivolte in numerose prigioni di Francia. Domenica 15 marzo, a Metz è stata bloccato il cortile dell’aria, nei giorni successivi disordini sono scoppiati nelle prigioni di Aiton, Angers, Douai, Epinal, Grasse, La Santé, Lille-Sequedin, Maubeuge, Montauban, Nancy, Perpignan, Saint-Etienne, Toulon, Valence et Varennes-le-Grand. Le Eris (Équipes régionales d’intervention et de sécurité – equivalente dei GOM) sono intervenute e in alcuni casi, per esempio a Grasse, i secondini hanno sparato con proiettili veri. A Uzerche, nel sud-ovest, una rivolta scoppia nel pomeriggio di domenica alla fine dell’ora d’aria. Diverse decine di detenuti si rifiutano di tornare in cella, salgono sul tetto mentre alcune centinaia invadono le diverse zone della prigione, costringendo i secondini a scappare dal carcere. Il bilancio finale è di 250 celle inutilizzabili, diversi danni strutturali tra cui l’ufficio del direttore completamente distrutto e i dossier dei detenuti bruciati. L’amministrazione del carcere ha risposto con una serie di trasferimenti punitivi nella notte tra domenica e lunedì. Nella stessa giornata i detenuti si sono rifiutati di tornare in cella e hanno bloccato il cortile dell’aria in altre prigioni, tra cui Maubeuge, Longuenesse, Meaux, Nantes, Carcassonne, Moulins, Limoges, Rennes-Vezin, Saint-Malo, Nice, Fleury-Mérogis.

È di lunedì 23 marzo la notizia che su ingiunzione del Ministero della Giustizia i tribunali di sorveglianza procederanno nei prossimi giorni alla liberazione di 5000 detenuti a fine pena, “che sono stati incarcerati per pene minori e che hanno mantenuto una buona condotta al momento della loro incarcerazione”. Non verranno applicate misure alternative tipo il braccialetto elettronico, visto che i tecnici non lavorano durante il periodo di confino. Nello stesso tempo, come diretta conseguenza dello stato di polizia rinforzato in atto da ormai una settimana, almeno una decina di persone sono state messe in stato di fermo per aver violato le regole di confino con l’accusa di “minaccia alla vita altrui”, con pene di diversi mesi di prigione. La prova che l’ossessione per la reclusione da parte dello Stato non si ferma ma anzi è rafforzata dallo stato di eccezione attuale.

Le notizie che arrivano dalle carceri francesi come da molte altre parti del mondo ci mostrano che non saranno i ridicoli decreti dei governi a liberarci una volta per tutte dal carcere, ma la lotta e la determinazione delle persone rinchiuse. La sola soluzione è la distruzione delle prigioni e la libertà per tutte e tutti!

Per restare informate/i sulla situazione nelle carceri francesi:

https://lenvolee.net/ giornale, blog ed emissione radio anticarceraria

https://radiogalere.org/ emissione anticarceraria il giovedì dalle 20h30 alle 22h00 e il sabato dalle 19h00 alle 21h00

Ribellione dei prigionieri in Iran

da https://www.eurasiareview.com/24032020-prisoners-rebellion-in-iran-oped/

In Iran, il numero di persone prigioniere infette da coronavirus è in aumento. Dato che il carcere è uno spazio chiuso, privo di una corretta alimentazione, con mancanza di adeguate strutture sanitarie e mediche e con un’alta densità di popolazione, l’infezione da Coronavirus minaccia la vita di molte persone prigioniere. Nonostante l’emissione di 2 direttive da parte del capo della magistratura che hanno liberato diversi prigionieri, ai prigionieri politici queste possibilità sono negate. Secondo la magistratura, lo status giuridico di queste persone imprigionate è definito come “detenuto”, comprese le persone che sono state arrestate durante le proteste di novembre.

Mentre il relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani chiede anche il rilascio di tutte le persone imprigionate, il rilascio dex prigionierx politicx è bloccato dai sistemi di sicurezza e giudiziari. Domenica 15 marzo 2020, un prigioniero è stato trasferito dal reparto 14 della prigione di Urmia in un ospedale fuori dalla prigione dopo essere risultato positivo al Coronavirus.

Inoltre, secondo l’Organizzazione dei diritti umani in difesa dei prigionieri politici, a due donne guardie nella prigione di Evin è stato impedito di venire a lavorare negli ultimi sette giorni per sospetta esposizione al Coronavirus. Negli ultimi giorni, i risultati dei test di una di essi è stato confermato essere positivo.

Il 16 marzo 2020, 128 prigionieri nei reparti n. 1, 2, 2 e 4 della quarantena della prigione di Evin hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la loro esposizione alla pericolosa malattia del Coronavirus e al deplorevole stato per quanto riguarda salute e cibo. Tuttavia, quando le persone prigioniere si sono rese conto che dopo 2 mesi dall’epidemia di Coronavirus, non avevano alternative e che le loro morti erano inevitabili, hanno deciso di ribellarsi e fuggire dalla prigione. Secondo il locale Khorramabad Citizens il 18 marzo 2020, i prigionieri nel reparto 3 della Parsylon Khorramabad Prison Mass si sono ribellati e sono fuggiti dal carcere. 250 prigionieri si sono ribellati e hanno cercato di scappare.

Alcuni di loro sono stati brutalmente attaccati dalle guardie carcerarie e uccisi da spari, ma 130 di loro riuscirono a fuggire. Durante la rivolta di Parsylon, i prigionieri hanno rotto la porta della prigione. Hanno confiscato le armi delle guardie, ne hanno ferito due e poi sono fuggiti. La ribellione ha avuto luogo secondo un piano coordinato dall’esterno e dall’interno della prigione. Alcuni amici dei prigionieri di Koohdasht hanno attaccato la prigione dall’esterno in 2 auto, mentre contemporaneamente in uno sforzo coordinato, i prigionieri all’interno della prigione si sono ribellati. Le guardie in questa situazione erano molto spaventate e hanno perso il controllo.

Testimonx sulla scena hanno detto di aver sentito spari continui vicino alla prigione. In seguito alla rivolta dei prigionieri di Khorramabad e alla loro riuscita fuga, le autorità di sicurezza e le Guardie rivoluzionarie hanno iniziato a stabilire la legge marziale nella città di Khorramabad e hanno arrestato le persone. L’IRGC ha anche fatto irruzione nei villaggi vicini per arrestare i prigionieri fuggitivi. La gente di Khorramabad ha aperto le proprie case ai prigionieri in fuga, e molte persone li hanno portati fuori dalla città con le loro auto in modo che l’IRGC non potesse prenderli.

Un cittadino che è stato imprigionato in questa stessa prigione ha detto: “I prigionieri sono fuggiti perché i prigionieri qui li trattano come animali. Hai bisogno di decine di cauzioni e decine di documenti per andartene, e per di più alcune guardie carcerarie devono garantire la tua cauzione.” L’anno scorso Ramin Biranvand, un ventenne prigioniero nel reparto 2 di questa stessa prigione, si è suicidato perché gli hanno richiesto enormi cauzioni, oltre alla garanzia di 6 guardie carcerarie. Alla fine, la mancanza di un ultimo garante gli ha impedito di andarsene e si è suicidato per rabbia. C’è stato un numero infinito di scioperi della fame. Gli assistenti sociali della prigione invece di occuparsi delle richieste degli scioperanti, li hanno messi in una gabbia e li hanno lasciati al freddo.


Tumulto nella prigione di Aligoodarz (a est della provincia di Lorestan)

Secondo Aligoodarz Citizens, i prigionieri della prigione centrale di Aligoodarz, nella parte orientale della provincia di Lorestan, il 20 marzo 2020, hanno fatto una rivolta. Questo è stato il risultato anche di uno sforzo coordinato dall’esterno della prigione. I prigionieri, per salvarsi dal Coronavirus, hanno pianificato il contrabbando di 3 pistole dai loro amici fuori di prigione e hanno costretto le guardie carcerarie ad arrendersi, quindi hanno cercato di scappare. Durante la loro fuga, si sono scontrati con le guardie. Circa 13 prigionieri sono riusciti a fuggire e 4 prigionieri sono stati uccisi dalle autorità.

Il governatore di Aligoodarz, Hamid Keshkoli, ha riconosciuto questa insurrezione e ha dichiarato: “Questa sera i prigionieri stavano cercando di fuggire dalla prigione di Aligoodarz ed è scoppiata una rivolta. La situazione della prigione è ora sotto controllo e, sfortunatamente, un prigioniero è stato ucciso e un altro ferito a una gamba.”

Testimonx oculari hanno riferito che gli agenti hanno sparato ai prigionieri anche dal tetto. Dopo la rivolta, molte ambulanze hanno trasportato ferite dalla prigione all’ospedale. L’IRGC ha bloccato tutte le strade verso la prigione nel timore della propagazione dell’insurrezione all’esterno e delle persone che venivano in aiuto dei prigionieri.

Attualmente, in altre carceri in Iran, le condizioni sono esplosive.

I prigionieri del centro di detenzione di Uzerches si arrampicano sui tetti e chiedono misure per contrastare l’epidemia

da https://lenvolee.net/les-prisonniers-du-centre-de-detention-duzerches-montent-sur-les-toits-et-exigent-des-mesures-contre-lepidemie/?fbclid=IwAR1UUsckm1qj_KR-QZUDnHbYwzufIc5wk76jjRkX6lDOl4bvcUxoGMoLxSY

Domenica 22 marzo nel centro di detenzione di Uzerches, i prigionieri stremati dalle nuove misure di confino e per il fatto di essere tenuti all’oscuro di tutto quello che riguarda la malattia sono riusciti ad accedere al cortile dell’aria e sono saliti sul tetto. In alcuni video che sono stati diffusi su internet, si sentono dei giovani urlare che hanno paura di morire perché le ERIS (Équipes régionales d’intervention et sécurité, equivalente dei GOM) e la polizia sono armati, e loro no; e che sparano con proiettili veri, com’è stato il caso settimana scorsa nella casa circondariale di Grasse. Trasmettiamo qui le loro rivendicazioni:
RIVENDICAZIONI DEI DETENUTI
-Vogliamo un DEPISTAGGIO per ogni detenuto e per ogni membro dell’amministrazione penitenziaria.
-Vogliamo che tutti gli agenti penitenziari senza nessuna eccezione siano muniti di guanti e di maschere (sono loro i più esposti al virus poiché sono loro che entrano ed escono dal carcere).
-Vogliamo essere informati dell’evoluzione della situazione:
A che punto siamo, i colloqui verranno ripristinati?
Che fine ha fatto il sopravvitto?
Che fine ha fatto la biancheria?
Qual è la situazione delle cure mediche in caso di Coronavirus?
-E per finire, per proteggerci, vorremmo che ogni detenuto abbia del gel antibatterico e una mascherina a disposizione (il minimo per quanto riguarda l’igiene attualmente)

Al CRA de Vincennes, le persone prigioniere sono ancora più isolate e ancor meno sicure

da https://abaslescra.noblogs.org/au-cra-de-vincennes-les-prisonniers-sont-encore-plus-isoles-et-encore-moins-en-securite/

Anche se diverse decine di prigionierx sono stati rilasciate da lunedì per prevenire l’esplosione dell’epidemia nel centro, almeno 60 persone sono ancora rinchiuse nel CRA di Vincennes. Le condizioni di igiene e cura rimangono disgustose e pericolose per le persone prigioniere e inoltre sono completamente isolate dai loro parenti e dalle loro famiglie.

I problemi di salute e cura a Vincennes non sorgono con il coronavirus, ma con lo stesso CRA. Rifiuto di cure, persone prigioniere malate o ferite che vengono lasciate nelle loro celle o messe in isolamento, la pratica comune di isolare i prigionieri per sparare loro e cercare di pacificare la situazione…la violenza della polizia e la violenza medica sono quotidiane nei CRA, e le infermiere e dottorx collaborano attivamente con le guardie per il mantenimento dell’ordine in prigione per le persone senza documenti, in modo che le persone prigioniere non si ribellino.

Non importa se una persona prigioniera è malata, ferita, se ha sofferenza mentale, se è stata picchiata dalle guardie: rimane rinchiusa e rischia sempre la deportazione. Molto prima del coronavirus, essere bloccati nel CRA significa rischiare di crepare. Il rischio diventa spesso realtà, come per Mohamed, morto a Vincennes nel novembre 2019.

Oggi, dopo la lotta condotta dai prigionieri tra domenica e lunedì, la situazione rimane orribile. Le persone prigioniere di Vincennes ci hanno inviato un elenco di problemi che la prefettura e le guardie si rifiutano di risolvere, aumentando il rischio per le persone detenute e rendendo il loro confinamento ancora più insopportabile.

1 / Non abbiamo una mascherina /

2 / Abbiamo bisogno di sapone e disinfettanti. /

3 / I contatti tra le persone non sono rispettati: non c’è un metro tra le persone. /

4 / Non abbiamo istruzioni da parte dei responsabili del centro./

5 / Ieri c’erano ancora nuovi arrivi./

6 / Ci sono persone che sono malate al centro: non c’è un’infermiera, arriva solo alle 9:00 e alle 15:00. Normalmente deve essere lì 24 ore al giorno e non c’è più un medico, c’è solo se c’è qualcosa di molto serio./

7 / Il personale dell’azienda privata non entra più nel centro: nessun cibo, nessuna bevanda, i distributori automatici non funzionano più./

8 / Le visite sono interrotte. Non è più possibile ricevere pacchi o indumenti dalla famiglia./

9 / Le persone non vengono più portate al tribunale, che è chiuso./

10 / C’è carne scaduta, pasti scaduti perché il camion che porta il cibo non arriva, mangiamo solo ciò che è rimasto nel congelatore ed è scaduto./

11 / Le persone non hanno più visitatori, quindi niente più soldi, quindi nessuna possibilità di acquistare carte per chiamare: non sappiamo se le nostre famiglie sono morte o vive, se stanno bene./

12 / Ci sono persone che hanno dei problemi mentali qui. Alcuni qui dentro sono infetti: una persona per esempio ha un’epatite B cronica con una terapia, un’altra ha problemi di cuore. Non si fa nulla.

Alcuni CRA sono in procinto di svuotarsi: bene. Ma essi non si svuotano completamente, e per le persone prigioniere che sono all’interno, va ancora più di merda: è importante restare solidali dall’esterno, continuare a far circolare le loro parole e i loro comunicati, sostenere le lotte che non terminano nelle prigioni per le persone senza documenti.

Fino a quando dell’ultimo CRA non resterà che un mucchio di rovine.