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“Dobbiamo bloccare durante l’ora d’aria!” Messaggi dax prigionierx di Francia in reazione al confino delle prigioni.

da https://lenvolee.net/il-faut-quon-bloque-en-promenade-messages-de-prisonniers-de-france-en-reaction-au-confinement-des-prisons/

Ieri, mercoledi’ 18 marzo, abbiamo dato delle informazioni sulle prime conseguenze del confino nell’articolo “Il covid-19: la prigione nella prigione” (Le Covid-19: la prison dans la prison). La prima misura di reclusione nazionale annunciata dal ministero dei tribunali e delle prigioni è stata in effetti quella di sospendere i colloqui ovunque sul territorio nazionale, sospendere le attività, limitare i movimenti in detenzione. Mentre all’esterno lavorator@ sono ancora esortat@ ad andare a lavoro per far girare l’economia; mentre le guardie entrano ed escono dalle prigioni ogni giorno; mentre siamo tuttx invitatx a rispettare dei “gesti barriera”… la prima decisione per le persone prigioniere già isolate è stata di rendere ancora più dura le loro condizione di isolamento. Niente più colloqui, ma altrettanta promiscuità in cella.

Ma non c’è che una soluzione all’altezza della situazione: svuotare le carceri.

Facciamo uscire qui diversi appelli ad agire diffusi sui social network tra il 18 e il 19 marzo dai prigionierx di diverse carceri nella regione parigina e in Francia.


Messaggio a tutti i prigionieri di Francia

Domani dobbiamo scendere tutti all’aria e bloccare. Se tutte le prigioni bloccano nello stesso momento, saranno costretti a fare qualcosa, non possono trasferire nessuno, e non possono entrare dentro il carcere per paura.

Il virus si diffonde, già siamo incarcerati, ci annullano i colloqui, non è possibile o accettabile allora mostriamogli il nostro dissenso.

Siamo solidali perché se non siamo noi a fare qualcosa, loro non faranno niente per noi. In televisione, non hanno neanche parlato di noi; per loro non siamo neanche dei cittadini, ma quando bisogna votare ci mandano la scheda elettorale in cella.


Blocchi oggi

Abbiamo paura di morire per il coronavirus, siamo traumatizzati… E rivogliamo i nostri colloqui o almeno un visitatore per detenuto.

Tutte le prigioni di Francia, tutte nell’ora d’aria oggi.


Durante la ronda delle 5, non aprite lo spioncino, tutti quelli che stanno in carcere.

Domani bisogna che tutti blocchino cazzo.

Come mai noi non abbiamo più i colloqui, non abbiamo il diritto di vedere le nostre famiglie, invece loro, tornano a casa la sera a vedere il loro marito, moglie, bambini, e poi il giorno dopo ci portano un bel po’ di coronavirus in galera?

Se siamo bloccati qui, bisogna che siano bloccati qui con noi questi stronzi di secondini

Niente colloqui = Niente fumo

Niente fumo = non siamo contenti

Detenuti scontenti = guerra aperta!!!


Fate girare dappertutto

Fai un annuncio sulla tua story perché tutte le prigioni di Francia blocchino le passeggiate finché lo stato conceda un colloquio alla settimana minimo.

Siamo insieme

A tutti i fratelli in prigione: a partire da giovedì 19 marzo, bisogna che blocchiamo durante l’ora d’aria e tutti i giorni finché lo stato accetta di darci almeno un colloquio alla settimana. Bisogna che ci facciamo sentire e chi dirige sta più in alto dell’amministrazione penitenziaria, è lo stato che dirige. Bisogna fare rumore, ci dice che dura 15 giorni quando sanno benissimo che durerà diversi mesi. Ci tolgono la sola libertà che ci resta: la visita della nostra famiglia. Per i fratelli in prigione, diffondete l’informazione: bisogna bloccare le passeggiate a partire dal 19 marzo. Grazie, e non dimenticatevelo: l’unione fa la forza, insieme ci riusciremo.


Non parlano dei detenuti, con la sporcizia delle prigioni, il virus non se ne andrà cosi’. Sono tutti insieme isolati. Si, si, è pericoloso per i fratelli e le sorelle rinchiusi/e… Bisogna che ci sia un cazzo di sindacato o non so cosa, che facciano qualcosa.

Liberate un po’ le prigioni da questo sovraffollamento carcerario!

Per prima cosa vogliamo che i secondini siano controllati a ogni ingresso in prigione, perché ci fa paura; ne parlavamo tutti giù. Almeno la febbre, prima di ogni ingresso in carcere; perché sono loro che ce lo trasmetteranno. Tutti quelli che entrano in prigione, anche loro che vengano controllati all’ingresso, con un registro… e che sblocchino i colloqui almeno! E se davvero, per ragioni sanitarie, non possono sbloccarli, che diano del sapone a tutti quanti… che trovino una soluzione. Perché vegliamo vedere le nostre famiglie, ci sono i nostri panni da lavare… ci sono tante cose da fare, in effetti. Fategli vedere [i video]! Perché non va bene, quello che hanno fatto ieri, le Elac [le équipe locali di rinforzo e controllo]! E alla fine, ora, hanno fatto dei trasferimenti punitivi, in piena notte, hanno pestato dei ragazzi. Li hanno inc… nelle loro celle… Lascia stare, sono dei bastardi!

Il coronavirus nel Pianeta Azienda Agricola

La probabile iniziale diffusione del coronavirus in uno dei tanti “mercati umidi” in Cina, luoghi dove si vendono e/o macellano animali selvatici vivi per il consumo alimentare, non è una novità nella recente storia delle epidemie: “Si pensa che almeno il 60% delle malattie contagiose umane abbia origine nell’organismo di qualche specie animale. Polli, maiali, topi, cavalli, scimmie, pipistrelli, zibetti, dromedari e altre specie ancora, selvatiche o domestiche, sono infatti un serbatoio biologico di virus e altri agenti patogeni che possono diventare pericolosi anche per noi” [1]. Questa diffusione non avviene in un contesto neutro ma il “salto di specie” dei virus opera nell’ambito di un sistema di produzione fondato sugli allevamenti intensivi, l’esportazione di questi animali in regioni geografiche molto lontane, la deforestazione e così via: “Invadiamo le foreste tropicali e altre aree selvagge, che ospitano numerose specie di piante e animali, e con loro molti virus sconosciuti. Tagliamo gli alberi, uccidiamo gli animali o li mettiamo in gabbia per venderli al mercato. Distruggiamo gli ecosistemi e priviamo i virus dei loro ospiti naturali. Quando questo accade, ai virus serve un nuovo ospite. Spesso siamo noi», ha scritto sul New York Times David Quammen, autore del più affascinante saggio sulle epidemie, Spillover (Adelphi, 2014) [2].
Rob Wallace, autore del libro “Big Farms Make Big Flu”, afferma che “Il vero pericolo di ogni nuovo focolaio è il fallimento o, per dirla meglio, il rifiuto di comprendere che ogni nuovo caso di Covid-19 non è un incidente isolato. L’aumento dell’incidenza dei virus è strettamente legato alla produzione alimentare e ai profitti delle multinazionali. Chiunque voglia comprendere come mai i virus stanno diventando più pericolosi deve indagare il modello industriale dell’agricoltura e in particolare la produzione del bestiame”[3]. A questo proposito sembra che praticamente nessuno abbia voglia di comprendere come i virus siano pericolosi e le pandemie difficili da affrontare con misure poliziesche di repressione e di contenimento di circolazione e libertà individuali. Nel dibattito attuale sul coronavirus spicca l’assenza di questo grande rimosso della discussione politica, anche di quella più alternativa e anticapitalista. “In particolare la produzione di bestiame”, ricorda Wallace, è il punto centrale di un sistema che genera possibili epidemie: sarebbe difficile pensare che possa accadere il contrario, vista l’enormità di uno sfruttamento così intensivo, spietato e globale che ogni minuto massacra milioni di esseri viventi, devasta ettari su ettari di terreni, tutto per il profitto di poche aziende capitalistiche. Sempre Wallace ci ricorda come “Il pianeta Terra è ormai diventato il Pianeta Azienda Agricola, sia per biomassa che per porzione di terra utilizzate. L’agroindustria sta puntando a mettere all’angolo il mercato alimentare. La quasi totalità del progetto neoliberale è basata sul supportare i tentativi da parte di aziende provenienti dai paesi più industrializzati di espropriare terreni e risorse dei paesi più deboli. Come risultato, molti di questi nuovi agenti patogeni precedentemente tenuti sotto controllo dagli ecosistemi a lunga evoluzione delle foreste stanno venendo liberati, minacciando il mondo intero”.
In questo scenario, che pure possiamo chiamare “antropocene” o più semplicemente alla vecchia maniera “capitalismo”, il rimosso della questione dello sfruttamento animale, cacciato via dalla porta delle analisi critiche di sinistra, ritorna dalla finestra. Ammassare milioni di animali in pochi metri quadrati in un capannone, mutilarli e poi inscatolarli e venderli sul mercato magari come “piatti ricchi di cultura che raccontano il territorio” è un processo tanto normalizzato quanto è impensabile ritenere che non possa riportarci delle conseguenze anche nelle nostre comode e civilizzate abitazioni occidentali metropolitane. Impensabile che non ci sia un prezzo da pagare, questa volta in termini di pandemia, oppure “semplicemente” delle conseguenze provocate dall’inquinamento ambientale. Il tempo del negazionismo non è ancora finito, si continua a rimuovere il problema, catalogando le “abitudini alimentari” come una mera questione di consumo, quindi secondaria rispetto al problema della produzione.
I compagni marxisti ci ripetono che il consumo etico, in questo caso il rifiuto di mangiare gli animali, non sarebbe una risoluzione del problema: certo, ci sono anche altri modi per combattere l’industria agroalimentare, sarebbe bello vederli praticati a livello diffuso e con una adeguata riflessione politica. Sembra non essere ancora il tempo, nel mezzo di una pandemia causata ancora una volta dal dominio umano esercitato sulle altre specie presenti sul “Pianeta Azienda Agricola”, come dice con amara ironia Wallace. Aspettiamo un altro vaccino che copra solo temporaneamente questa nuova malattia, ce ne saranno altre ancora ma non sembra che si voglia nemmeno lontanamente risolvere il problema a livello strutturale. Anche la denuncia del criminale e progressivo smantellamento del sistema sanitario nazionale non è sufficiente a un deciso cambio di rotta, perché il modello di scienza medica è sempre subalterno al primato del profitto e dell’industria, ragion per cui la gestione di ogni emergenza è ugualmente succube a questo dominio indiscusso e indiscutibile; se così non fosse ci si aspetterebbe – e si pretenderebbe – che le alte sfere istituzionali che governano lo Stato italiano si prendessero carico almeno con qualche credibilità degli oltre 80.000 decessi annui provocati dall’inquinamento atmosferico, per dirne una soltanto, tanto più che non si riesce nemmeno a smontare quell’enorme carrozzone mortifero che è l’ex ILVA di Taranto.
Mentre si moriva a decine per tumore nel rione Tamburi della cittadina pugliese, non risulta che fosse proclamata nessuna “zona rossa” per contenere la strage, e così in tanti altri simili casi diffusi per tutto il Belpaese. Continuiamo a leggere appelli all’unità e alla coesione, hashtag che ci dicono che #andratuttobene ma una volta finita questa emergenza non ci sarà nulla che potrà mai continuare ad andare bene, nemmeno nell’idillico scenario di un Sanders al potere negli USA, nemmeno se i partiti socialisti e di sinistra si mettessero alla guida di tutti i governi del mondo: se infatti l’idea “realistica” è quella della redistribuzione di una parte della ricchezza tra le porzioni subalterne della società, l’unico panorama che ci si prospetta è quello palliativo del consolidamento del potere e delle istituzioni di un sistema la cui unica razionalità è quella della generazione di profitto. Non è il momento storico delle socialdemocrazie al potere, ma anche se lo fosse, non cambierebbe un bel niente, avremmo lo stesso la sovvenzione all’industria agroalimentare per lo sforamento delle “quote latte”, la pubblicità in Tv del Parmareggio e del Pollo Amadori, la distruzione del pianeta terra e il soffocamento della specie umana mentre sta sterminando tutte le altre.

lino caetani

[1] Come nasce un’epidemia https://oggiscienza.it/2020/02/07/come-nasce-epidemia/

[2] Ibidem

[3] Da dove è arrivato il Coronavirus, e dove ci porterà? Un’intervista con Rob Wallace, autore di “Big Farms Make Big Flu”

https://www.infoaut.org/approfondimenti/da-dove-e-arrivato-il-coronavirus-e-dove-ci-portera?fbclid=IwAR2VjFH1Mc28Mv3FbgEfTm83hRhpNe9LrGsg_DdwcoZ9RETizhTawFBNT14#.Xm9gFQHhPxE.facebook

Contro la paura e il controllo scoppia la rivolta nelle carceri italiane

da https://mars-infos.org/contre-la-peur-et-le-controle-la-4876

Per ritornare sulla rivolta in corso nelle carceri italiane

Dopo diverse settimane la gestione d’emergenza dell’epidemia di coronavirus si è estesa a tutta l’Italia, partendo dalla creazione di zone rosse sempre più vaste situate sopratutto nel nord. Qui il governo ha testato poco a poco misure sempre più radicali di restrizione della libertà: interdizione di eventi e manifestazioni pubbliche, di manifestazioni religiose e civili (compresi i funerali), chiusura dei cinema, delle palestre e dei supermercati, coprifuoco per i bar, nessun ricovero negli ospedali pubblici salvo che per i casi urgenti, chiusura delle scuole e delle università. Col pretesto di proteggere meglio la popolazione e impedire il contagio, tutte le forme di socialità sono state limitate o completamente vietate per legge.

L’8 Marzo il presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte firma l’ennesimo decreto che vieta tutte le manifestazioni pubbliche o gli assembramenti e tutti gli spostamenti in entrata o in uscita e all’interno della Lombardia e delle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro et Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia. Se l’isolamento e il controllo diventano via via più duri all’esterno, la situazione si fa insopportabile all’interno delle carceri dove, già da due settimane, i colloqui e le attività complementari (lavoro, socialità, permessi…) sono interrotti fino a nuovo ordine, col pretesto di contrastare meglio il contagio nelle prigioni, sopratutto per proteggere i secondini. Col decreto dell’8 marzo, l’interdizione è generalizzata: stop ai colloqui, niente semilibertà né permessi speciali, tutto ciò fino al 31 maggio. L’interdizione dei colloqui, che già normalmente si svolgono nello stress, con le code davanti alle prigioni nell’attesa di poter rientrare e sottomettersi all’umiliazione della perquisizione, significa la privazione di ogni forma di contatto con l’esterno e una condizione di isolamento quasi totale. Ciò significa anche la privazione della possibilità di avere accesso a prodotti e beni di base (cibo, vestiti, soldi…) che sono di importanza fondamentale per la vita in carcere. Questa misura nelle ore che seguono al suo annuncio risveglia la rabbia dei detenutx e dei loro parenti.

Le prime rivolte di fronte a questa situazione scoppiano nella serata di sabato 7, alla diffusione pubblica della versione integrale del decreto in corso di convalida. È a Salerno e Napoli, nelle due carceri della città, Secondigliano e Poggioreale, che i detenutx salgono sui tetti e delle intere sezioni sono distrutte. La risposta delle istituzioni penitenziarie arriva con la chiusura dell’acqua, dell’elettricità e l’intervento in massa di forze dell’ordine e la violenza della polizia.

Fuori dalle prigioni nel frattempo arrivano i familiari e i solidali, per gridare la loro solidarietà ai prigionierx in lotta e bloccare la strada affinché la loro voce sia ascoltata. La rivolta si espande molto velocemente, nella serata di domenica 8 si contano 20 prigioni in rivolta, poi 27 nella notte, più di 30 nella giornata di lunedì 9. Davanti a ciascuna delle prigioni insorte gruppi di familiari e persone solidali si raggruppano, dappertutto si vede levarsi il fumo e arrivano le grida “Libertà!Amnistia!”. Gli elicotteri sorvolano gli edifici in fiamme, fin quando in diverse prigioni le squadre antisommossa e i GOM (equivalenti delle ERIS) si preparano a entrare e ristabilire l’ordine a colpi di manganello.

Nella prigione di Sant’Anna, a Modena, nel centro-Italia, la sommossa comincia domenica nel primo pomeriggio. Secondo le informazioni che arrivano dall’interno, i detenutx si sarebbero barricati e avrebbero incendiato diversi edifici, obbligando il personale (guardie e infermieri) a uscire. Si sente dire che l’ufficio di immatricolazione è stato incendiato… Poi la repressione arriva ed è tra le più violente. I parenti riuniti davanti alla prigione raccontano di aver visto le guardie condurre fuori dei detenutx ammanettati colpendoli e di aver sentito degli spari. Ottanta detenutx sono trasferitx, numerosi altri condottx all’ospedale, di cui molti in rianimazione. Secondo le ultime notizie sette o più probabilmente otto detenuti avrebbero perso la vita durante la sommossa o dopo il loro trasferimento. Secondo la stampa ufficiale si tratterebbe di “overdose” di farmaci che i prigionieri avrebbero rubato in un assalto all’infermeria durante la rivolta. Due altri prigionieri sarebbero morti per la stessa ragione nel carcere di Verona (Veneto) e Alessandria (Piemonte) il 9 e altri tre il 10 mattina nella prigione di Rieti. Si avverte bene la paura dei giornalisti benpensanti, che cercano di screditare le rivolte all’interno senza riportare le rivendicazioni politiche dei prigionierx: amnistia e libertà per tuttx.

Ma più la stampa borghese e lo Stato tentano di soffiare sul fuoco della rivolta per spegnerlo, più esso si espande nelle altre regioni. A Pavia la sera del 7 dei prigionierx in rivolta riescono a prendere le chiavi ai secondini e a liberare gli altri detenutx, poi a prendere in ostaggio un secondino e il comandante della polizia penitenziaria. Anche qui i rivoltosi appiccano il fuoco. In ogni nuova rivolta dei prigionierx tentano di evadere e qualche volta perfino ci riescono, per esempio a Palermo, a Frosinone e a Foggia, dove 70 persone scappano e l’intervento dei militari non può nulla: 20 persone sono riacchiappate ma 50 sono ancora in libertà, gli si augura buona fortuna.

Le cifre che iniziano a circolare parlano di 300 detenutx evasx di cui solamente una trentina ripresi.

Da sud a nord le prigioni non smettono di bruciare, lunedì mattina è il turno di Milano, Bologna, Lecce e molte altre. Il governo ha dichiarato tutta l’Italia “zona rossa” e continua il silenzio della direzione dell’Amministrazione Penitenziaria. La repressione avanza ma la solidarietà dall’esterno non si lascia scoraggiare: in molte città, davanti alle prigioni, parenti e solidali gridano il loro incoraggiamento e bloccano le strade per impedire gli spostamenti di secondini e militari. A Bologna i detenutx prendono il controllo della prigione, mentre le forze dell’ordine tentano di disperdere i solidali che manifestano in massa all’esterno. A Melfi (Basilicata), gli insortx tengono in ostaggio un gruppo di secondini. A Milano, dopo San Vittore, è il turno delle prigioni di Opera e Bollate, a Roma dopo la prigione di Rebibbia la rivolta esplode a Regina Coeli. Di fronte a queste resistenze la repressione si accanisce.

Noi non abbiamo bisogno di fare delle analisi delle rivolte in corso, esse parlano da sole riguardo al crollo di un sistema che imprigiona e controlla con la paura e la minaccia. Noi dobbiamo e vogliamo essere davanti a tutte le carceri per sostenere gli insortx e i loro parenti, perché di questi luoghi non restino che ceneri.

Fuoco alle galere!

Qui sotto una lista non esaustiva delle prigioni in rivolta:

Salerno (Campania)
Napoli (Campania)
Cassino e Frosinone (Lazio)
Carinola (Campania)
Frosinone (Lazio) + evasioni
Modena – 8 detenuti morti
Poggioreale – Napoli
Secondigliano – Napoli
Vercelli (Piemonte)
Rebibbia – Roma
Bari (Puglia)
Alessandria (Piemonte) – 1 detenuto morto
Palerme (Sicilia) + evasioni
Brindisi (Puglia)
Ariano Irpino (Campania)
Cremona (Lombardia)
Pavia (Lombardia)
Genova (Liguria)
Reggio Emilia (Emilia Romagna)
Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia)
Trani (Sicilia)
Augusta (Sicilia)
Foggia – (Puglia) + evasioni
Verona – (Veneto) 1 detenuto morto
San Vittore – Milan (Lombardie)
Bergamo (Lombardia)
Matera (Basilicata)
La Spezia (Liguria)
Larino (Molise)
Lecce (Puglia)
Rieti (Lazio) – 3 detenuti morti
Vallette (Piemonte)
Dozza – Bologna (Emilia Romagna)
Santa Maria Capua Vetere (Campania)
Opera – Milano (Lombardia)
Bollate – Milano (Lombardia)
Regina Coeli – Roma

Fare come in Rojava. In ricordo di Ennio Carbone

Era la mattina dell’otto marzo ed ero arrivato puntuale all’appuntamento nei pressi della stazione, ma non vedevo ancora nessun* avvicinarsi per l’inizio del corteo. Forse ero addirittura in anticipo, forse era la solita nostra abitudine “compagnesca” a far partire sempre le cose in ritardo, comunque speravo di vedere un po’ di gente per quello che era un corteo a cui tenevo tantissimo. Mi guardo un po’ in giro e finalmente vedo un volto amico: a venirmi incontro è Ennio, che mi stringe la mano con la consueta forza e comincia subito a parlarmi in maniera diretta e con determinazione. Ricordo bene quello che mi disse, mentre facevamo dei discorsi generici sul movimento, sulla lotta delle donne e sull’otto marzo. Tre cose che ci insegna il Rojava: autogestione, femminismo, ambientalismo. Questo è il futuro delle lotte e del movimento, mi disse Ennio, completando il suo ragionamento risoluto con gesti secchi a ribadire quanto affermato con convinzione. Io ero partito a discutere con qualche timida lamentela e una visione un poco più pessimistica, figlia delle mille polemiche e scazzi vissuti negli ultimi mesi e forse anche della preoccupazione di non vedere molta gente al corteo che sarebbe dovuto partire a breve. Per questo motivo la sicurezza di Ennio nell’individuare i fronti di lotta da portare avanti mi colpì molto, anche perché effettivamente, pensai, dal Rojava ci stava venendo un insegnamento pratico e non solo teorico che andava approfondito con grande rispetto e attenzione. Passano i minuti e vediamo che ci sono nella piazza altri piccoli gruppi di persone venute per il corteo, studentesse dei licei per lo più, poi arrivano altre compagne e poco dopo finalmente si può partire. La mattinata va alla grande, la manifestazione indetta da “Non Una di Meno” non solo è partecipata ma risulta anche combattiva, allegra e determinata, con decine di ragazze che urlano slogan femministi bloccando anche il traffico del centro cittadino di Salerno. Vedo Ennio davvero contento che si complimenta con le compagne che hanno organizzato la giornata, anche io sono felicissimo e trovo nel suo compiacimento la continuazione di quel discorso che mi aveva fatto su femminismo e autogestione. Quando qualche giorno fa ho appreso con sgomento che Ennio era stato colpito da una grave e rapida malattia che in breve lo ha portato alla morte, mi è venuto subito in mente questo episodio, per come ho avuto la fortuna di conoscere un compagno così forte, determinato, che ti trasmetteva grande fiducia. Ricordo anche quando eravamo nello stesso spezzone del corteo contro i “decreti sicurezza” ed Ennio fece partire un coro straordinario: “Il potere deve essere abolito!”. Fuori di ogni retorica, in queste giornate così drammatiche per chi è debole e ultim*, come chi è reclus* nelle carceri o non ha i documenti per stare in questo paese razzista, penso a Ennio e alla sua lucidità nel vivere una vita intera che ha attraversato decenni di lotte e di movimenti sempre da anarchico, sempre contro lo Stato e per l’autorganizzazione di chi è sfruttat*. Una lucidità di cui avremmo bisogno ancor di più oggi quando lo Stato, nella sua criminale continuità storica portata avanti in questo paese, dalla dittatura fascista alla “Repubblica fondata sul lavoro”, compie le sue peggiori stragi nelle galere con i prigionieri minacciati dal contagio del coronavirus. Ennio mi sollecitava spesso a tenerlo aggiornato su quello che facevamo e scrivevamo sulle pagine de “la piega”, sempre interessato a seguire tutti gli argomenti che coincidevano con le sue passioni, dall’anti-psichiatria al transfemminismo, dalla lotta alle carceri alla rivoluzione del confederalismo democratico. Per questo motivo nel nostro piccolo continueremo a scrivere e a lottare anche per lui, per rendere vivo nelle lotte il suo ricordo: nel nome di un anarchico, di un compagno, un amico che ha vissuto una buona vita, con un immenso amore per la libertà.

l.c.

La sconfitta del Labour – Riflessioni sul socialismo democratico

Fonte: https://libcom.org/blog/labour-defeat-thoughts-democratic-socialism-21122019

di AngryWorkersWorld’s blog

Il “socialismo democratico” è attualmente il principale modello alternativo nel progetto di una trasformazione del capitalismo e quindi, in quanto tale, dobbiamo prenderlo sul serio, nonostante il nostro profondo disaccordo con esso. Con socialismo democratico intendiamo l’idea che usando le due gambe del movimento operaio organizzato – i sindacati e un partito socialista al governo – possiamo camminare passo dopo passo verso il socialismo. Il socialismo è definito come una società dominata dalla proprietà nazionalizzata o cooperativa dei mezzi di produzione e della rappresentanza dei lavoratori e delle lavoratrici quando si tratta della gestione di queste unità economiche. La strategia generale del socialismo democratico può essere sintetizzata brevemente.

L’idea è quella di fare una campagna per la vittoria elettorale di un partito socialista basato su un programma economico di parziale ri-nazionalizzazione di un numero limitato di settori chiave e sulla creazione di un settore più ampio di “economia solidale” formato da società cooperative o municipali che possano garantire una partecipazione più decentralizzata di lavoratori e lavoratrici. Insieme alle attività elettoralistiche, i socialisti democratici incoraggiano il sostegno della classe lavoratrice o delle organizzazioni dei “movimenti sociali” al di fuori del parlamento, al fine di disporre di una base di potere economico per esercitare pressione sia sul capitale che sul governo. Una volta che il partito è al potere, la strategia deve creare una dinamica tra a) cambiamenti istituzionali strutturali decretati dal governo che crei più spazio per la partecipazione delle organizzazioni della classe operaia (le cosiddette riforme non riformiste) e b) pressioni dal basso per difendere ed estendere questi spazi. Un esempio potrebbe essere quello di attuare riforme del settore bancario, che limitino la portata della speculazione finanziaria e dell’elusione fiscale e allo stesso tempo offrano un trattamento preferenziale alle “imprese di proprietà comune” quando si tratta di crediti commerciali. Mentre ciò accade a livello governativo, i sindacati delle aziende che potrebbero tentare di minare la riforma minacciando di disinvestire dovranno aumentare la pressione sulla gestione. I miglioramenti materiali della vita dei lavoratori e delle lavoratrici e il rafforzamento dei sindacati dovrebbero creare una maggiore unificazione all’interno della classe lavoratrice – una sorta di trampolino verso il socialismo.

Ci sono due cuori pulsanti in questo progetto. Vediamo moltx compagnx, stufx dell’isolamento sociale della cosiddetta “politica rivoluzionaria”, attrattx dai dibattiti pratici e strategici del progetto socialista democratico, che possono essere intellettualmente stimolanti. Questx compagnx possono provenire da organizzazioni anarchiche classiche o comunque “rivoluzionarie” o possono essere statx politicizzatx durante [la militanza] nei “movimenti sociali” orizzontali ma inefficaci e spesso autoreferenziali dell’era anti-globalizzazione o di Occupy. Comprendiamo la voglia di questx compagnx di “fare la differenza” e di pensare a passi a breve, medio e lungo termine verso il cambiamento sociale. Possiamo vedere molte persone della classe operaia che percepiscono i limiti dell’attività sindacale e che sperano che il Labour al governo possa trasformare i sindacati in potenti organizzazioni dei lavoratori. Vogliamo parlare al cuore di questx compagnx. Altra cosa è la solita palude fatta di politicanti all’interno di queste organizzazioni, dai DSA a Podemos al Labour di Corbyn, dove ci sono i soliti scontri e giochi di potere.

La direzione del progetto socialista democratico nel Regno Unito non è determinata principalmente dalle sue prospettive politiche, ma dalla sua composizione di classe. La nuova sinistra laburista è composta da tre forze principali: un settore di professionisti ambiziosi (anche precari) che sentono che secondo il loro stato di istruzione dovrebbero avere più voce in capitolo nella società. Vogliono anche una buona vita per “la classe lavoratrice”, ma il loro approccio è tecnocratico: persone istruite ed esperti progressisti dovrebbero decidere come vanno le cose, non i banchieri e l’élite parassitaria. Formano un’alleanza con la seconda forza principale, la burocrazia sindacale. L’apparato sindacale consente ai nuovi professionisti di parlare in nome dei lavoratori e delle lavoratrici e i capi sindacali possono estendere il loro potere nella classe politica. Il terzo elemento sono le parti più emarginate della classe lavoratrice che hanno dovuto subire anni di tagli e sanzioni. Il Labour guidato da Corbyn ha dato loro speranza, ma la macchina del partito finirà per strumentalizzare il loro status di vittime.

Potremmo scrivere un lungo elenco di punti di disillusione per il Corbinismo, che hanno avuto luogo anche prima del disastro elettorale. Il secondo leader dell’ala “di sinistra dura” del partito, John McDonnell, si sentì obbligato a sdoganare pubblicamente il criminale di guerra Tony Blair. Le persone che hanno votato con Blair per invadere l’Iraq sono presentate e ospitate come “candidati di sinistra”, come il deputato David Lammy. Gli attivisti alla conferenza del partito del 2017 hanno appreso che Momentum [l’organizzazione laburista che racchiude la sinistra del partito ascesa alla guida del Labour con Jeremy Corbyn NdR] poteva essere usato come braccio disciplinare, impedendo che i delegati votassero su questioni controverse, come il referendum sulla Brexit. Le attività nelle sezioni locali di partito sono in gran parte dominate da giochi di potere meschini e da formalità noiose.

Durante l’inverno 2019/20 si è scoperto che l’unica cosa che il Corbinismo è stato in grado di ri-nazionalizzare è la sinistra del partito. Mentre assistevamo a una delle più grandi ondate di proteste della classe lavoratrice – dall’Ecuador al Cile, dal Sudan all’Iran – la sinistra nel Regno Unito era completamente concentrata su tutto ciò che Corbyn o Johnson stavano dicendo in TV. La ristretta visione nazionalista sarebbe peggiorata se i laburisti fossero entrati nel governo: un socialista democratico avrebbe sostenuto mobilitazioni indisciplinate della classe lavoratrice, come i gilet gialli o le proteste in Iran, sotto un nuovo e fragile governo laburista? Possiamo provare ad adornare il “Corbinismo” con ogni tipo di armamentario dall’aspetto radicale e pensare nuovi meme, dal “corbinismo acido” al “vero comunismo di lusso” – ma alla fine abbiamo solo un partito che ci promette un aumento minimo del salario, banda larga gratuita e leggermente meno austerità. Ma il nostro obiettivo qui non è discutere di visioni utopiche, ma sottolineare le carenze interne di questa strategia politica.

1) Quella attuale non è una fase storica favorevole alla socialdemocrazia

Storicamente, la socialdemocrazia si è sviluppata durante le fasi di ripresa economica, basata su una capacità di produzione industriale nazionale relativamente forte. Ciò che affrontiamo ora è una crisi economica e un sistema di produzione internazionalizzato. Ciò limita sia l’ambito delle concessioni materiali sia le politiche economiche nazionali. In secondo luogo, la socialdemocrazia divenne principalmente egemonica nelle situazioni post-rivoluzionarie. La socialdemocrazia si basava su grandi organizzazioni all’interno della classe lavoratrice e su una classe dominante che consentiva la rappresentanza politica dei lavoratori e delle lavoratrici al fine di evitare tensioni rivoluzionarie. I comunisti di sinistra non si stancano mai di ripetere che l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale non è stata il risultato del riformismo del partito laburista, ma della contro-insurrezione dei Tory nella guerra fredda – per evitare il malcontento sociale su larga scala dopo la guerra. Ancora una volta, questa non è la situazione in cui ci troviamo oggi. Il punto principale che dobbiamo sottolineare è: affrontiamo condizioni di lotta più dure rispetto a quelle cui il socialismo democratico ci prepara. Non possiamo ignorare gli scontri quotidiani con i padroni e i loro violenti lacchè. Il socialismo democratico tende a enfatizzare eccessivamente l’autonomia della politica del governo. Nel Regno Unito la sinistra laburista ritrae il governo Thatcher e le sue “politiche malvagie” come la fonte del neoliberismo malvagio, mentre fu la crisi globale a metà degli anni ’70 che costrinse tutti i governi ad attaccare la classe lavoratrice. Non puoi votare per uscire da una cosa del genere.

2) Il socialismo democratico attuale ignora il carattere capitalista dello Stato

Le strategie socialiste democratiche si basano sul presupposto che lo stato sia al di sopra del “capitalismo” e possa quindi intervenire in esso come una forma politicamente neutra. Storicamente lo stato è emerso come il braccio violento per imporre e garantire relazioni di classe, ad esempio attraverso la definizione della proprietà privata, le leggi sui vagabondi e l’espansione militare dei mercati. Lo stato appare come una forza neutrale che è lì solo per occuparsi della legge e dell’ordine e della più ampia organizzazione della società. Ma la legge e l’ordine significano principalmente che le relazioni di proprietà che sono la base materiale per lo sfruttamento della classe lavoratrice vengono mantenute. Rendendoci cittadini, lo stato ci disarma come forza collettiva di classe. La politica statale separa la sfera della produzione sociale dalla sfera del processo decisionale sociale – dovremmo produrre il mondo, ma a parte dare un voto ogni quattro anni non abbiamo voce in capitolo su come è gestito il mondo. Materialmente l’apparato statale dipende dallo sfruttamento continuo ottenuto sia attraverso la tassazione che con il lavoro salariato.

3) Il socialismo democratico attuale fraintende il rapporto tra mercato e capitalismo

I socialisti democratici pensano che il passaggio dalla proprietà privata a quella pubblica (statale) sarà l’antidoto al capitalismo. Non vedono quindi alcuna contraddizione tra un “grande stato” e il socialismo, nonostante il fatto che l’intervento dello stato – indipendentemente da dove si trovi nello spettro politico – abbia sempre svolto il ruolo fondamentale nell’espansione, applicazione e difesa del mercato. Lo stesso processo di industrializzazione richiedeva la proprietà statale e la pianificazione economica centrale, ultimo ma non meno importante elemento per far rispettare l’ordine contro la classe lavoratrice industriale emergente. Durante questa fase non importava se la sinistra o la destra fossero al governo – la situazione sociale richiedeva una pianificazione statale su larga scala e non era una scelta politica. Inoltre, l’idea che le cooperative e la proprietà nazionale (statale) vadano di pari passo non è verificata dalla storia: il grande declino delle cooperative nel Regno Unito non è avvenuto sotto Thatcher, ma durante l’ascesa della pianificazione economica nazionale e della concentrazione nella produzione del settore durante un governo laburista degli anni ’60. La competizione tra aziende – la forma del mercato – o la formazione di monopoli è solo un’apparenza superficiale delle relazioni di classe sottostanti. Quindi non basterebbe solo “distruggere i monopoli”. È necessario un cambiamento ancora più fondamentale. Possiamo vederlo quando le relazioni di classe sono in crisi, quando i lavoratori e le lavoratrici organizzano scioperi di massa e scendono in strada. Lo stato, non importa se sia di destra o di sinistra, non ha problemi a sospendere il “libero mercato” in queste situazioni per reprimere e mantenere la società di classe. Ad esempio, dopo lo shock petrolifero degli anni ’70, non era in contraddizione che il governo di Indira Gandhi nazionalizzasse il settore minerario e bancario al fine di prevenire il collasso economico, nominasse il “socialismo” nella costituzione indiana, ottenesse il sostegno del Partito comunista e lanciasse contemporaneamente l’attacco più brutale contro gli scioperi dei ferrovieri e altri ribelli della classe operaia durante lo stato di emergenza.

4) Il socialismo democratico in pratica esorcizza la debolezza strutturale della classe lavoratrice concentrandosi sui professionisti

Gli attuali sostenitori del socialismo democratico sanno che la lotta di classe è a un basso livello, ma invece di concentrarsi sulla costruzione di nuclei organizzati all’interno della classe, si concentrano in gran parte sul reclutamento di professionisti e “attivisti”. Mentre precedenti sconvolgimenti rivoluzionari come il 1968 hanno messo in dubbio il ruolo dell'”intellettuale esperto”, l’attuale generazione lo celebra. Questo è molto ovvio per partiti come Podemos o Syriza, ma vale anche per la ripresa del Labour: la maggior parte dei nuovi membri del partito ha un’istruzione superiore e vive in aree metropolitane. Materialmente la nuova intellighenzia di sinistra si riproduce come il “l’individuo neoliberista” che finge di criticare: quasi nessuno di loro è un “intellettuale organico” forgiato nell’esistenza e nella lotta della classe operaia, la maggior parte sopravvive creando un’immagine social e accademica la cui opinione è valutata sul mercato. Sia che tu legga i “Modelli alternativi di proprietà” dai consiglieri del partito laburista, il “luxury communism” di Bastani o “Inventing the Future” di Srnicek, il soggetto principale è sempre la figura dell’attivista ben istruito e connesso in rete. Sfortunatamente questo costringe i nostri compagni socialisti democratici intellettuali a inseguire la propria stessa retroguardia. C’è un grande spazio vuoto quando si tratta della domanda su come le loro idee ben intenzionate verranno applicate e implementate. Chi imporrà la partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici se sono viste come persone che sono in grado di impegnarsi in un discorso politico solo durante le elezioni? L’assenza di una strategia radicata nella classe lavoratrice porta quindi alla creazione di un’icona banale e kitsch del “popolo” – una massa di vittime oneste che hanno bisogno di appartenenza culturale e leadership politica.

5) La comprensione del socialismo democratico della “partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici” è formale e dunque imperfetta

Critichiamo i pensatori socialisti per aver visto la pianificazione statale essenzialmente opposta al capitalismo, sebbene di fronte alla storia la maggior parte di loro si affretterebbe ad aggiungere che la nazionalizzazione e la pianificazione devono andare di pari passo con la “democratizzazione dell’economia”. Il problema è che la loro comprensione della “partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici” è in gran parte formale, ad es. proposta sotto forma di quote dei lavoratori e delle lavoratrici nelle imprese, delegati sindacali nei consigli di amministrazione o diritto di voto quando si tratta di decisioni di gestione. Il suddetto background di classe di molti dei nuovi intellettuali socialisti contribuisce anche alla comprensione limitata – o alla reale traiettoria – di ciò che il controllo dei lavoratori e lavoratrici richiederebbe. La loro comprensione della classe è ampiamente economicistica – definita dal fatto che tutti i lavoratori dipendono dai salari. Questa comprensione della classe non si concentra sulla forma effettiva del processo di produzione e sulla sua divisione gerarchica del lavoro (lavoratori e lavoratrici intellettuali e manuali, lavoro produttivo e riproduttivo ecc.). Nelle loro politiche, la loro comprensione della “proprietà” dei mezzi di produzione e della “partecipazione democratica” dei lavoratori è formale. Solo perché i lavoratori e le lavoratrici o i sindacati detengono il 50% o il 100% delle azioni non significa molto. Se i lavoratori e le lavoratrici sono ancora costrette a sgobbare tutto il giorno, eseguendo solo una quantità limitata di compiti, questo non permetterà loro di comprendere, e quindi dire, come un’azienda o un settore sono effettivamente gestiti. Puoi dare loro un voto in un consiglio di amministrazione dell’azienda, ma saranno coloro che avranno una visione più ampia e più tempo – a causa del loro status professionale di intellettuali (ingegneri, scienziati ecc.) – che prenderanno le decisioni. Il “voto” sarà ridotto a un processo feticistico per confermare il monopolio delle conoscenze degli esperti. Come abbiamo visto nella storia, i lavoratori e le lavoratrici sopravvivono alle peggiori sconfitte inflitte dal nemico di classe. Ma i traumi più profondi e duraturi vengono inflitti quando l’oppressione e lo sfruttamento vengono attuati a loro nome – lo “stato operaio” del regime stalinista non apparteneva formalmente anche ai lavoratori e alle lavoratrici? Un semplice cambiamento nel governo o un passaggio dalla proprietà privata a quella statale non toccherebbe il nucleo di ciò che definisce la “classe lavoratrice”, il suo potere o la mancanza di potere.

6) I sindacati e il partito dei lavoratori non sono la classe operaia

La prospettiva socialista democratica si basa sull’idea di una trasmissione tra la classe lavoratrice e lo stato attraverso l’interazione delle due principali “organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici” – il partito parlamentare e i sindacati. Questa prospettiva si basa su una visione idealistica o preistorica dei sindacati come “rappresentazione democratica” della classe. Molti esempi storici (Labour-TUC nel Regno Unito nel 1926 o negli anni ’70, CC.OO in Spagna dopo Franco, Solidarnosc in Polonia dopo il 1981, PT-CUT in Brasile di recente ecc.) dimostrano che durante il momento più intenso delle ondate di lotta, il collegamento sindacale-governativo diventa l’ostacolo più pesante per l’iniziativa della classe lavoratrice. Durante gli ultimi anni in cui siamo stati rappresentanti sindacali, abbiamo avuto la possibilità di conoscere un bel po’ dei meccanismi interni di due importanti sindacati, entrambi fedeli al partito laburista. L’idea del socialismo democratico che queste organizzazioni siano la forza principale nel “tenere sotto pressione il governo e i suoi nemici” è totalmente illusoria. Il più delle volte possiamo vedere come il partito e la leadership sindacale strumentalizzino le lotte dei lavoratori e lavoratrici per i propri fini, ad es. i recenti “scioperi” simbolici al McDonald’s di Londra sono stati chiamati dalla dirigenza sindacale in un momento in cui si adattavano al circo della campagna laburista, ma in realtà hanno minato il lavoro organizzativo del sindacato. Molte delle riforme proposte che il Labour voleva introdurre, ad es. la contrattazione collettiva settoriale e i contratti, faciliterebbero la pianificazione economica per i più grandi capitalisti e rafforzerebbero la presa della leadership del sindacato centrale piuttosto che aumentare il potere indipendente dei lavoratori e delle lavoratrici. I contratti regionali e settoriali in Germania sono il miglior esempio.

7) Concentrarsi sulla “politica di palazzo” è uno spreco di energie

La leadership del socialismo democratico tende a cercare di aggirare i complessi problemi quotidiani delle relazioni di potere tra lavoro salariato e capitale e si concentra invece sull’avanzamento elettorale. Ma le questioni elettorali tendono a diventare un andare avanti e indietro. La politica governativa del socialismo del XXI secolo in America Latina (Chavez, Morales, Lula ecc.) e le sue debolezze strutturali hanno creato una diffusa disillusione. La sottomissione del governo Syriza in Grecia al sistema e ai suoi rappresentanti ha chiuso, piuttosto che aprire spazi per il movimento di classe contro l’austerità. Le lotte di potere interne a Podemos o a Momentum hanno creato cinismo e stanchezza. Adottando una strategia di voto per il “male minore” e chiedendo alle persone di votare per Macron per evitare Le Pen, la sinistra ha minato la propria posizione nella ribellione antigovernativa dei gilet gialli. Il clamore mediatico del corbinismo, l’impegno con le tattiche elettorali ecc. deviano l’attenzione dalle lotte quotidiane per l’autodifesa della classe lavoratrice. C’è anche un fraintendimento del parlamentarismo: solo perché un partito politico è composto da lavoratori e lavoratrici, ciò non rende la politica del partito e il parlamento una forma di politica della classe lavoratrice. Il parlamentarismo è l’esatto contrario della politica della classe lavoratrice, poiché si basa sulla cittadinanza individuale, non su relazioni collettive e pratiche. Ciò vale sia per il parlamentarismo nazionale sia per il “parlamentarismo light” sotto forma di “municipalismo radicale” (campagna per candidati indipendenti alle elezioni locali) che alcuni attivisti propongono. Il miglior esempio per descrivere i limiti della politica elettorale locale può essere trovato negli Stati Uniti. L’elezione di militanti del movimento di liberazione nera dopo il suo declino alla fine degli anni ’70 ha significato che in città come Chicago e Baltimora, i sindaci neri hanno dovuto applicare misure di austerità e di polizia contro le persone povere negli anni ’80, che hanno ulteriormente indebolito e diviso il movimento mentre hanno stabilizzato il sistema: chi meglio per far applicare tagli contro le persone nere povere delle città, che un sindaco nero? Mentre la storia ci fornisce ampi esempi, nel presente appaiono anche delle crepe. Se osserviamo Barcelona En Comu, la piattaforma dei cittadini che ha vinto le elezioni locali a Barcellona ed eletto la nuova sindaca, Colau, possiamo vedere vari momenti di tensione tra la classe lavoratrice locale e il nuovo governo locale “amico dei cittadini”, ad es. quando il governo locale ha agito contro i lavoratori e lavoratrici dell’aeroporto e della metropolitana in sciopero nel 2017. I/le compagnx spagnolx hanno anche notato che la “ridistribuzione” degli stipendi dei politici locali in piattaforme come Barcelona En Comu non ha favorito una maggiore equità interna ma ha creato un rafforzamento del ceto politico di movimento, un nuovo livello di attivisti professionisti con tutte le contraddizioni della professionalizzazione. Un risultato di queste tensioni con la classe lavoratrice locale è che Barcelona En Comu cerca di incanalare un po ‘del malcontento nelle acque nazionaliste catalane, come se l’indipendenza catalana avesse molto di più da offrire ai lavoratori e alle lavoratrici rispetto a un’altra linea di divisione all’interno della nostra classe. Ora affronteremo lo stesso problema in Scozia.

8) Il potere parlamentare e il potere statale sono due cose diverse

Supponiamo che un partito socialista riesca a entrare nel governo. L’idea di una strada parlamentare verso il socialismo trascura il fatto che “prendere il controllo del governo” e “avere il potere statale” sono due cose completamente diverse. Vi è una scarsa analisi dell’attuale struttura materiale e di classe sociale dello stato (amministrazione, funzionari pubblici, esercito) e della sua indipendenza dalla democrazia parlamentare; ad esempio, nonostante i cambiamenti nella sua forma esterna il nucleo materiale e la traiettoria dell’apparato statale russo (cioè strati sociali di persone impiegate nello svolgimento di funzioni statali) si è riprodotto dai tempi del regime zarista, attraverso la rivoluzione bolscevica, il terrore stalinista, Glasnost e Putin. Se vogliamo guardare più vicino a casa nostra [nel Regno Unito NdR], anche il riverito Tony Benn avrebbe dovuto capire (quando era Segretario di Stato per le industrie a metà degli anni ’70) come la lotta contro l’ala destra del partito laburista fosse un gioco da ragazzi rispetto alla lotta contro i “suoi” dipendenti pubblici.

9) Concentrandosi sullo scenario nazionale e sullo stato, il socialismo democratico tende a sottovalutare la relazione globale del capitale

Supponiamo che un partito socialista non solo riesca a entrare nel governo, ma riesca anche a dominare l’apparato statale. A causa del fatto che lo stato nazionale è l’elemento centrale della strategia per il socialismo democratico, il progetto si confronta immediatamente con la natura globale del capitale. Livelli più elevati di tassazione e altre imposizioni comporteranno una fuga di capitali tra le società globali. Il socialismo democratico risponde a tale questione proponendo ad esempio alleanze con le piccole imprese, come una sorta di fronte nazionale produttivo unito contro le multinazionali e la finanza. Abbiamo visto più volte come questa necessaria alleanza sposti il punto di vista ideologico verso il “patriottismo di sinistra” e altre stronzate. Se un governo laburista tentasse effettivamente di aumentare la tassazione e ridistribuire le attività, il risultato più probabile sarebbe una svalutazione della sterlina e un aumento dell’inflazione a causa di un deficit commerciale, che non può essere facilmente contrastato, data la composizione dell’agricoltura, del settore energetico, della manifattura. La nuova leadership della sinistra laburista – addestrata all’attivismo e al discorso politico e aiutata dalla sua influenza all’interno della leadership sindacale – sarà il miglior veicolo per dire ai lavoratori e alle lavoratrici di “lasciare un po ‘di tempo al nostro governo laburista”, per spiegare che “le società internazionali si sono alleate contro di noi” e che, nonostante l’inflazione, i lavoratori e le lavoratrici dovrebbero mantenere la calma e andare avanti; le lotte salariali saranno dichiarate eccessive o divisive o di coscienza economica ristretta. Abbiamo visto come, ad esempio, il governo Chavez in Venezuela abbia organizzato i “poveri urbani” contro gli scioperi delle/degli insegnanti che hanno richiesto salari più alti, denunciandoli come avidi e quindi responsabili della povertà di altre lavoratrici e lavoratori.

10) La lotta di classe non si sviluppa gradualmente

L’attenzione del socialismo democratico alla campagna elettorale e all’organizzazione ufficiale dei sindacati porta a un giudizio errato su come si sviluppa la lotta di classe. Storicamente le lotte di classe si sono sviluppate a passi da gigante – in una dinamica molto più complessa tra “organizzazione” e forze e fattori esterni. La convinzione che la lotta di classe si basi sull’organizzazione e la mobilitazione “passo dopo passo” spesso porta alla presenza di militanti di sinistra che ostacoleranno la futura ondata di lotta. A breve termine, coinvolgere i “leader della comunità” o il tuo parlamentare locale o fare affidamento sul sindacato o sull’apparato del partito per mobilitare o incoraggiare colleghi e colleghe lavoratori e lavoratrici, potrebbe sembrare utile. Ciò che inizialmente sembrava un trampolino di lancio si rivela un ostacolo: ad esempio, i mediatori [tra lavoratori e lavoratrici e padroni NdR] che si frappongono alle lotte o le illusioni create da forme esclusivamente simboliche di lotta. La sfida è trovare forme di lotta “passo dopo passo” che aiutino al momento, ma non pongano problemi a lungo termine. Nel loro bisogno di creare una trasformazione dell’azione delle lavoratrici e lavoraori (scioperi controllati, ecc.) sul campo in “pressione economica” per sostenere le politiche statali, gli organizzatori socialisti tendono ad avere paura del carattere spesso caotico e apparentemente spontaneo delle lotte. Corrono il pericolo di non comprendere che queste situazioni di rottura della normalità sono precisamente le situazioni in cui i lavoratori e le lavoratrici devono affrontare la loro responsabilità di riorganizzare la riproduzione sociale. Questi momenti sono gli snodi cruciali e i momenti di apprendimento pratico necessari in cui cambiamo le cose e noi stessi. Soffocare questo significa uccidere la partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici.

11) Il socialismo democratico e la sua paura della lotta di classe incontrollata diventa il becchino della lotta perché indebolisce l’attività necessaria della classe lavoratrice per difenderla

Il fatto che il più grande partito socialista della storia – la SPD tedesca – accettasse per la prima volta di sostenere il governo tedesco nei crediti di guerra del 1914 e reprimesse i moti rivoluzionari dei lavoratori e delle lavoratrici dopo la guerra non fu un atto di tradimento. Ciò faceva parte di una strategia di lungo termine per ottenere il potere governativo e riformare l’economia nazionale – per cui le “avventure” rivoluzionarie dei lavoratori rappresentavano un rischio. Dopo aver indebolito l’autorganizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici, la SPD ha dovuto affrontare la crisi globale del 1929, che ha limitato la sua strategia economica nazionale. La combinazione di questi due fattori – una classe operaia indebolita dalla tattica del governo e dall’impotenza nei confronti del capitale globale – ha portato la SPD ad aprire le porte alla svolta reazionaria più brutale nel 1933. Un altro esempio è il governo socialdemocratico sotto Allende in Cile nel 1973. Questo caso ci mostra come il rapporto tra movimenti della classe lavoratrice e governi di sinistra sia più complicato del quadro spesso meccanicistico della forza (movimento) e del contenitore-stabilizzatore (governo). Possiamo vedere che le prime riforme sociali furono introdotte da un governo di destra, che non riuscì a contenere la lotta di classe. Quando Allende subentrò, ebbe difficoltà a tenere sotto controllo le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici e delle persone povere, lotte che avrebbero potuto essere incoraggiate dal nuovo governo di sinistra. Allende temeva che le forze imperialiste locali dell’alta borghesia e quelle internazionali avrebbero usato il conflitto sociale come scusa per l’intervento. I disordini nell’industria hanno anche creato carenze che hanno minacciato di destabilizzare ulteriormente il governo. L’andamento dei prezzi a livello internazionale, in particolare dei prodotti minerari, ha limitato le possibilità di concessioni materiali nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici in sciopero. Le politiche di Allende nei confronti dei disordini della classe lavoratrice – che andavano dalle concessioni alla repressione militare – minarono e disarmarono letteralmente la classe operaia. Quando l’esercito locale, appoggiato dalla CIA, cominciò lo sterminio, la resistenza era già indebolita. Questo esempio storico sembra irrilevante per la situazione del Regno Unito o degli Stati Uniti di oggi, ma una volta che guardiamo oltre gli obiettivi a breve termine della tattica elettorale, affrontiamo ancora le stesse dinamiche fondamentali.

12) La strategia deve partire dalle lotte reali e dalle potenzialità e difficoltà reali imposte dal processo di produzione sociale

Abbiamo bisogno di strategie e abbiamo bisogno di organizzazione. Dobbiamo iniziare analizzando le condizioni e le relazioni reali della nostra classe: come è organizzata la produzione oggi, come è organizzata oltre i confini aziendali o nazionali, come siamo divisi come lavoratori e lavoratrici dal lavoro intellettuale e dalle conoscenze e come possiamo superare queste divisioni? Come possiamo avvalerci del fatto che i lavoratori e le lavoratrici cooperano lungo le filiere, spesso usando le moderne tecnologie di comunicazione per sviluppare nuove forme di organizzazioni transnazionali di lotta? In che modo oggi la nostra classe guida le sue lotte, dove utilizziamo i potenziali della produzione moderna e dove non riusciamo a usarli a nostro favore? In che modo le lotte nei luoghi di lavoro e nei settori industriali più grandi si collegano ad aree o regioni in cui i lavoratori e le lavoratrici sono più atomizzate? Dobbiamo creare una dinamica tra il potere industriale e sul posto di lavoro e l’inventiva delle persone della classe operaia per organizzare la loro sopravvivenza, sia sotto forma di cooperative, hack-lab, squat o progetti di comunità autogestiti. All’interno di queste lotte dobbiamo sviluppare l’organizzazione e la strategia per immaginare un controllo coordinato dei mezzi centrali di produzione, della loro difesa e della loro socializzazione oltre i confini nazionali. Ciò non accadrà nel giorno X di nostra scelta – ciò accadrà con la crescente disfunzionalità di questo sistema a cui contribuiranno le nostre lotte per la sopravvivenza. Il socialismo democratico e le sue strategie non saranno adeguati per la vastità, la durezza e la gioia di ciò che ci aspetta come classe lavoratrice.

Abbiamo visto che la strategia del socialismo democratico si scontra con le due principali forze storiche del capitalismo. In primo luogo, concentrandosi sull’arena nazionale si scontra con il carattere globale del capitale. In secondo luogo, riducendo la questione dello sfruttamento alla questione se i lavoratori e le lavoratrici operano sotto il comando privato o pubblico, la sua strategia si scontra con il sostanziale malcontento della classe lavoratrice. Un governo socialista sarebbe costretto a indebolire la propria base di potere per far fronte al continuo malcontento (“Mantieni la calma e concedi un po’ più di tempo al tuo governo dei lavoratori e delle lavoratrici”). A lungo termine questo crea disillusione e la base materiale per una svolta reazionaria. Questa è la lezione della storia.

“Un violador en tu camino”: lezioni della rivoluzione femminista cilena

Fonte: https://kohljournal.press/Feminist-Chilean-Revolution

di Camila Stipo

Il 18 ottobre 2019 il Cile ha visto l’inizio di una grande rivolta sociale, ora ribattezzata rivoluzione da moltx. Il suo slogan, “no son 30 pesos, son 30 años” (non 30 pesos ma 30 anni), mostra che il problema non era nell’aumento di 30 pesos della tariffa del trasporto pubblico; piuttosto, è indicativo di una questione profondamente radicata con i 30 anni che seguirono la fine della dittatura, in cui il governo non riuscì a produrre cambiamenti reali e ad affrontare le forti disuguaglianze tra le classi sociali. Che invece sono peggiorate.

Pertanto, e dopo alcune settimane di agitazione causate dalle evasioni di massa delle tariffe di trasporto pubblico da parte degli studenti delle scuole secondarie, il 18 ottobre sono scoppiati incendi in diverse parti della capitale. Come risposta il governo ha imposto uno stato eccezionale e fissato un coprifuoco. Queste misure non sono bastate a reprimere i disordini sociali e massicce proteste hanno preso il sopravvento. Gli scontri con le forze di sicurezza hanno portato a notizie preoccupanti da parte di Amnesty International e Human Rights Watch, con entrambe le organizzazioni che denunciano gravi violazioni dei diritti umani. Tra questi, le immagini che avrebbero attirato maggiormente l’attenzione erano quelle del danno oculare massiccio e senza precedenti causato dai proiettili antisommossa.

Col passare dei giorni e delle settimane, la violenza nelle strade si è intensificata. Nonostante il governo abbia revocato il coprifuoco dopo una settimana, gli scontri sono diventati più gravi e sono aumentati i resoconti strazianti delle torture, comprese le lesioni agli occhi. Catturate dalle telecamere dei telefoni cellulari, le operazioni irregolari della polizia sono state mostrate, in mezzo al caos e all’ingovernabilità nelle strade. È in un tale contesto che molte persone potrebbero perdere la fiducia, un sentimento accresciuto dai discorsi che mettono in guardia contro una possibile dissoluzione della democrazia. È anche in un tale contesto che la performance “un violador en tu camino” (uno stupratore sul tuo cammino) potrebbe trovare strada nella sfera pubblica.

“Un violador en tu camino” è stato creato dal collettivo femminista “Las Tesis”, originario della città di Valparaíso. Una canzone accompagnata da una semplice danza ha denunciato la violenza sessuale di cui le donne sono vittime, nonché la complicità di diverse istituzioni governative – “el violador eres tú” (lo stupratore sei tu), o addirittura “el estado opresor es un macho violador ”(lo stato oppressore è un macho stupratore). La performance ha avuto un tale impatto che è stata replicata in maniera massiccia in diverse città cilene e, ad oggi, in Perù, Argentina, Colombia, Uruguay, Messico, Spagna, Germania, Australia, Stati Uniti, Regno Unito, Francia , Canada, Grecia, Libano, India, Turchia, tra le altre aree geografiche.

Il forte impatto della performance non si limita alla sua portata internazionale. L’intervento è riuscito a annullare il clima di disperazione e violenza che aveva conquistato il Cile, anche se solo temporaneamente. In questo senso, “un violador en tu camino” è stato un canale di protesta sociale, riposizionando al contempo le richieste femministe al centro del dibattito.

È importante sottolineare che un’ondata femminista prende forma in Cile dal 2016, senza precedenti nella sua visibilità. Con slogan di massa come #Niunamenos (non più una morte per femminicidio) e il rapido aumento dei gruppi femministi intorno alle urgenti problematiche delle molestie per strada, della violenza di genere e della legalizzazione dell’aborto, tra gli altri, gli ultimi tre anni hanno visto una proliferazione di donne che si organizzano in Cile.

Nonostante il valore e il significato conferiti alla sommossa del 2019, pare esserci anche un lato oscuro: non solo essa avrebbe offuscato le richieste femministe, ma avrebbe anche messo a rischio le donne. La violenza sessuale esercitata dalle forze di sicurezza statali che hanno colpito soprattutto le donne (come affermato nel rapporto Human Rights Watch) è stata accompagnata dalla ripresa della disputa sullo spazio pubblico, minando in tal modo ciò che le donne avevano faticosamente rivendicato nel corso degli anni. Per molte donne il pericolo di essere semplicemente nelle strade ha generato l’ansia di uscire e partecipare all’organizzazione sociale e alle proteste. Inoltre molti uomini accusati di violenza di genere partecipano regolarmente a quegli spazi e momenti di azione collettiva, che alienano le donne che hanno subito l’abuso, che scelgono la non partecipazione piuttosto che essere nello stesso spazio dei loro aggressori.

Oltre a quello condotto da HRW, pochi studi supportano queste affermazioni. Ma le reti di organizzazioni di donne hanno messo questo problema sul tavolo per anni. Innumerevoli donne hanno presentato denunce in diversi momenti e incontri avviati da organizzazioni femministe. Ciò fa eco alle esperienze di altri processi e contesti rivoluzionari, in particolare, come sostengo in seguito, quelli sviluppati nelle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa.

Come documentato da vari autori in diverse aree geografiche del MENA non è raro che i processi rivoluzionari rimandino le esigenze delle donne, considerandole richieste di secondo ordine o “specialistiche”. Tuttavia non solo queste richieste rappresentano quelle di almeno metà della popolazione, ma si estendono a una visione critica della cittadinanza politica. Ad esempio, una delle attuali richieste rivoluzionarie in Cile si rivolge a un sistema pensionistico privatizzato che non è in grado di garantire pensioni decenti alla popolazione pensionata. Sebbene ciò influisca sulla grande maggioranza de* lavoratori e lavoratrici cilene, il problema è particolarmente critico quando si tratta delle pensioni delle donne, poiché molte di loro hanno dedicato la propria vita al lavoro di assistenza domiciliare, impedendo loro di accedere ai risparmi di sicurezza sociale e a un piano pensionistico in grado di coprire le proprie esigenze.

In questo senso, l’intervento di La Tesis è un assemblaggio del contesto politico femminista. In primo luogo, si tratta di una forma non violenta di protesta, senza che sia meno diretta, accusatoria e decisiva. Attraverso la creatività, interrompe l’angoscia delle rivoluzionarie femministe causata dalla violenza nelle strade, mentre affina la consapevolezza dei mali sociali che devono essere affrontati. “El estado opresor es un macho violador” (lo stato oppressore è un macho stupratore) funziona a doppio livello. Da un lato, denuncia la complicità dello stato con la violenza di genere. D’altra parte, si riferisce metaforicamente alla cittadinanza come a una donna maltrattata che non può e non deve più sottostare alla violenza del suo violentatore.

L’intervento ha anche aperto uno spazio per l’organizzazione femminista attiva, con migliaia di persone che hanno rivisitato la performance. Per partecipare, è necessario comunicare, provare, concordare e incontrarsi faccia a faccia. Pertanto, con il forte supporto dei social network, la performance contribuisce al rilancio dei gruppi femministi che si erano allontanati dalla sfera pubblica e chiama all’organizzazione donne che non facevano parte prima dei movimenti femministi.

Inoltre questa performance rivendica e stimola la creatività come strumento di combattimento; le sue autrici hanno invitato le femministe a modificare i testi a piacimento per adattarli meglio ai diversi contesti e le donne hanno ascoltato questo richiamo a livello globale. Gli interventi adattati che sono stati organizzati comprendono esibizioni di donne anziane e versioni strumentali come il flamenco, e presentano una vasta gamma di capi, dall’abbigliamento da lutto a un’estetica latinoamericana intrisa di colori vivaci. Attraverso la canzone originale, l’intervento è chiaro nelle accuse che si estendono alla polizia, allo stato, ai giudici e al presidente, e gli adattamenti globali nominano le istituzioni della chiesa, il sistema neoliberale, i militari e altri come complici dell’abuso.

Infine, e forse soprattutto, Las Tesis è riuscita a far emergere la questione delle donne come una responsabilità inevitabile, portando un significato visivo e uditivo allo slogan “la rivoluzione será feminista o no será” (la rivoluzione sarà femminista o non lo sarà). Sebbene il potenziale di trasformazione e l’impatto a lungo termine di questo intervento non siano ancora stati sperimentati, è già possibile trarre una serie di lezioni dalle sue conseguenze a breve termine che possono essere estrapolate da e verso altre aree geografiche e in tempi rivoluzionari diversi.

Il primo punto è quello di organizzare insieme. I momenti rivoluzionari sono momenti di amicizia, solidarietà e sostegno tra tutt@ coloro che si trovano ai margini dello stato, della società e dei loro apparati. Tuttavia ciò non dovrebbe avvenire a spese delle donne che si organizzano in gruppo, per timore che vengano escluse da una nuova ridistribuzione del potere, come è successo più volte nel corso della storia. In secondo luogo, la creatività apre infinite possibilità di mobilitazione sociale, al di là delle modalità tradizionali di organizzazione. E in terzo luogo, è importante respingere la retrocessione delle richieste delle donne in secondo piano, indipendentemente dalle circostanze. Ciò che è “urgente” è semplicemente tale perché è stato deciso dalla regola patriarcale che si posiziona come misura e standard, anche per quanto riguarda le esigenze sociali. E’ un tipo di discorso che dobbiamo combattere e contro cui dobbiamo rivoltarci.

 

11 motivi per cui la tua falsa “preoccupazione” per la salute delle persone grasse non aiuta nessunx

Fonte: https://everydayfeminism.com/2016/01/concern-trolling-is-bullshit/

di Melissa A. Fabello e Linda Bacon

“Sono solo preoccupatx per la loro salute.”

“Sono una femminista, ma non credo che il grasso sia un problema femminista”.

“Sono per la body positive, ma non credo nel glorificare l’obesità.”

“Penso che le persone di grosse dimensioni meritino rispetto, ma penso che sarebbe per loro più facile se fossero magre.”

“Gli studi hanno dimostrato che l’obesità è la seconda causa di morte prevenibile, quindi non posso sostenere questo stile di vita”.

Stop.

Il concern trolling– che è l’atto di una persona che partecipa “a un dibattito proponendosi come un reale o potenziale ally che però si preoccupa di avere delle risposte prima di allearsi con una causa” – è qualcosa che vediamo troppo spesso, anche sulla nostra pagina Facebook sul femminismo quotidiano.

E molto spesso, otteniamo questo tipo di risposte “Ma questa libertà non è in realtà un po’ ‘ericolosa per la società?” sugli articoli che pubblichiamo sull’accettazione del grasso e sulla liberazione del corpo.

E ad essere onestx, è scoraggiante vedere le femministe – persone che generalmente tentiamo di sostenere nei contenuti- correre a citare ricerche imprecise e gettare in giro ideologie oppressive nel nome, presumibilmente, della “salute”.

Ma quando viviamo in un mondo che odia così disperatamente le persone di grandi dimensioni (um, ciao, “Guerra all’obesità”), comprendiamo pienamente come questi pregiudizi si trasformino in verità nelle nostre menti.

Ma poiché il concern trolling grassofobico è opprimente (e, in una nota più personale, ci fa rabbrividire), è tempo per noi – tutt@ noi, ma soprattutto le femministe – di smettere.

E poiché generalmente vediamo persone magre che fanno questi commenti, volevamo chiamarvi tutt@ per discutere sul perché questo comportamento sia così dannoso.

Quindi se hai bisogno di un po’ più di convincimento prima di dare alle tue dita, in bilico e pronte ad andare sulla tastiera, un periodo di riposo, ecco undici motivi per cui il concern trolling grassofobico ha senso zero.

1. Perché le ipotesi stereotipate sul peso di qualcunx sono oppressive

Sostieni di essere preoccupat@ per una persona grassa e la prima cosa a cui pensi è il diabete.

Va bene.

Che dire del giudizio negativo a cui sono sottopostx dalle persone – sia da parte degli individui che della società nel suo insieme – e l’impatto che ha sulla loro vita?

Pensa a come deve essere per le persone di grandi dimensioni, vale a dire la maggior parte delle persone che vivono negli Stati Uniti, confrontarsi quotidianamente su giornali, riviste, programmi televisivi e spot pubblicitari sul fatto che i loro corpi non sono attraenti e costituiscono un’orribile crisi di salute pubblica.

Ascoltare le ipotesi di dietist@ e altrx operator* sanitarx che a causa di una caratteristica fisica, il loro peso, devono essere non san@ e che hanno una cattiva cura di sé.

Avere quindi persone su Internet che dedicano interi thread di commenti a rimproverarlx.

Tuttx, grass@ o magr@, sono gravemente danneggiatx da questo messaggio. E come attivistx per la giustizia sociale è il tuo primo e più grande compito mostrare empatia verso le persone emarginate – e poi guardarti dentro per esaminare le tue ipotesi incontrastate.

Come Marilyn Wann afferma notoriamente nei suoi discorsi sulla diversità di peso, “L’unica cosa che chiunque può diagnosticare con precisione quando guarda una persona grassa è il proprio livello di pregiudizio sul peso”.

2. Perché il grasso non uccide

Esiste una statistica comunemente citata con cui le persone alimentano il fuoco del fat-shaming, ed è questa: che “l’obesità” è la seconda causa principale di morte prevenibile negli Stati Uniti.

Facciamo scoppiare quella bolla proprio qui: non è vero.

E sì, ovviamente se lo fai su Google, verranno fuori organizzazioni sanitarie che lo citano come un fatto. Ma ecco perché: perché uno studio sponsorizzato dal CDC del 2004 ha affermato che circa 350.000 decessi all’anno sono legati all’essere “in sovrappeso” o “obes@”, secondo solo al fumo.

Ma nel 2005 lo stesso giornale ha pubblicato una nuova analisi, con risultati scientificamente più accurati, avvicinando il numero a 25.000, una differenza del 94%.

Ma poiché è molto più facile creare paura, dicendo alla gente che è probabile che muoia, il fatto che sia stato un errore e che tu abbia più o meno le stesse possibilità di morire in un incidente d’auto e di morire per malattie legate all’obesità non è ampiamente pubblicizzato al popolo americano.

Quindi se pensavi che il grasso fosse mortale ed è quello che stavi usando per aiutare a “motivare” le persone alla magrezza, puoi smettere di farlo ora.

In verità se si desidera utilizzare la scala BMI spesso citata (ne riparleremo più avanti), le prove scientifiche in realtà indicano che le persone classificate come “sovrappeso” vivono più a lungo rispetto a quelle classificate come “normale”, e la maggior parte delle persone “obese” vive vite lunghe uguali a quelle delle loro “normali” controparti.

3. Perché il grasso non causa neanche la malattia

Ok. Quindi se il grasso stesso non è il problema, allora che dire del diabete e delle malattie cardiache, che siamo stati socializzati a credere che siano malattie “legate all’obesità”? Quelle non portano alla morte?

Beh sì.

E ha senso che la gente pensi che il problema sia il grasso. Dopotutto ci sono, in effetti, malattie (come il diabete e le malattie cardiache) che sono più comuni nelle persone più pesanti.

Ma ci sono anche maggiori episodi di morte annegando in luoghi dove ci sono più vendite di gelati.

Quindi, facciamo una breve lezione di statistica, ok?

La correlazione non equivale alla causalità.

Solo perché alcuni fattori, in superficie, sembrano correlati non significa che abbiano una relazione causale. Non è una semplice equazione causa-effetto, in cui la situazione A risulta nella situazione B.

Prendi lo scenario dell’annegamento e del gelato. Le persone non stanno annegando a causa del gelato, anche se potrebbe sembrare così in superficie. Piuttosto, sia l’annegamento che la vendita del gelato hanno più probabilità di accadere in spiaggia. La spiaggia, in questo caso, è ciò che potremmo definire un fattore di confusione.

Allo stesso modo ci sono fattori confondenti che complicano la relazione tra grasso e malattia.

Ad esempio, un fattore estremamente importante è quello della dieta. E non che coloro che seguono una dieta abbiano maggiori probabilità di essere san@ – al contrario, in realtà.

Sia la dieta che il peso sali-e-scendi –ovvero il processo di seguire una dieta, perdere peso, riguadagnare il peso (e talvolta anche di più), quindi proseguire con un’altra dieta, perdere peso, riguadagnare il peso, e avanti e avanti e avanti –aumentano l’infiammazione.

E l’infiammazione stessa è in realtà un fattore di rischio per molte malattie che sono generalmente attribuite all’obesità, come il diabete e le malattie cardiache.

E chi pensi sia più probabile che abbia vissuto una vita di dieta costante e peso sali-e-scendi? Persone di grandi dimensioni.

Correlazione. Ma nessuna causalità.

Vale a dire che non è così semplice come sembra in superficie. E solo perché sono presenti sia grasso che malattia non significa che il primo abbia causato il secondo.

4. Perché, in ogni caso, la grassofobia causa effetti negativi sulla salute

A bruciapelo: è difficile essere una persona grassa nella nostra società. E se sei una persona magra, considera questo: se tutte le altre cose della tua vita rimangono invariate, preferiresti essere grassa?

Probabilmente no – considerando che oltre la metà delle persone afferma che preferirebbe essere morta piuttosto che grassa.

E in un mondo in cui la discriminazione basata sul peso è dominante come il sessismo e il razzismo, è facile capire che essere di grandi dimensioni è un’esperienza stressante.

E questo semplicemente perché viviamo in una società che odia le persone grasse, come dimostra il semplice fatto che esiste la vergogna del grasso (e la sua difesa).

E il livello di stress associato a questo tipo di discriminazione – vivere la tua vita quotidiana ridicolizzat@ dalle persone e con meno accesso alle risorse e alla felicità– è anche associato a malattie cardiovascolari e diabete.

Ecco un modo per guardare a questo: i ricercatori hanno scoperto che il divario tra il peso reale e idealizzato di una persona (cioè la misura in cui sperimentano l’insoddisfazione del corpo) è un indicatore migliore della salute mentale e fisica rispetto alla scala BMI (che è comunque una cazzata totale).

Quindi il modo in cui ti senti nel tuo corpo (e in una società grassofobica, nessunx si sente bene con il proprio corpo, almeno tra tutte le persone i cui corpi sono visti come lo scenario peggiore) ha un impatto molto più significativo sul tuo benessere generale rispetto all’attuale forma e dimensione del tuo stesso corpo.

In effetti anche il CDC riferisce che i nostri comportamenti di salute quotidiani, come la dieta e l’esercizio fisico, rappresentano solo meno di un quarto delle differenze nei risultati di salute.

Ciò che conta di più, in realtà, è ciò che viene chiamato “determinanti sociali della salute”, e quelli includono cose come lo sviluppo della prima infanzia, il livello di istruzione, l’occupazione, la sicurezza alimentare e l’accesso alle abitazioni e all’assistenza sanitaria.

Cioè, ciò che è più probabile che causi cattiva salute è quanto sia oppressa una persona, non quali comportamenti si hanno.

Quindi se ti preoccupi davvero della salute di qualcun@, forse invece di suggerire che si metta a dieta, devi semplicemente eliminare la grassofobia.

Meglio ancora, per quanto odiamo il termine “leone da tastiera”, forse invece di cadere in quello schema digitando rabbiosamente nelle sezioni dei commenti (alla Kermit), concentra le tue energie sui determinanti sociali della salute spingendo per un cambiamento politico che affronti le disuguaglianze.

5. Perché anche la salute mentale è salute

Sono abbastanza sicura che nessun@ sia mai stat@ resx migliore se ridicolizzat@. In realtà c’è una ricerca che dice esattamente il contrario.

Perché quando ridicolizzi qualcunx, o un gruppo di persone, in base ai loro svantaggi sociali, soprattutto quando tu detieni il potere, si chiama bullismo.

E oltre al suddetto problema sociale della grassofobia, c’è anche il tipo individuale, uno contro uno, in cui le persone prendono il loro pregiudizio anti-grasso implicito socialmente e lo usano attivamente per abbattere l’autostima di un’altra persona.

Questo, ovviamente, può assumere la forma di lanciare insulti verso una persona di grandi dimensioni che è fuori per fare jogging. Potrebbe essere sussurri e risatine in risposta a qualcun@ che cammina per i corridoi a scuola. Potrebbe essere appendere le foto di persone che ritieni poco attraenti per la loro grassezza che servano per la tua “aspirazione alla magrezza“.

Oppure potrebbe prendere la forma di lasciare commenti su thread fat-positive, martellando nelle orecchie e negli occhi di tutt@ coloro che li incrociano la stessa vecchia retorica di BS che viene sposata dal pubblico in generale.

Ma la salute mentale è importante tanto quanto la salute fisica. E se sei davvero molt@ preoccupat@ per il benessere di qualcunx, è importante non deteriorare la sua salute emotiva e spirituale.

6. Perché “glorificare l’obesità” non è una brutta cosa

Facciamo molto lavoro nel campo dei disturbi alimentari – un luogo in cui conosciamo fin troppo bene l’idea di glorificare, di romanticizzare le malattie.

L’idea che puoi prendere qualcosa di dannoso e trasformarlo in qualcosa di bello o, nelle parole di Blythe Baird, “la cosa più interessante di me” è una cosa che ci preoccupa ogni giorno nel nostro lavoro, cercando di liberare il mondo per sempre dagli hashtag #proana e #promia – o almeno dai danni che possono causare.

Ma c’è una linea che abbiamo dovuto imparare a rispettare.

Nel movimento del disturbo alimentare ci sono due modi in cui può avvenire la “promozione”. Il primo è quello di sostenere la limitazione o l’eliminazione delle scelte di stile di vita e di trasformare il pensiero disordinato e gli schemi comportamentali in decisioni attive prese da coloro che soffrono per sentirsi più bellx, in salute o degnx.

Il secondo è diffondere il messaggio secondo cui i disturbi alimentari non sono qualcosa che dobbiamo nascondere, ma piuttosto parti di noi stessi che sono ugualmente degne di rispetto come il resto di noi stessi, combattendo così contro lo stigma della salute mentale.

Il primo è ciò che potremmo definire “glorificante” o “romanticizzante”. Il secondo lo chiameremmo semplicemente “normalizzazione”.

Ma quando si tratta di “obesità” – che non è una malattia (contrariamente a quanto potrebbe pensare l’AMA!) o presunta scelta di stile di vita, ma piuttosto semplicemente uno stato dell’essere– ciò che la gente chiama “glorificante” non può che essere, in realtà, normalizzazione.

E se le persone di grande taglia vogliono riprendere l’idea di glorificare l’obesità dicendo “Cazzo sì, lo sono“, allora ci siamo tutt@.

Ciò a cui non stiamo è il concern trolling che usa questa frase per sminuire e screditare le persone – e in particolare le donne – che, in un mondo duramente patriarcale, accettano e possiedono (e persino amano) i loro corpi, sia che si adattino a standard di bellezza ristretti sia che ciò non accada.

7. Perché le definizioni uniche di “salute” sono abiliste e perpetuano la barbarie

Quando le persone dicono di essere preoccupate per la salute de* altr*, crediamo che lo pensino davvero. Dopotutto ha senso, giusto?

Se la psicologia evoluzionistica è il tuo blocco, allora probabilmente ti attieni alla convinzione che in fondo il nostro cervello medio guidato dall’istinto di sopravvivenza alimenta l’universale culturale della propagazione delle specie. Ed è difficile far andare avanti una specie se stiamo morendo dappertutto per problemi di salute!

E questa convinzione spinge l’idea che ovviamente dovremmo preoccuparci della salute reciproca!

E va bene. Davvero. Divertiamoci per un secondo (anche se, per favore, lasciamo che sia chiaro che non apparteniamo al campo della psicologia evoluzionistica – e non andiamo avanti con le femministe che lo sono).

Ci sono ancora un milione di domande che abbiamo per te.

Ti piace come cazzo definisci “salute” in primo luogo? E chi può decidere di cosa si tratta? E come è possibile giudicare la salute in base alle dimensioni di una persona?

Ed è davvero appropriato valutare la salute? Sicuro, ancora una volta, da una lente della psicologia evolutiva, ha senso. Ma gli psicologi evolutivi credono anche nell’essenzialismo di genere– e sappiamo che merda sia perché è sessista, cissessista, e transfobico!

E quando diamo la priorità alla salute come valore quantificabile verso cui tutte le persone dovrebbero impegnarsi, siamo abilist@. Perché stiamo sottintendendo che esiste una versione di salute unica per tutt@ e che chiunque non rientri in questi parametri è indegn@ di rispetto.

8. Perché la perdita di peso non migliora comunque la salute

Mangiare bene e fare esercizio fisico migliora la salute? Sicuro. In una certa misura. Ma non è stato dimostrato che la perdita di peso lo fa.

Ad esempio: potresti visitare la grande macchina di Google in questo momento e probabilmente tirare su un milione e mezzo di studi che dimostrano che gli interventi di riduzione del peso a breve termine mostrano miglioramenti della salute a breve termine.

Tuttavia abbiamo due problemi con questo. Uno è che sono studi a breve termine, che non fanno molto per mostrarci qualcosa di sostanziale. Il secondo è che in tutti questi casi, le persone stanno alterando i loro comportamenti in qualche modo per raggiungere la perdita di peso. Quei cambiamenti da soli potrebbero spiegare i risultati di salute migliorati, indipendentemente dalla perdita di peso.

Quindi gli studi non dimostrano che la perdita di peso stessa sta migliorando la salute. Ciò che potrebbero mostrare è qualcosa con cui siamo d’accordo: che i cambiamenti nello stile di vita – come mangiare cibi più nutrienti e avere un’attività fisica regolare – portano a una salute migliore.

E cosa succede se si omettono i cambiamenti comportamentali dai risultati?

Uno studio sulla liposuzione che ha controllato i cambiamenti comportamentali non ha riscontrato alcun miglioramento nelle anomalie metaboliche associate all’obesità, nonostante la perdita di peso verificatasi.

In altre parole la salute di nessunx è migliorata dalla sola perdita di peso.

Altri studi sulla liposuzione, sebbene non controllino esplicitamente i cambiamenti comportamentali, sostengono che la perdita di peso non porta a miglioramenti metabolici. Anche se questo non è conclusivo, certamente, il bottino della guerra – vale a dire la ricompensa in termini di salute – è in discussione.

In realtà non abbiamo prove che suggeriscano che la perdita di peso migliora la salute a lungo termine. Al contrario la maggior parte degli studi a lungo termine suggeriscono che la perdita di peso aumenta il rischio di morte prematura.

E anche se volessi continuare a restare nel mito che la perdita di peso migliora la salute, sarebbe comunque vero che l’esercizio fisico e le restrizioni dietetiche non sono efficaci tecniche di perdita di peso. Perché sei letteralmente biologicamente cablato per non perdere peso oltre ciò che il tuo corpo ha considerato il tuo punto di riferimento.

Quindi, indipendentemente da ciò che fa una persona, non sarà in grado di mantenere perdite di peso considerevoli a lungo termine – a meno che non inizino pericolosi disordini alimentari e schemi di alimentazione e di esercizio pericolosamente disordinati, e in quel caso che senso ha “farlo per la salute”, eh?

9. Perché no, essere grassi non è affatto come essere un fumatore

Spesso, quando le persone vengono tirate in ballo nel fat-shaming, la loro risposta è qualcosa tipo “Ma abbiamo deriso i fumatori finché non hanno smesso di fumare! E questo fa bene alla salute pubblica!”

Ma ci sono alcune cose che non vanno in quella affermazione.

Innanzitutto, storicamente parlando, è inaccurata.

In realtà tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, un epidemiologo di nome Richard Doll pubblicò ricerche che suggerivano dapprima che il fumo potesse causare gravi danni alla salute e in secondo luogo che esistesse uno stretto legame tra fumo e cancro ai polmoni, cosa che fu ripetutamente confermata.

Quando gli Stati Uniti salirono a bordo nel 1964, ciò portò a vietare la pubblicità del tabacco e le etichette di avvertimento sui prodotti del tabacco, il che alla fine portò a una riduzione del consumo di tabacco.

Mentre si potrebbe sostenere che la “Guerra all’obesità” è, in effetti, simile alla “Guerra al tabacco”, ci sono differenze molto importanti:

Innanzitutto essere grassi è una caratteristica fisica, non un comportamento.

In secondo luogo è stato dimostrato che il fumo causa morte e malattie. Essere grass@, d’altra parte, no.

In terzo luogo l’idea che gettare la colpa e la vergogna sulle persone sia efficace nel cambiamento del comportamento sanitario è stata smentita ancora e ancora e ancora.

Quindi mentre è probabilmente vero che le persone hanno usato la tattica del ricoprire di vergogna sia nella “Guerra al tabacco” che nella “Guerra all’obesità”, è anche vero che la stessa vergogna non è ciò che crea il cambiamento.

Quindi anche se conservate l’idea errata che “l’obesità” sia pericolosa come il fumo e dovrebbe in qualche modo essere sradicata usando strategie simili, lo shaming non funzionerà.

10. Perché ti stai inserendo in un circolo vizioso

La credenza popolare ti ha convintx che essere grass@ –come vivere in povertà– è una scelta. E se una persona lavora abbastanza duramente per tirarsi fuori dalla sua situazione disperata, anche quella persona può godere del privilegio derivato dall’essere magr@.

E questa idea alimenta ciò che Jes Baker ha chiamato “valuta del corpo” – l’idea che “ci viene socialmente insegnato che se raggiungiamo il corpo ideale che vediamo nei media tradizionali … otterremo di conseguenza amore, dignità, successo e, in definitiva, felicità” e che i nostri corpi, quindi, agiscono come valuta.

Questa è una promessa sociale, come spiega Sonya Renee Taylor nel documentario Fattitude, “un giorno potrò davvero incassare il mio thin privilege“.

E questa fantasia – che la possibilità di ottenere magrezza porterà quindi alla felicità – è ciò che motiva tutt@ noi a partecipare alla cultura della dieta. Alimenta anche il desiderio di alcune persone, apparentemente, di aiutare le persone di taglia grande a vivere la loro vita in modo migliore.

Ma proprio come non abbiamo molta scelta sul nostro stato economico, non abbiamo nemmeno molta scelta sui nostri tipi di corpo. E mentre possiamo provare a cambiare entrambi, incontreremo senza dubbio più ostacoli e impossibilità che opportunità e successi.

Quindi quando perpetuiamo la narrazione che tutt@ noi abbiamo una scelta se i nostri corpi sono grassi o magri, promuoviamo l’idea che tutt@ dovrebbero sforzarsi sempre di essere magr@ – e questo è qualcosa che in realtà ci danneggia tutt@.

Nel frattempo spingiamo anche sull’idea che, dato che il grasso è malsano e quindi cattivo, le “scelte” che facciamo sul nostro corpo parlano anche delle nostre moralità e della misura in cui “meritiamo” una buona salute e rispetto.

Invece dovremmo riconoscere che nessunx di noi ha il pieno controllo su ciò che ci viene dato nella vita e che tutt@ meritiamo rispetto, a prescindere.

11. Perché Straight Up, Fat-Shaming ti rendono solo un* cretin*

Diciamolo: se sei un* concern troller, sei un* fat-shamer. E se sei un* fat-shamer, sei cattivx. Potresti avere le migliori intenzioni, ma quello che stai veramente facendo è prendere a calci le persone quando la società le sta già maltrattando. E’ già abbastanza.

Il concern trolling non ti rende un eroe. Non stai salvando la vita a nessunx.

Non stai motivando nessunx verso la salute. Non stai aiutando qualcunx a fronteggiare l’oppressione. Stai facendo del male alle persone. Tutto ciò che fa il concern trolling è ferire le persone, sia individualmente che socialmente.

E se questo non è un motivo sufficiente per rivalutare le tue azioni, allora qual è?

Pure Evil. La storia intrecciata della supremazia bianca e dell’odio verso il grasso

Fonte: https://www.bitchmedia.org/article/fat-shaming-heather-heyer-white-supremacy

di Shannon Weber

Il 12 agosto [2017 NdR], Heather Heyer ha difeso Charlottesville dalla violenza della folla dei neonazisti e dei suprematisti bianchi – e ha pagato con la sua vita quando James Alex Fields ha fatto precipitare la sua auto in una folla di manifestant@, uccidendola e ferendone molt@ altr@. Mentre milioni di persone si stavano riprendendo da quell’atto di terrorismo, Andrew Anglin, editore del sito web neonazista Daily Stormer, ha pubblicato un post sul blog intitolato “Heather Heyer: la donna uccisa in un episodio di rabbia era una grassa vecchia troia di 32 anni e senza figli. ”

“Nonostante la finta indignazione da parte dei media, la maggior parte delle persone è contenta che sia morta, poiché era la definizione di inutilità”, ha scritto Anglin. “Una donna di 32 anni senza figli è un peso per la società e non ha alcun valore.” Ha anche chiamato Heyer una “brutta grassa”, “creatura disgustosa” e “grassa grassona Heather”, tra gli altri insulti, e in seguito ha detto che si era sentito “divertito” dalle molteplici minacce di morte che aveva ricevuto a seguito della sua tirata. I membri del Daily Stormer e Stormfront, il “più antico forum web neonazista su Internet“, hanno deriso Heyer e hanno festeggiato la sua morte pubblicando meme con le parole ” BALENA COMUNISTA” sovrapposte a una foto in cui lei giace a terra parzialmente nuda mentre i medici di strada tentavano di salvarle la vita.

Il fat-shaming, insieme alla misoginia retrograda, è stato fondamentale per far avanzare la supremazia bianca negli Stati Uniti almeno dal 1800, secondo Amy Farrell, professore di studi americani e studi di genere al Dickinson College. Nel suo libro del 2011 Fat Shame: Stigma and the Fat Body in American Culture, Farrell sostiene che nel diciannovesimo secolo, il grasso divenne un indicatore per giudicare un corpo inferiore e al di fuori dei confini di quello che era considerato un “vero corpo americano”. “La grassezza”, scrive, “era un motivo usato per identificare i corpi inferiori” – immigrate, ex schiave e donne – e divenne un segno rivelatore di una persona “superiore” che cadeva in disgrazia.” Nel 1900, le cartoline che deridevano donne grasse bianche “promuovevano l’idea che il corpo di una donna bianca grassa fosse un corpo fuori controllo, attraente solo per quegli uomini che erano essi stessi meno civili.”


Una cartolina del 1907 con il gioco di parole “Discesa irlandese” si raffigura una serva irlandese di mezza età grassa che cade dalle scale e rompe i piatti dei pasti, un chiaro riferimento all’insufficiente bianchezza e all’incompetenza della donna. Farrell la definisce un’illustrazione dello stereotipo dell’immigrat@ imbroglione, stupid@ e grossolan@.

Identificare il grasso corporeo divenne un modo per classificare i corpi come devianti e difettosx. Dopo l’acclamazione di Charles Darwin nella creazione di un sistema per classificare il regno animale, alcuni scienziati sociali (che erano in gran parte bianchi e maschi) hanno tentato di escogitare un sistema simile per classificare le persone. Usando una scienza distorta, hanno giustificato le loro opinioni prevenute secondo cui il candore e la virilità erano al vertice di una gerarchia di civiltà. L’intolleranza al grasso è andata di pari passo con la disumanizzazione di persone di colore e persone di varie etnie europee non considerate sufficientemente bianche, come le persone irlandesi e italiane. Ad esempio, Saartjie Baartman è stata ridotta in schiavitù nella sua nativa Africa del Sud ed esibita in spettacoli di freaks europei a causa delle dimensioni delle sue labbra e glutei.

Alla sua morte, i suoi resti furono conservati e messi in mostra in un museo francese per decenni. La bianca mostrificazione e feticizzazione di Baartman è intimamente connessa alla sua femminilità nera ipersessualizzata e alla sua voluttuosa forma corporea. Questo uso della scienza distorta per confermare preesistenti pregiudizi è ciò che ha contribuito a spingere la popolarità dell’eugenetica per buona parte del 20° secolo, con conseguenti atrocità di massa, come la sterilizzazione forzata delle persone di colore, portoricane, delle donne indigene e delle persone con disabilità, così come la tortura psichiatrica, l’incarcerazione e l’omicidio di persone queer e trans.

Questi punti di vista hanno contribuito a spingere la popolarità dell’eugenetica fino al 20° secolo. Le ideologie eugenetiche furono esportate nella Germania nazista, dove prosperarono attraverso le mortali teorie di Adolf Hitler sulla purezza ariana. Nell’ambito dell’eugenetica del Terzo Reich, i nazisti “incoraggiarono l’allevamento selettivo per i tratti ariani (ad esempio, atletico, biondo e con gli occhi azzurri)”. L’incoraggiamento dell’atletismo al fine di propagare una razza adatta in forma è una retorica anti-grasso codificata per svalutare i corpi grassi. Il Dr. William Preble ha affermato nel suo articolo del 1915 “Obesità e malnutrizione” che “il popolo ebraico sembra propenso all’adiposità”, o al grasso corporeo, era forse una prefigurazione dell’ossessione nazista per “l’igiene razziale” e per la perfezione corporea in chiave antisemita.

Questa enfasi sui corpi in forma era associata a una fissazione sulla riproduzione eterosessuale, tutto uno sforzo per controllare i corpi delle donne bianche per fini razzisti. Secondo un suprematista bianco che capisce che “la razza bianca” deve essere preservata dal “genocidio bianco”, il controllo dei corpi delle donne bianche diventa fondamentale per la produzione del maggior numero possibile di bambini bianchi. Questo stereotipo vive in America. Uno stile simile del discorso ” il Führer sa” è in gioco nel suprematista bianco che fa fat-shaming su Heyer. Heyer, sfidando la visione normativa di magra, bionda, giovane bellezza femminile bianca rappresenta un tipo fondamentale di autonomia femminista che fa infuriare gli uomini bianchi violenti che si aspettano compliance dalle donne. Quindi, Heyer diventa “grassa grassona”, diventa – gasp! – “senza figli” e diventa il simbolo supremo del doppio standard sessuale: una troia.


E mentre le donne bianche grasse mantengono indubbiamente ancora il loro privilegio bianco (notate l’effusione di dispiacere per la morte di Heyer da parte dei bianchi che non potevano disturbarsi a versare una lacrima sugli omicidi di Rekia Boyd o Sandra Bland), essendo una donna grassa la società non consente che sia trattata con la stessa virtù e decenza umana di base che si ha per una donna magra. Possiamo vederlo dal più comune fat-shaming quotidiano al grottesco bullismo proveniente dal più alto ufficio politico del paese. Donald Trump, che ha difeso i neonazisti di Charlottesville, si è assicurato la presidenza pur essendo un accanito predatore sessuale e spietato campione di vergogna. Trump ha attaccato Rosie O’Donnell per anni, definendola “sciatta”, “maiale” con una “faccia grassa e brutta”. Ha fatto attacchi sessisti e razzisti contro l’ex Miss Universo Alicia Machado, che chiamò “Miss Piggy” e “Miss Faccende Domestiche”, costringendola ad un certo punto ad allenarsi davanti alle telecamere della TV. Il carattere e le azioni di Trump sono la prova che gli uomini bianchi al potere credono che i loro pregiudizi siano l’arbitro finale del valore di tutti gli altri. Questo fatto è applicabile in modo inquietante anche agli attacchi neonazisti contro Heyer.

Mentre si pensa ai terrificanti post di fat-shaming post-mortem su Heyer come ad un esempio di cyberbullismo sociopatico, cosa che sono senza dubbio – ed è un’esperienza fin troppo comune per ragazze e donne grasse – non dobbiamo però concludere lì la nostra analisi. Questo fat-shaming è anche un attacco a Heyer sia come una persona bianca “fallita” sia come una donna “fallita”: una “traditrice della razza bianca” che ha osato nominare la supremazia bianca e una donna incompleta che ha vissuto la vita alle sue condizioni invece che come una Barbie Ariana o come un contenitore per altrx bambinx bianchx stile Handmaid’s Tale. La Heyer fu “inutile” solo perché non sostenne un futuro distopico suprematista bianco, e per questo fu martirizzata, insieme alle molte persone di colore assassinate e incarcerate ogni giorno in nome della supremazia bianca.

La furia scatenata su Heyer da questi terroristi è, in definitiva, la rabbia degli ego feriti che non riescono a contenere lo spirito di una donna irraggiungibile. Anche se il loro odio è riuscito a ucciderla, ciò che rappresentava e ciò che continua a ispirare nelle altre persone brucia più luminoso di qualsiasi Tiki Torch culturalmente appropriata.

I 40.000 di noi che hanno marciato e si sono radunat@ insieme per difendere Boston dal razzismo, dall’antisemitismo e dall’istigazione neonazista alla violenza una settimana dopo Charlottesville ne sono la prova. Questi massicci suprematisti bianchi che screditano il valore di Heyer come essere umano non possono essere minimizzati come “trolling”. Lasciateli essere un invito all’azione nel nostro futuro attivismo mentre combattiamo per una società che esemplifica il meglio della nostra empatia umana, del nostro amore e rispetto per la differenza. Forse se lo avessimo fatto prima, un simpatizzante cyberbully e neo-nazista vergognoso non sarebbe seduto alla Casa Bianca.

Il movimento delle Sardine ovvero il grado zero della mobilitazione politica

Per anni i capetti di movimento hanno messo tutto il loro impegno affinché nelle manifestazioni e nel conflitto sociale non accadesse nulla. “Non deve succedere nulla” è stato il mantra che ha accompagnato il conflitto recintato e anestetizzato delle piazze di questo paese: l’obiettivo vero non era certo lo sviluppo del “consenso” alle lotte ma la carriera di questi personaggi auto nominatisi leader. Facendo una brutale semplificazione (brutale quanto vera) è colpa di questi capetti se oggi in Italia siamo scivolatx sempre più in basso a destra e ogni sollevazione e istinto conflittuale viene subito sedato: il paese è diventato sempre più una fogna mentre loro hanno fatto carriera nelle università, nei sindacati, nei partiti o nelle imprese. Magari dai loro dipartimenti universitari continuano a scrivere articoli di sociologia dei movimenti, per cui adesso possiamo leggere sulle loro riviste online diverse analisi riguardanti il nuovo fenomeno politico del momento, ovvero le Sardine.

Le Sardine sono il vero compimento finale di questa strategia del “non deve succedere nulla”. Si chiama una manifestazione su Facebook, fioccano i “parteciperò” perché ci si mette dentro un po’ di tutto a costo zero. Una piazza recintata dentro la quale non si fa nulla, massimo due cartelli e una canzone (Bella Ciao e l’inno di Mameli, potrebbero chiamare Roberto Benigni, magari gli recita pure un po’ di Dante), il nemico non è manco più Salvini ma è lo stesso di Repubblica e del governo: l’odio (questo nobile sentimento sconosciuto a chi lavora per la rivista culturale di Prodi o De Benedetti), il populismo, i cattivi che non consentono al buon governo del PD di vincere a mani basse le elezioni.

Lo scenario è talmente desolante che tutte le polemiche di questi giorni sembrano veramente superflue, siamo arrivatx a un punto in cui tutto è stato reso invisibile e i movimenti assomigliano alla parodia che può mettere in campo Roberto Saviano dalle colonne di un giornale del gruppo L’Espresso. Niente a che vedere con la realtà, si disputa solo una partita di potere tra blocchi simili e contrapposti che vogliono governare questo paese, con gli stessi obiettivi e gli stessi morti sulla strada. Uno di centrosinistra e uno di centrodestra, of course. Nel frattempo ogni rivolta e ogni conflitto sociale viene represso con la violenza brutale della polizia e dei tribunali. Ma le Sardine sono lì al sicuro, in quella piazza recintata, a cantare canzoncine e innalzare cartelli colorati.

Qualche giorno fa, lavoratori e lavoratrici delle campagne hanno bloccato uno dei maggiori porti commerciali di questo paese, mentre altrx bloccavano contemporaneamente un centro commerciale in un’altra regione del sud. La risposta della polizia è stata come al solito violenta e brutale, con denunce, pestaggi, lacrimogeni e manganellate. Zingaretti del PD si è subito dissociato e ha condannato la lotta, mentre il sindacalista della sezione locale della FLAI CGIL si è addirittura complimentato con la polizia: “Un lavoro encomiabile quello che stanno facendo i poliziotti del commissariato e dei carabinieri di Gioia Tauro”. Ecco, quando vedo che le piazze delle Sardine sono gestite da gente come questo tizio della FLAI e che ringraziano Digos e Polizia penso che non ci sia davvero nulla da aggiungere.

lino caetani

La paura non ci appartiene: che la lotta delle campagne trovi eco in tutta Italia. Blocchiamo il paese!

Fonte: Campagne in lotta

Bloccare in contemporanea, per ore, i varchi di uno dei porti commerciali più importanti d’Italia e una zona industriale strategica, in un Paese come quello in cui viviamo, è una scelta ben precisa e ponderata. In un contesto in cui le leggi razziste e fasciste reprimono con sempre maggior forza le forme di conflittualità tipiche di quelle lotte che negli ultimi anni hanno fatto tremare il paese; in un tempo in cui ci si indigna, ci si dichiara antirazzisti e si parla, dai palchi e sugli schermi, di opposizione al DL Salvini, per chi è costretto a vivere segregato in ghetti e campi l’unica arma efficace per farsi ascoltare è bloccare i flussi di merci che alimentano il sistema che ci strozza.

Lo sanno bene le centinaia di lavoratori e lavoratrici dell’agroindustria che nella grande giornata di lotta del 6 dicembre, a Foggia ed in Calabria, hanno scelto di mettere in gioco i propri corpi, il proprio cuore, il proprio coraggio perché consapevoli che il tempo delle chiacchiere è finito: non si può attendere oltre. Lo hanno fatto nonostante la giornata sia stata segnata da molti momenti estremamente gravi. Sono riusciti a trasformare la rabbia, per i compagni investiti a Gioia Tauro – un gesto razzista di estrema arroganza, intrapreso per forzare il blocco – e per un altro picchiato e portato via dalla polizia a Foggia, in forza per continuare. Hanno tramutato in determinazione le aggressioni subite nelle cariche, con le annesse manganellate e lacrimogeni.

Lo hanno fatto nel periodo prenatalizio, in cui la macchina capitalista che gestisce la circolazione di merci, denaro e persone secondo i suoi interessi e per il profitto si mostra in tutta la sua imponenza e ferocia. Hanno scelto di bloccare dei colossi dal valore non solo materiale, ma altamente simbolico. Un importante porto di transhipment nel Mediterraneo, un luogo che è anche una frontiera e che come tale è un emblema di ciò che ci opprime e ci divide, e che il giorno prima aveva ricevuto la visita del patron di MSC (multinazionale con sede in Svizzera…alla faccia del prima gli italiani) Aponte a sottolineare quanto cruciale sia il progetto della ZES e l’investimento sull’aumento dei volumi di scalo – mentre molti lavoratori portuali, a cui va la nostra solidarietà, sono ancora in attesa di essere riassunti. Dall’altro uno snodo stradale che dal casello della A14 porta alla zona industriale di Foggia, in cui sono presenti, oltre alle fabbriche di trasformazione del pomodoro, anche la divisione aerostrutture di Leonardo SPA, gigante della produzione ed esportazione di quelle armi che giocano un importante ruolo nel determinare flussi migratori, povertà e distruzione, e uno dei centri commerciali più grandi del sud Italia, il GrandApulia, tempio dello shopping consumistico soprattutto in questo periodo dell’anno.

Come sempre, alla determinazione, al coraggio, alla fermezza delle rivendicazioni dei lavoratori le istituzioni hanno risposto da un lato con indifferenza e vaghezza, continuando a ignorare la necessità urgente di regolarizzazione per tutti e la cancellazione degli ultimi due decreti, dall’altro mostrando la forza e utilizzando tutta la violenza dell’apparato repressivo. Di sicuro le istituzioni non hanno gradito l’ingente perdita economica che il blocco di questi due punti cruciali ha provocato: 4 km di camion in fila davanti al Porto, fino allo svincolo autostradale, e la mancata distribuzione di merci per lo shopping natalizio al GrandApulia.

Il bilancio finale è di quattro denunce, tra cui quella al lavoratore che è stato investito davanti al Porto di Gioia Tauro, il quale ha ricevuto cure sommarie e un trattamento decisamente ostile, a differenza dell’investitore che si è tranquillamente allontanato dal blocco, e quella al lavoratore picchiato dalla polizia, trattenuto per ore in Questura a Foggia e poi rilasciato grazie alla determinazione del presidio creatosi in solidarietà davanti ai cancelli della stessa questura. Nonostante una costola rotta, è stato costretto dal personale del Pronto Soccorso di Foggia ad attendere ore per farsi visitare. In entrambi i casi, il personale ospedaliero si è dimostrato complice della repressione, cercando in tutti i modi di ostacolare non solo le cure ma l’attestazione della verità di quanto accaduto.

Non diversamente, d’altronde, hanno fatto i pennivendoli delle varie testate giornalistiche al servizio del potere. L’immagine della giornata che emerge dai resoconti mediatici e dalle bocche di chi rappresenta il potere è ancora una volta distorta ad arte per far passare chi scioperava come un violento manipolato da forze oscure. Non si parla di lotte autorganizzate, perché, si sa, gli africani non sono capaci di ribellione autonoma, e c’è sempre qualche bianco ‘figlio di papà’ che li pilota; ancora una volta si mente sulla violenza della polizia, non scrivendo dell’attacco deliberato e immotivato alle persone che stavano manifestando ma inventando inesistenti lanci di pietre da parte dei lavoratori, associando in ogni articolo la questione immigrazione a quella della sicurezza e dell’ordine pubblico come d’altronde ci hanno abituato a sentire e leggere da decenni a questa parte. Abbiamo imparato a non stupirci della vigliaccheria e del razzismo di molti giornalisti, non ci impauriscono le loro bugie e diffamazioni: arriverà il tempo in cui vi faremo pagare tutto.

Dulcis in fundo, le dichiarazioni di CGIL e PD hanno superato a destra anche i partiti fascisti e razzisti, gettando fango sulla lotta dei lavoratori, delegittimandone l’enorme importanza, affermando accuse gravissime che vanno a braccetto con quelle di Fratelli d’Italia e Lega. A quanto pare le leggi ingiuste si possono violare solo in alcuni casi, quando a farlo sono i rappresentanti italianissimi dell’accoglienza degna su cui si pensa di poter capitalizzare alle urne, e l’antifascismo va bene solo nella versione edulcorata e di facciata di piazze mute e disciplinate, mentre si attaccano lavoratori che resistono perché non accettano di essere presi in giro. Si cantano canzoni partigiane, si fa un gran parlare di quanto ingiusto sia il DL Salvini, ma quando i diretti interessati decidono di protestare contro la legge razzista e fascista, ecco che li si colpisce con la violenza e la vigliaccheria tipiche di chi è abituato a giocare con la vita degli altri per ottenere un tornaconto di visibilità e carriera. Gli avvoltoi, da sempre, sono quelli che approfittano e lucrano sulle lotte per i loro sporchi interessi: non certo i lavoratori che si organizzano da soli per cambiare l’esistente, per fare in modo che tutti, non solo gli immigrati, possano avere una vita migliore. Non paghi delle becere accuse lanciate, CGIL e USB, quegli stessi sindacati che con tanta energia amano definirsi in prima linea a fianco dei lavoratori migranti, non hanno esitato nei giorni successivi alla manifestazione a minacciare e intimidire biecamente coloro che hanno partecipato alla giornata di lotta, dimostrando, una volta in più, la loro complicità con il razzismo istituzionale e il suo apparato repressivo.

Ciò che giornali e politici hanno evitato di riportare sono le concrete rivendicazioni che gli scioperanti hanno portato ai due blocchi: l’abrogazione delle ultime leggi immigrazione e sicurezza e la reintroduzione del permesso umanitario; i permessi di soggiorno per chi non ce li ha; l’apertura di canali di ingresso e transito per lavoro e ricerca lavoro oltre che per motivi di carattere umanitario; l’abolizione della residenza come requisito per il rinnovo e per l’accesso ai servizi essenziali; la creazione di un permesso di soggiorno unico europeo che permetta alle persone di muoversi liberamente in Europa; lo smantellamento dell’attuale sistema di accoglienza, detenzione e rimpatri, e il superamento del sistema dei centri d’accoglienza, delle tendopoli e dei campi di qualsivoglia natura in favore dell’accesso alle case. Tutte proposte con le quali chi pretende di essere un difensore dei diritti dovrebbe concordare.

Siamo disgustate da tanta ipocrisia, falsità, violenza. Ancor di più questo ci convince che quella che stiamo percorrendo è la strada giusta e la solidarietà che ci arriva da chi in altri luoghi d’Italia e d’Europa lotta per i documenti e sul lavoro ci scalda il cuore e ci fa sentire meno sole, più forti.

Ne siamo sempre più convinte, se ci impediscono di vivere liberi da sfruttamento e repressione, dove e con chi vogliamo, bloccare il serpente che ci stritola è l’unica cosa da fare. Sempre di più, in maniera sempre più diffusa e pervasiva, alla vostra violenza risponderemo con unione, coraggio e determinazione.

BASTA SEGREGAZIONE, CONFINI E SFRUTTAMENTO! DOCUMENTI PER TUTTI E TUTTE!

VIVA LE LOTTE AUTORGANIZZATE!