Ultrà in Tunisia: dietro la passione della curva, un’ode alla resistenza

La morte per annegamento di Omar Abidi il 31 marzo 2018 dopo una partita tra il Club Africain (CA) e l’Olympique di Medenine è stata all’origine di un’ondata di indignazione contro la violenza della polizia che incancrenisce la società tunisina in generale e il football in particolare. Diverse testimonianze di tifosi che hanno assistito alla scena affermano che i poliziotti non hanno voluto ascoltare le suppliche di Omar, il quale avrebbe ripetutamente detto ai poliziotti di non saper nuotare. Uno di questi avrebbe persino risposto “T3alem 3oum” (impara a nuotare). Oltre agli attivisti contro la violenza della polizia, ultrà di differenti squadre  hanno espresso la loro solidarietà ai membri dei North Vandals, di cui Omar era tifoso. Gli ultrà del Club Africain hanno manifestato sabato 20 aprile sull’Avenue Habib Bourguiba per chiedere che venga fatta giustizia.
Un fenomeno dai molteplici aspetti
La nascita del fenomeno ultrà in Tunisia non è chiara. Alcuni affermano che il primo gruppo ultrà sarebbe stato quello degli African Winners, i tifosi del Club Africain, nel 1995. Altri, al contrario, affermano che nessun gruppo ultrà esisteva prima del 2002, anno della creazione degli Ultras L’emkachkines. Pioniere in Africa, il movimento ultrà in Tunisia resta relativamente sconosciuto. I gruppi ultrà sono costituiti di tifosi appassionati, che seguono tutti i match e si spostano con le loro squadre. Sono loro che si occupano dell’ambiente nello stadio fabbricando degli striscioni, cantando, facendo le coreografie e accendendo dei fumogeni. Questa attività richiede un’organizzazione meticolosa. I gruppi sono divisi in settori geografici, ma anche secondo dei compiti precisi. “C’è un’ala che si occupa dell’animazione dello stadio, un’ala militare quando c’è bisogno della violenza e in alto, abbiamo un consiglio di anziani che amministra” ci spiega Jamel (nome inventato), uno dei leader di un gruppo ultrà de l’EST battezzato in omaggio al rivoluzionario messicano Emiliano Zapata. Il riferimento a figure che incarnano la resistenza, almeno agli occhi degli ultrà, sono molto numerose negli striscioni e nei murales. Che Guevara e Gandhi stanno insieme a Saddam Hussein e Yasser Arafat. Allo stesso modo, i tifos, gli enormi striscioni che gli ultrà srotolano sono il frutto di un lavoro logistico molto meticoloso. “Una dakhla (entrata) che dura 10, 15 minuti, corrisponde a dei grafici, dei disegnatori , delle notti bianche e molti soldi e tempo. Il giorno del gran match, si parte alle 6 del mattino per mettere delle corde, e piazzare gli striscioni”, aggiunge il nostro interlocutore. Tutti i tifosi che abbiamo incontrato sono d’accordo su una cosa: il movimento ultrà è un movimento che comprende tutti gli strati della società, nei limiti della non-mixité maschile. Come spiega Jamel: “Da noi puoi trovare l’architetto, l’ingegnere, chi lavora insieme al ragazzo dei quartieri popolari che fa delle rapine per nutrire lui e la sua famiglia. Il figlio di un giudice si ritrova con il figlio di una donna delle pulizie ad accendere un fuoco. Questa è una cosa che la polizia ha difficoltà a capire”. L’universo ultrà è anche diventato una fonte di ispirazione artistica. “ A pensarci bene, dove si trova in Tunisia una così grande energia collettiva, una tale mescolanza sociale?”, dice il rapper  Vipa, uno abituato a frequentale la curva nord tunisina. 
Il gruppo può persino giocare un ruolo sociale anche al di là dei campi di calcio. “Quando vediamo che un nostro fratello non dispone dei mezzi per sposarsi, noi facciamo una colletta per aiutarlo. Una volta uno di noi aveva delle difficoltà a alloggiare la famiglia, gli abbiamo portato del materiale e ci siam messi a costruire la casa”, spiega il leader di un gruppo di ultrà dell’EST. “E’ una vera famiglia, i membri più adulti cercano di esercitare una buona influenza sui giovani che fanno delle grandi fesserie”, aggiunge. 
Il “diritto allo sfogo” violato dalla polizia
Sotto la dittatura o dopo la rivoluzione, gli scontri con la polizia sono ricorrenti. Conosciuti per i graffiti ACAB, i gruppi ultrà hanno sviluppato delle relazioni conflittuali con le forze dell’ordine, specialmente a causa degli innumerevoli divieti che la polizia decreta negli stadi. Tra le ragioni di queste tensioni, c’è quella che uno dei più vecchi militanti ultrà del Club Africain ha chiamato “la migrazione forzata”, ossia lo spostamento di tutte le partite dalla capitale verso lo stadio di Radès. Tuttavia, i tifosi e gli ultrà che noi abbiamo incontrato affermano che le loro relazioni con i poliziotti non sono totalmente manichee: “Ci sono dei buoni poliziotti che tifano per la squadra e lasciano entrare fumogeni, oppure a volte li portano dentro loro stessi”, afferma un altro tifoso della curva della squadra del Bab Jdid. I tifosi dell’Esperance sportive di Tunisi sono più comprensivi. “Quando andiamo allo stadio alle 6 per preparare gli striscioni, noi li vediamo. I loro superiori li lasciano delle ore sotto al caldo aspettando il match, a volte senza acqua o mangiare, non ci stupisce che diventino violenti dopo”. Tuttavia, i tifosi affermano che le violenze della polizia sono volontarie e ricercate. Le strategie dei poliziotti sono conosciute dai tifosi. “ Gasano, portano dei cani negli stadi per farci uscire, lasciano una sola porta aperta, e all’uscita, ci ammucchiano in un furgone della polizia”. Così la curva sud, quella dell’Espérance ha boicottato lo stadio lo scorso 15 febbraio, durante la partita EST- ESS proprio a causa dell’aumento della violenza della polizia. 
Il limite alla vendita dei biglietti, le porte chiuse, il divieto di portare minori allo stadio, sono tutte delle misure che adottate per diminuire la violenza non hanno fatto nient’altro che aumentarla. “Il movimento ultrà è stato sottoposto al divieto dei tifo. Dopo la rivoluzione, i due lunghi periodi di porte chiuse imposte dal ministro degli interni non hanno migliorato nulla”, conferma Farouk Abdou, giornalista sportivo del giornale Lucarne Opposée.  Alcuni ultrà d’altronde fanno un legame esplicito tra l’impegno dei Tunisini nello stato islamico e l’imposizione delle porte chiuse allo stadio: “la maggior parte dei giovani che sono partiti in Siria sono dei figli dello stadio, io ne conosco almeno una dozzina. E’ il risultato di quattro anni di porte chiuse. In questo paese, non abbiamo il diritto a sfogarci, ci viene impedito, mentre è proprio tutto quello che vogliamo: avere, una volta alla settimana, due ore di svago senza che vengano a pestarci” dice un ultrà esperantista. Per il sociologo Oussama Bouyahya i gruppi ultrà “permettono ai giovani di trovarsi un’appartenenza forte”. Abdou aggiunge, “per la generazione degli anni 2000, il gruppo ultrà è come un’oasi che li caccia dall’ozio. In una paese in cui la marginalizzazione della gioventù è stata eretta a sistema, l’appartenenza a un gruppo forte, che sfida il potere, non è senza importanza per dei giovani uomini alla ricerca dell’affermazione di sé. “Noi vogliamo che ci lascino vivi, che ci riconoscano, che lascino entrare i nostri tamburi, i nostri fumogeni, e che ci lascino tranquilli. Il gruppo, allo stadio, ne sarà responsabile”, conclude uno dei leader della curva esperantista”.
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