L’animale che dunque sono

Da Ecate newsletter queer a cadenza mensile che tratta di Ars Magica e saperi non convenzionali.

di orso majico

Nel film “The lobster”, ambientato in un futuro distopico e totalitario, le persone single sono costrette a mettersi in coppia e se non ci riescono vengono portate in una misteriosa e terrificante “transformation room” nella quale sono appunto trasformate da esseri umani in altri animali a scelta. Questo evento traumatico viene presentato nella pellicola come uno spauracchio assoluto: perdere la propria umanità, uscire dalla specie che domina il pianeta e si differenzia dalle altre per intelligenza, coscienza di sé, capacità di controllare e modificare la natura. Un vero e proprio incubo insomma. La trama di questo film mi interessa perché a mio modo di vedere svela la pervasività di un dispositivo che funziona proprio nel senso inverso da quello messo in scena in The lobster: è la nostra società ad essere una immensa “transformation room” dentro la quale gli animali umani vengono processati in una continua soggettivazione che intende innanzitutto separare l’essere umano dall’animale, pensato tout court come radicalmente opposto rispetto all’umano. Gli umani di qua, a governare il pianeta intero, gli animali di là, a essere fonte di sostentamento, cibo, profitto per l’unico essere vivente che ha pieno diritto ad una buona vita. Dalla pulce al leone, dal maiale al babbuino, sono tutti non-umani, tanto è vero che siamo soliti parlare in senso colloquiale dell’uomo e degli animali, come se non appartenessimo anche noi allo stesso regno animale, come se non fossimo anche noi una tra le tante specie animali presenti su questo pianeta.

Il dispositivo di creazione dell’Uomo è un elemento fondante della società occidentale ed è stato definito da Giorgio Agamben come quella “macchina antropologica” che ridefinisce continuamente i rapporti tra umano e animale. La soglia di confine tra i due poli è sempre fragile e labile, per cui viene riposizionata all’interno dei rapporti di potere esistenti. Oggi possiamo vedere dovunque gli effetti di questa separazione, di questo mancato riconoscimento tra animali, siamo spinti a oscurarne le ragioni e stimolati a non mettere mai in discussione questa differenza di grado tra noi e le altre specie, una differenza che solo grazie alla sua affermazione violenta è potuta essere giustificata dalla ideologia umanista e dalle scienze antropologiche. I pacchetti di animali presenti nel supermercato sotto casa, pezzi di corpi messi dentro un frigorifero per essere ingeriti da noi umani (il macello, quest’altra realissima transformation room…) vengono chiamati “carne”, reificati all’estremo, resi lontani ed estranei da ogni possibile vicinanza e affettività emotiva. L’intelligenza amorevole del maiale, la gioia saltellante di una mucca, la misteriosa vita di un pesce nell’abisso del mare: sparite, scomparse, modificate e inscatolate in oggetti di consumo.

Tanto è forte questo dispositivo che solo dopo centinaia di anni (pochissimi nella storia del pianeta ma sostanzialmente tanti nella storia di quella che chiamiamo civiltà umana) si è arrivati ad una considerazione minima del rispetto verso le altre specie con la nascita del primo protezionismo animalista nell’ottocento. Le filosofie antispeciste oggi sono ampiamente minoritarie e subiscono una fortissima spinta ad essere recuperate dal sistema vigente (quello patriarcale, capitalista, bianco e occidentale) e ridotte a stili di vita e di consumo, diete per il fitness o semplicemente in una forma di sterile pietismo. A volte la stessa attenzione per la riduzione della violenza riservata agli altri animali si ribalta paradossalmente in un aumento della funzionalità dello sterminio per moltiplicazione: la richiesta di allevamenti non intensivi, di “carne felice”, di trattamenti di macellazione virtuosi, ha prodotto un incremento complessivo dell’industria della carne mentre si è dato contemporaneamente un contentino alle masse che cominciavano ad impressionarsi troppo di fronte alle immagini di come vengono massacrati animali inermi appena nati.

D’altra parte è veramente difficile sostenere psicologicamente una immedesimazione e una maggiore empatia con le altre specie di fronte a quello che accade ora in ogni parte del globo: miliardi di polli reclusi e uccisi nelle gabbie, pulcini stritolati appena nati, miliardi e miliardi di pesci allevati per essere subito sterminati. La nostra fragile psicologia non regge questo riconoscimento, così come lontani ci appaiono gli altri esseri umani che muoiono in una guerra sotto le bombe o di fame nel deserto. Il dispositivo di creazione dell’umano contro l’animale si rafforza e diventa più raffinato e operativo. La scienza antropologica ha sempre lavorato affinché la presunta superiorità dell’umano fosse dimostrata al di là di ogni ragionevole sospetto nonostante la realtà evidenzi il contrario: quando i cervelli degli animali di alcune specie sono troppo grandi per dimostrare che l’uomo è in uno stadio evolutivo superiore allora si parla delle nostre abilità fisiche e dell’utilizzo di utensili, cosa che pure fanno tanti gruppi animali lontani dall’umano. Anche le nostre specie cugine come le scimmie devono essere inserite in un processo evolutivo supposto come finalistico e allora sono presentate come un abbozzo primitivo dell’umano.

Non ci si riconosce neanche tra parenti, perché la scienza è uno dei tanti dispositivi di potere e di dominio. E allora dove potremmo mai recuperare una possibile sorellanza con l’animale che è in noi? Sono tanti i dispositivi che operano una separazione nella nostra società affinché alcune categorie oppresse siano disumanizzate e trattate alla stregua degli altri animali. Quando si evita questo riconoscimento reciproco tra umani e si crea l’altro irriducibile a noi, ecco che altri esseri viventi passano dall’altro lato della separazione con l’animale e divengono improvvisamente sacrificabili. Grossi maiali ebrei da mettere al forno, scimmie nere da rendere schiave, vacche femmine da usare per il consumo del dominio maschile.

Non c’è niente da fare, gli animali sono tra noi, e forse lottando per la fine delle oppressioni potremmo renderci anche conto che gli animali siamo noi. Se quel giorno dovesse arrivare, se dovessero rompersi le barriere che separano e ostacolano la solidarietà tra gli oppressi dentro e fuori la nostra malvagia specie, allora la transformation room di The Lobster cesserebbe di essere il nostro più inimmaginabile incubo e il divenire animale diventerebbe un momento essenziale della liberazione. Come auspicavano Gilles Deleuze e Felix Guattari nella loro delirante profezia filosofica dei “Mille Piani”: siate la pantera rosa, e che i vostri amori siano come la vespa e l’orchidea, il gatto e il babbuino.