L’animale che dunque sono

Da Ecate newsletter queer a cadenza mensile che tratta di Ars Magica e saperi non convenzionali.

di orso majico

Nel film “The lobster”, ambientato in un futuro distopico e totalitario, le persone single sono costrette a mettersi in coppia e se non ci riescono vengono portate in una misteriosa e terrificante “transformation room” nella quale sono appunto trasformate da esseri umani in altri animali a scelta. Questo evento traumatico viene presentato nella pellicola come uno spauracchio assoluto: perdere la propria umanità, uscire dalla specie che domina il pianeta e si differenzia dalle altre per intelligenza, coscienza di sé, capacità di controllare e modificare la natura. Un vero e proprio incubo insomma. La trama di questo film mi interessa perché a mio modo di vedere svela la pervasività di un dispositivo che funziona proprio nel senso inverso da quello messo in scena in The lobster: è la nostra società ad essere una immensa “transformation room” dentro la quale gli animali umani vengono processati in una continua soggettivazione che intende innanzitutto separare l’essere umano dall’animale, pensato tout court come radicalmente opposto rispetto all’umano. Gli umani di qua, a governare il pianeta intero, gli animali di là, a essere fonte di sostentamento, cibo, profitto per l’unico essere vivente che ha pieno diritto ad una buona vita. Dalla pulce al leone, dal maiale al babbuino, sono tutti non-umani, tanto è vero che siamo soliti parlare in senso colloquiale dell’uomo e degli animali, come se non appartenessimo anche noi allo stesso regno animale, come se non fossimo anche noi una tra le tante specie animali presenti su questo pianeta.

Il dispositivo di creazione dell’Uomo è un elemento fondante della società occidentale ed è stato definito da Giorgio Agamben come quella “macchina antropologica” che ridefinisce continuamente i rapporti tra umano e animale. La soglia di confine tra i due poli è sempre fragile e labile, per cui viene riposizionata all’interno dei rapporti di potere esistenti. Oggi possiamo vedere dovunque gli effetti di questa separazione, di questo mancato riconoscimento tra animali, siamo spinti a oscurarne le ragioni e stimolati a non mettere mai in discussione questa differenza di grado tra noi e le altre specie, una differenza che solo grazie alla sua affermazione violenta è potuta essere giustificata dalla ideologia umanista e dalle scienze antropologiche. I pacchetti di animali presenti nel supermercato sotto casa, pezzi di corpi messi dentro un frigorifero per essere ingeriti da noi umani (il macello, quest’altra realissima transformation room…) vengono chiamati “carne”, reificati all’estremo, resi lontani ed estranei da ogni possibile vicinanza e affettività emotiva. L’intelligenza amorevole del maiale, la gioia saltellante di una mucca, la misteriosa vita di un pesce nell’abisso del mare: sparite, scomparse, modificate e inscatolate in oggetti di consumo.

Tanto è forte questo dispositivo che solo dopo centinaia di anni (pochissimi nella storia del pianeta ma sostanzialmente tanti nella storia di quella che chiamiamo civiltà umana) si è arrivati ad una considerazione minima del rispetto verso le altre specie con la nascita del primo protezionismo animalista nell’ottocento. Le filosofie antispeciste oggi sono ampiamente minoritarie e subiscono una fortissima spinta ad essere recuperate dal sistema vigente (quello patriarcale, capitalista, bianco e occidentale) e ridotte a stili di vita e di consumo, diete per il fitness o semplicemente in una forma di sterile pietismo. A volte la stessa attenzione per la riduzione della violenza riservata agli altri animali si ribalta paradossalmente in un aumento della funzionalità dello sterminio per moltiplicazione: la richiesta di allevamenti non intensivi, di “carne felice”, di trattamenti di macellazione virtuosi, ha prodotto un incremento complessivo dell’industria della carne mentre si è dato contemporaneamente un contentino alle masse che cominciavano ad impressionarsi troppo di fronte alle immagini di come vengono massacrati animali inermi appena nati.

D’altra parte è veramente difficile sostenere psicologicamente una immedesimazione e una maggiore empatia con le altre specie di fronte a quello che accade ora in ogni parte del globo: miliardi di polli reclusi e uccisi nelle gabbie, pulcini stritolati appena nati, miliardi e miliardi di pesci allevati per essere subito sterminati. La nostra fragile psicologia non regge questo riconoscimento, così come lontani ci appaiono gli altri esseri umani che muoiono in una guerra sotto le bombe o di fame nel deserto. Il dispositivo di creazione dell’umano contro l’animale si rafforza e diventa più raffinato e operativo. La scienza antropologica ha sempre lavorato affinché la presunta superiorità dell’umano fosse dimostrata al di là di ogni ragionevole sospetto nonostante la realtà evidenzi il contrario: quando i cervelli degli animali di alcune specie sono troppo grandi per dimostrare che l’uomo è in uno stadio evolutivo superiore allora si parla delle nostre abilità fisiche e dell’utilizzo di utensili, cosa che pure fanno tanti gruppi animali lontani dall’umano. Anche le nostre specie cugine come le scimmie devono essere inserite in un processo evolutivo supposto come finalistico e allora sono presentate come un abbozzo primitivo dell’umano.

Non ci si riconosce neanche tra parenti, perché la scienza è uno dei tanti dispositivi di potere e di dominio. E allora dove potremmo mai recuperare una possibile sorellanza con l’animale che è in noi? Sono tanti i dispositivi che operano una separazione nella nostra società affinché alcune categorie oppresse siano disumanizzate e trattate alla stregua degli altri animali. Quando si evita questo riconoscimento reciproco tra umani e si crea l’altro irriducibile a noi, ecco che altri esseri viventi passano dall’altro lato della separazione con l’animale e divengono improvvisamente sacrificabili. Grossi maiali ebrei da mettere al forno, scimmie nere da rendere schiave, vacche femmine da usare per il consumo del dominio maschile.

Non c’è niente da fare, gli animali sono tra noi, e forse lottando per la fine delle oppressioni potremmo renderci anche conto che gli animali siamo noi. Se quel giorno dovesse arrivare, se dovessero rompersi le barriere che separano e ostacolano la solidarietà tra gli oppressi dentro e fuori la nostra malvagia specie, allora la transformation room di The Lobster cesserebbe di essere il nostro più inimmaginabile incubo e il divenire animale diventerebbe un momento essenziale della liberazione. Come auspicavano Gilles Deleuze e Felix Guattari nella loro delirante profezia filosofica dei “Mille Piani”: siate la pantera rosa, e che i vostri amori siano come la vespa e l’orchidea, il gatto e il babbuino.

Nazifemministe

di Paul B. Preciado

fonte: https://www.liberation.fr/debats/2019/11/29/feminazies_1766375

Da quando le donne parlano per sé stesse i rappresentanti del vecchio regime sessuale sono talmente nervosi che ora sono loro a rimanere senza parole. È forse per questo che i signori del patriarcato coloniale sono andati a pescare nel loro libro di storia necropolitica alla ricerca di insulti da lanciarci addosso e, caso curioso, hanno scelto quello che hanno sempre a portata di mano: nazista!

Dicono di noi che siamo delle nazifemministe. Dicono che non possono più salire in ascensore con una ragazza – che peccato – perché questa potrebbe essere una ‘nazifemminista’ che li accuserà di stupro. Dicono che non possono più esercitare liberamente l’arte della conquista virile alla francese. Dicono che le donne hanno preso il potere nelle università, che vincono premi letterari e che sono loro che, ebbre di gender studies, dettano legge nel cinema e nei media. Capovolgendo egemonia e subalternità, i padri del tecnopatriarcato attribuiscono un potere assoluto alle minoranze sessuali, alle donne, alle persone trans, omosessuali, ai froci, alle lesbiche e ai corpi di genere non binario; straordinariamente trasferiscono su quest’ultimi soggetti quelle violenze totalitarie che sono state e sono tuttora le loro. Come è possibile applicare l’aggettivo ‘nazista’ proprio ai corpi che il nazismo considerava subumani e dispensabili?

Nulla giustifica l’utilizzo dell’aggettivo ‘nazifemministe’ per qualificare le richieste di riconoscimento delle donne, delle persone trans, di quelle omosessuali o di sesso non binario come soggetti politici autonomi. Non penso che valga la pena perdersi in una discussione teorica. L’argomento migliore e più efficace è attenersi ai fatti.

Quando avremo violato e smembrato un numero di uomini pari alle donne, alle persone omosessuali o trans che avete violato e smembrato voi, semplicemente per il fatto di essere uomini, o perché il loro corpo o le loro pratiche non corrispondevano a ciò che noi intendiamo come corretta mascolinità eterosessuale sottomessa, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando avremo deciso in un Parlamento composto solo di donne, in un consiglio d’amministrazione composto solo di donne, che un uomo per il semplice fatto di essere uomo deve essere meno pagato di una donna in qualsiasi impiego e circostanza, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando vi sarà proibito di eiaculare fuori da una vagina, pena l’accusa di aborto e tutte le vostre pratiche sessuali al di fuori del letto eterosessuale saranno considerate grottesche o patologiche, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando le vostre gambe tremeranno nell’attraversare una strada buia e cercherete intimoriti le chiavi del portone nelle tasche per rientrare il più veloce possibile, quando una figura femminile in fondo al viale vi farà voltare e correre, quando le strade di ogni città saranno nostre, allora voi potrete chiamarci nazifemministe. Quando le scuole non insegneranno che libri di Gertrude Stein e Virginia Woolf e quando James Joyce e Gustave Flaubert saranno diventati degli scrittori “mascolinisti” e quando i musei d’arte dedicheranno una settimana all’anno all’esplorazione delle opere sconosciute degli ‘artisti maschili’ e quando le storiche pubblicheranno ogni dieci anni un magazine per parlare del ruolo degli ‘uomini invisibili nella storia’, allora, a quel punto, potrete chiamarci nazifemministe.

Quando le psicologhe, le psicanaliste e le psichiatre, esperte in sessualità umana, saranno esclusivamente delle lesbiche radicali che si riuniranno in assemblee chiuse per stabilire la differenza tra mascolinità normale e patologica, quando invece di commentare Freud e Lacan interpreteremo la vostra sessualità mascolina eterossessuale, le vostre aspettative e i vostri piaceri secondo le teorie di Valerie Solanas e Monique Wittig, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando le vostre madri, zie, cugine, sorelle, amiche e mogli avranno sempre qualcosa da dire sul vostro modo di vestire, di acconciarvi, di parlare, di essere brutti o grassi, belli o magri, e quando ve lo diranno costantemente, a voce alta, davanti a tutte, e fingeranno di farvi piacere con questa forma di controllo, e quando noi chiameremo questa forma di linguaggio ‘galanteria femminile’, allora potrete chiamarci nazifemministe. Quando usciremo in gruppo per pagarci un lavoratore del sesso precario che incontreremo mezzo nudo ai lati delle strade delle periferie delle città, un uomo giovane spesso immigrato al quale non riconosceremo il diritto al lavoro, che sarà considerato come un criminale e quando una polizia composta quasi soltanto da donne avrà il diritto di stuprare e perseguire, allora sì, nel momento in cui pagheremo cinque euro un lavoratore sessuale per una succhiata di clitoride in macchina, allora potrete chiamarci nazifemministe.

E anche se un giorno vi sottomettessimo, vi esotizzassimo, vi violentassimo e uccidessimo, se riuscissimo in un disegno storico di sterminio, espropriazione e sottomissione comparabile al vostro, allora saremmo semplicemente come voi. Allora, sì, da quel momento potremmo condividere con voi l’aggettivo ‘nazista’. Ma per essere all’altezza delle vostre tecniche politiche patriarcali avremmo bisogno di un lavoro collettivo monumentale, e di mettere in campo un odio organizzato e un’industria della vendetta che, sinceramente, non immagino né desidero. Per adesso, e lo dico con l’obiettività che metterebbe uno scienziato nel rimarcare la differenza tra il numero di granelli di sabbia del deserto del Sahara e il granello di sabbia che gli è entrato in un occhio, c’è del margine. Molto, molto margine.

Comunicato del Circolo Anarcofemminista Ni Amas Ni Esclavas sulla rivolta nella regione chilena

da https://hacialavida.noblogs.org/post/2019/11/26/comunicado-del-circulo-anarcofeminista-ni-amas-ni-esclavas-sobre-la-revuelta-en-la-region-chilena/

A un mese dall’inizio della rivolta sociale in $hile[1], siamo statx testimoni di molti episodi di violenza politica esercitata dalle forze di polizia e FF.AA. contro milioni di persone scese in strada a manifestare il malcontento e il rifiuto di un modello socioeconomico instaurato a costo della morte e dello sfruttamento di generazioni che hanno pagato le conseguenze del suo sviluppo negli ultimi 46 anni. L’azione diretta contro l’innalzamento del biglietto metro di 30 pesos, durante la quale migliaia di studenti hanno organizzato evasioni di massa, ha incoraggiato un’intera società a sollevarsi contro un sistema iniquo, a organizzare la rabbia accumulata e attaccare chi ci ha oppressx per secoli. Le varie lotte sociali sono emerse con le rispettive richieste, riuscendo a convogliarsi in un fronte comune contro lo stato e il capitale, privilegiando l’empatia e la solidarietà in una rivolta che non si ferma, né di fronte alla sproporzionata repressione né agli accordi per la pace. Non cadiamo nella trappola della nuova costituzione, elaborata a porte chiuse da una classe politica sconnessa dalla realtà e che ancora una volta esclude le persone protagoniste del tanto anelato cambio sociale.

Come anarcofemministe ci uniamo a questa grande lotta, crediamo che sia di somma importanza mettersi in gioco per l’autodeterminazione, il mutuo aiuto, l’azione diretta e l’organizzazione territoriale (essendo questi i pilastri che sorreggono questa trasformazione sociale), rendere visibili gli inganni istituzionali che storicamente la classe politica e imprenditoriale montano attraverso sotterfugi legalisti che favoriscono solamente coloro che hanno cooptato il potere, infestare con le nostre idee i distinti scenari e comunità che oggi più che mai sono terreno fertile per la diffusione delle nostre idee antiautoritarie.

Ripercorrendo la storia delle manifestazioni, proteste o rivolte in questa regione chiamata $hile possiamo individuare un obiettivo comune ancora oggi latente: la fine dell’abuso storico di una classe politico-economica che a suon di collusioni istituzionali, partitiche e imprenditoriali ha portato alla precarizzazione della vita della classe lavoratrice in ogni sua dimensione. Se facciamo questo percorso storico vediamo inoltre uno stato che dal principio ha tentato di silenziare, compromettere e schiacciare la rivolta sociale con il terrore, la repressione e la violenza. Questo terrorismo di stato si è dispiegato prima contro i popoli indigeni della regione, per eliminarli dalla scena della nascente patria, per il bene della fondazione dello stato nazionale $hileno con tutti i suoi dispositivi di controllo, per costruire un paese a immagine e somiglianza dell’Europa: bianco, civilizzato e progressista.

Il massacro razzista attuato dallo stato non è riuscito nel suo intento e questo è evidente nella resistenza da nord a sud dei popoli indigeni che storicamente hanno dovuto lottare e difendere le proprie terre, la propria cultura e le loro stesse vite dinanzi a uno stato che ha cercato sistematicamente di cancellarli dalle mappe. Successivamente questo stesso stato che ha promosso un avvenire sicuro e prospero, ha rivolto il massacro verso la sua propria gente, non a una gente qualsiasi bensì a quella che, da quando $hile è $hile, ha dovuto vivere in condizioni indegne, alla gente precaria, maltrattata, marginalizzata e dimenticata, gente che nel momento in cui alzava la voce si è vista scaternare il fuoco, la repressione, la tortura, la sparizione e la morte! Meccanismi che possiamo incontrare nella storia recente della regione chilena con l’instaurazione della dittatura civico-militare di Pinochet che a suon di minacce, proiettili e torture ha fatto del $chile il primo paese neoliberale del mondo, consolidando così una delle forme del capitalismo più sfacciato, autoritario e dispotico, forma che oggi lo stato non ha potuto continuare a occultare sotto il suo grande tappeto di convenzioni politiche, lobby, politiche pubbliche fatte di briciole e inganni giornalieri! Oggi lo stato chileno mostra la sua vera faccia, quella che lungo 30 anni di ‘democrazia’ ha provato a lavar via il sangue che scorre nelle sue istituzioni, nei suoi eserciti, tra le sue leggi, sul suo scudo e la sua bandiera; pallottole, pallini, lacrimogeni, gas urticante e proiettili che mostrano questa patria traboccante di sangue, sangue che di nuovo, nella rivolta iniziata il 18 ottobre 2019, torna a scorrere sulla protesta sociale, con più di 20 morti, 200 perdite oculari, torturatx, imprigionatx, sequestratx e stupratx.

L’azione militare brutale e mortale contro la cultura mapuche non si è fermata dopo la ditattura. Il suo obiettivo è disarticolare la storia dei popoli indigeni per riprodurla all’interno di una logica colonialista. In questo senso si ritiene valida la storia mapuche solo a partire da una rivalorizzazione del popolo detto chileno all’interno della sua etica e cosmologia, basate sul valore della terra e della natura. “Mapuche: gente di questa terra”, un motto che senza dubbio renderà giustizia ai disastri provocati da uno stato oppressore e assassino che ha definito il popolo mapuche terrorista. Dall’attuale crisi sociale provocata da una precaria e abusiva politica neoliberale, è stato dimostrato il sostegno alle persone Mapuche nella loro lotta autonoma, sostegno basato su organizzazioni sociali e appoggio reciproco che è emerso spontaneamente tra i nostri pari, identificandoci come anarcofemministe con gli ideali anticapitalisti della loro lotta. Attualmente lo stato ha giustificato la violenza approvando leggi che rafforzano ancora di più la repressione e criminalizzazione della protesta; ricattando e assassinando coloro che ritiene una minaccia al suo modello attuale.

È così che hanno discriminato e violentato il popolo mapuche da tempo immemore, nascondendolo all’opinione pubblica, criminalizzando e offuscando ciò che questo sta esigendo da anni: la liberazione, ricostituzione e autonomia del territorio mapuche, che dopo esser stato usurpato giace in mano di privati che lo distruggono e sfruttano. Il governo instilla nell’opinione pubblica disinformazione e menzogne attraverso i mezzi di comunicazione; menzogne che vorrebbero nascondere le montature contro la causa mapuche (una delle ultime è il caso del comunero Camilo Catrillanca [2], che il 14 novembre 2018 ha dimostrato fattivamente il comportamento assassino dei sicari dello stato). Allo stesso modo la ‘machi’ Francisca Linconao[3] che nel 2013 è stata accusata senza fondamento usando la legge anti-terrorista, è stata assolta per mancanza di prove nel 2018. Non sono oggi cessate le montature, la repressione e la violenza nei confronti del popolo indigeno, con la differenza che ora ad apportare il proprio sostegno non sono soltanto gruppi minoritari; ormai gran parte dei movimenti sociali, così come individualità che scendono in strada a manifestare, hanno compreso che l’oppressore è lo stesso in entrambe le cause: lo stato capitalista, patriarcale e colonialista.

Le rivolte e la disobbedienza civile messe in atto in questi giorni hanno evidenziato tutte le ingiustizie, le disuguaglianze e le violenze su cui si struttura lo stato del $hile, senza tralasciare la violenza politico-sessuale attuata attraverso stupri, molestie, denudamenti e insulti contro donne e dissidenze sessuali; uno dei congegni per seminare terrore, umiliazione e paralisi delle forze contrarie allo status quo! Si è dimostrata di nuovo, proprio come sotto la dittatura, la violenza machista storica che gli stati (tutti) hanno esercitato dal principio del mondo civilizzato; si è dimostrato che in una alleanza machiavellica gli stati hanno dispiegato atti di vessazione nei confronti delle individualità che rifuggono il sistema eteronormato e che resistono nelle loro esistenze differenti. Dopo una gran visibilità dei movimenti articolati dai femminismi, diventa un dovere continuare a espandere il nostro pensare, evidenziando violenze e combattendole congiuntamente.

Perciò ci dichiariamo contro lo stato, contro i suoi dispositivi, meccanismi e forme!

Rifiutiamo la violenza dello stato oligarchico, liberale e patriarcale contro il popolo mapuche, le marginalità, le donne, le persone omosessuali, le dissidenze sessuali e coloro che sono dimenticatx, proprio come la nostra infanzia catturata dal Sename.[4]

Esigiamo libertà e giustizia per tuttx, compagnx, prigionierx e cadutx.

Crediamo che l’unica maniera di continuare a combattere e resistere per riprenderci le nostre vite è l’organizzazione e le assemblee territoriali! Non crediamo nei loro contratti di pace, tantomeno nelle loro convenzioni costituenti sotto uno stato che storicamente è stato il nemico di tutti i popoli!

La lotta continua, la rivolta resiste!

Organizzati e riprendiamoci le nostre vite!

Círculo Anarcofeminista Ni Amas Ni Esclavas

Novembre 2019

[1] La dicitura ‘$hile’ è diffusa nel paese e marca la distinzione tra il Chile reale e lo stato neoliberale che deturpa il suo popolo e territorio in favore del capitale ($hile con $ simbolo del Peso)

[2] Camilo Catrillanca, 24enne mapuche della regione meridionale de La Auracanía e tra i leader della ATM (Alianza Territorial Mapuche), è stato ucciso da una pallottola sparata da Carabineros della squadra speciale denominata Comando Jungla il 14 novembre 2018. La sua morte ha generato proteste e scontri nelle maggiori città chilene. Il primo anniversario del suo assassinio è perció coinciso con le sollevazioni attuali.

[3] Francisca del Carmen Linconao Huircapan è una ‘machi’, un’autorità spirituale, guida e guaritrice. La causa intentata contro l’azienda forestale Palermo ha portato a una sentenza favorevole al popolo mapuche, costituendo un precedente giuridico pericoloso per lo sfruttamento indiscriminato dei territori da parte dei privati. Nel 2013 è stata ingiustamente incriminata in un caso di omicidio e nel 2016 incarcerata insieme ad altrx 10 comunerxs sulla base della denuncia falsa di un testimone estorta sotto minaccia di funzionari di polizia.

[4] Servicio Nacional de Menores, organismo di protezione delle persone minori dello stato chileno, tristemente noto per i sistematici maltrattamenti adottati nella totalità dei centri del territorio nazionale, nonché per gli innumerevoli casi di violenza sessuale (nel 50% dei casi).

No alla militarizzazione della società, no alla militarizzazione delle carceri

Riceviamo e pubblichiamo:

Lo scorso 22 ottobre veniva diffusa una nota trasmessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (numero 0318577) al Ministero della Giustizia e alle sigle sindacali del corpo di Polizia Penitenziaria -ma non ai direttori delle carceri o ai loro sindacati- denominata “Schemi di decreti legislativi correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle forze di polizia”.
La lunga nota di dieci pagine fa riferimento a decreti che saranno portati in Parlamento e che di fatto, oltre a riordinare ruoli e carriere, tolgono potere ai direttori e alle direttrici delle carceri per trasferirlo ai comandanti della polizia penitenziaria. Si tratta in particolare dello schema di Decreto Legislativo correttivo del Riordino delle carriere delle Forze di Polizia, approvato dal Consiglio dei ministri e in queste settimane all’esame delle Commissioni parlamentari.
Secondo questo nuovo riordino il comandante d’istituto (ossia il capo delle guardie) non deve rispondere, automaticamente, alla direzione amministrativa del carcere ma può e deve avere una propria autonomia di decisione e di azione.
A pagina quattro della nota si legge inoltre che non deve più essere tra i poteri del direttore o della direttrice quello di intervenire per avviare l’iter per la sospensione o destituzione dal servizio di un agente in caso di trattamenti nei confronti delle persone detenute che non siano in regola col senso di umanità della pena ma sarà il comandante di reparto ad infliggere la misura della sanzione.
E’ evidente che il senso generale sia togliere potere reale ai direttori e alle direttrici del carcere per trasferirli ai comandanti della Polizia Penitenziaria con tutte le conseguenze che derivano da una scelta di questo tipo, sia da un punto di vista politico che gestionale: si tratta infatti di un atto di chiaro indirizzo politico che riserverà molte ricadute negative immediate nella vita quotidiana delle persone detenute.
È la definizione di un modello meramente punitivo, di controllo e repressione, molto lontano dai concetti di rieducazione, risocializzazione e reinserimento. Del resto stupisce relativamente, considerato l’Atto di indirizzo politico-istituzionale del ministro Bonafede per l’anno 2020, in cui, tra le altre cose, si definiscono i direttori di istituto (così come del resto tutti gli operatori appartenenti al Comparto Funzioni centrali, quindi educatori, amministrativi, contabili etc.) “personale estraneo” all’amministrazione penitenziaria. 
Altro punto da non sottovalutare riguarda la riforma della prescrizione che entrerà in vigore il primo gennaio 2020 e che prevede l’interruzione dei termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia di condanna che di assoluzione. Questa riforma, presentata come fiore all’occhiello del populismo giustizialista grillino e che ha riguardato negli anni prevalentemente le polemiche dei processi mediatici come quelli fatti a Silvio Berlusconi, in realtà andrà semplicemente a peggiorare il sistema giudiziario nazionale. Si elimina una tutela che garantiva l’imputato dall’eccessiva durata del processo, scaricando ora su di lui le lungaggini burocratiche della giustizia. 
Ci sembra infine di dover aggiungere che movimenti e manifestazioni nazionali come quella dello scorso 9 novembre a Roma siano estremamente fallimentari nel momento in cui non affiancano alla giusta richiesta di abolire le leggi sicurezza una sana rivolta contro la crescente militarizzazione della società ed il complesso delle misure che limitano la libertà.
Venerdì 22 novembre 2019 dalle ore 09:30 alle 13:00 presidio al carcere di Fuorni – Casa circondariale in via del Tonnazzo – 84131 Salerno

 

Libano: una rivoluzione contro il settarismo. Cronaca del primo mese della rivolta

da https://crimethinc.com/2019/11/13/lebanon-a-revolution-against-sectarianism-chronicling-the-first-month-of-the-uprising

Dal 17 ottobre, il Libano ha assistito a manifestazioni a livello nazionale che hanno rovesciato il primo ministro e trasformato la società libanese. Queste manifestazioni fanno parte di un’ondata globale di rivolte (tra cui Ecuador, Cile, Honduras, Haiti, Sudan, Iraq, Hong Kong e Catalogna) in cui gli sfruttati e gli oppressi stanno sfidando la legittimità dei loro governanti. In Libano, un accordo settario di condivisione del potere risalente alla fine della guerra civile ha creato una classe dominante di signori della guerra che usano il clientelismo per mantenere il potere vincendo le elezioni, confermando la nostra tesi secondo cui la politica è guerra con altri mezzi. In questo resoconto completo degli eventi del mese scorso, un partecipante sul campo descrive dettagliatamente la rivolta libanese, analizzando come abbia minato le strutture patriarcali e trasceso le divisioni religiose per riunire le persone contro la classe dominante.

di Joey Ayoub

Come tutto ha avuto inizio

Per il popolo libanese, la settimana del 17 ottobre 2019 è stata tra le più movimentate della memoria recente.
Nella notte tra il 13 e il 14 ottobre, gli incendi hanno devastato il Libano e parti della Siria. Abbiamo perso fino a 3.000.000 di alberi (1200 ettari) in un paese di 10.500 chilometri quadrati (4035 miglia quadrate), quasi raddoppiando la media annuale della perdita di alberi in sole 48 ore. La risposta del governo è stata disastrosa. Il Libano aveva solo tre elicotteri, donati da civili che li avevano messi a disposizione, lasciati fermi in aeroporto perché il governo non aveva fatto la manutenzione. Sebbene il governo avesse stanziato fondi per la manutenzione, i soldi erano “scomparsi”, come accade per molti fondi in Libano che sono nelle mani della classe dominante settaria. Alla fine gli incendi sono stati domati dall’intervento congiunto di impiegati pubblici volontari (la protezione civile non è pagata da decenni) tra cui persone provenienti dai campi profughi palestinesi, volontari a caso, aerei inviati da Giordania, Cipro e Grecia e, fortunatamente, dalla pioggia. Sarebbe potuto andare molto, molto peggio.
Non soddisfatti della propria incompetenza, i politici libanesi hanno fatto fare da capro espiatorio ai siriani, diffondendo voci secondo cui i siriani stavano appiccando gli incendi e si stavano trasferendo in case libanesi abbandonate (evidentemente i siriani sono a prova di fuoco…). Alcuni dei maggiori politici, come il capo del Movimento patriottico libero (FPM) Mario Aoun, si sono lamentati del fatto che gli incendi hanno colpito solo le aree cristiane, ignorando il fatto che la regione Shouf, dove sono avvenuti molti degli incendi, è in realtà una zona a maggioranza drusa.
Invece di affrontare le ripercussioni degli incendi e prevenire quelle successive, lo stato ha esacerbato la situazione. Il 17 ottobre, lo stato ha approvato un disegno di legge per tassare le telefonate via Internet tramite servizi come WhatsApp. Lo hanno definito come un tentativo di ottenere entrate aggiuntive per sbloccare oltre 11 miliardi di dollari di “aiuti” promessi alla conferenza CEDRE (Conférence économique pour le développement par les réformes et avec les entreprises, ndt) a Parigi:
“Il vicepresidente della Banca mondiale per il Medio Oriente e il Nordafrica Ferid Belhaj ha affermato che se il Libano volesse vedere presto i soldi del CEDRE, dovrebbe prendere sul serio l’attuazione delle riforme”.
Queste “riforme” erano essenzialmente misure che punivano ulteriormente la maggioranza di meno abbienti, salvando la minoranza di ricchi.

Il Libano aveva già subito una serie di crisi economiche legate alla corruzione e al debito nazionale – la maggior parte del quale (circa il 90%) è detenuto dalle banche locali e dalla banca centrale – provocando corse agli sportelli bancari, carenza di carburante e scioperi. Quasi 90 miliardi di dollari sono concentrati in soli 24.000 conti bancari in Libano, vale a dire qualcosa tra i 6000 e gli 8000 titolari di conti in Libano hanno oltre otto volte la quantità di denaro che il governo spera di “sbloccare” con CEDRE. Sebbene molti media si siano concentrati sulla cosiddetta “tassa di WhatsApp”, in realtà è stata la combinazione di tutti questi fattori e molti altri a ispirare l’indignazione.
La notte del 17 ottobre, migliaia di persone sono scese nelle strade delle città del Libano, tra cui Beirut, Tiro, Baalbek, Nabatiyeh, Saida e molti altri luoghi in proteste spontanee. Le proteste sono state così partecipate che lo stato ha annullato immediatamente l’imposta. Quella notte, una donna di nome Malak Alaywe Herz ha preso a calci la guardia del corpo armata di un politico; il video è diventato virale e, come in Sudan, una donna è diventata un’icona rivoluzionaria. Entro il 18 ottobre, parti del centro di Beirut erano in fiamme e gran parte del paese era completamente chiuso da blocchi stradali, molti dei quali erano fatti con pneumatici incendiati.

Da quel momento mi sono unito alle proteste di Beirut e da allora ci vado quasi tutti i giorni. Come organizzatore delle proteste del 2015, cresciuto in Libano e che ne ha scritto dal 2012, ho capito subito che queste proteste sarebbero state diverse. Non ero l’unico preso da quel sentimento raro: la speranza. Al contrario, essa era ovunque. In questo resoconto, cercherò di spiegare perché queste proteste hanno già creato cambiamenti irreversibili nel paese, cambiamenti che le élite al potere dei signori della guerra e degli oligarchi stanno lottando per invertire.

La duplice natura dell’insurrezione

È importante considerare come l’insurrezione in corso abbia dimensioni sia riformiste che rivoluzionarie. È una rivolta contro l’ingiustizia e la corruzione e una rivoluzione contro il settarismo.
La dimensione riformista assume la forma di proteste contro la corruzione. Una richiesta comune, espressa nel canto kellon yaani kellon (“tutti significa tutti”), è che il governo si dimetta. Il 20 ottobre, quattro ministri associati alle forze libanesi (LF), un partito guidato dall’ex signore della guerra Samir Geagea, si sono dimessi; da allora, la LF ha cercato, piuttosto senza successo, di cavalcare l’onda delle proteste. La prima grande vittoria sono state le dimissioni del primo ministro Saad Hariri martedì 29 ottobre, facendo crollare efficacemente il governo come lo avevamo conosciuto, anche se, al momento della stesura di questo documento, è ancora il primo ministro custode [tecnicamente in carica, ndt].
Non ci sono richieste unificate provenienti dalle strade; in molti modi, c’è resistenza alla formulazione di un elenco di richieste. Detto questo, ci sono diverse richieste popolari, che richiedono principalmente la fine della corruzione e la politica settaria, che sono giustamente viste come intrecciate. Le vediamo nelle interviste di strada condotte dalle stazioni televisive, sui social media e tra i manifestanti stessi. Come hanno scritto Kareem Chehayeb e Abby Sewell, oltre alle dimissioni del governo, due richieste comuni sono state per “elezioni parlamentari anticipate con una nuova legge elettorale, per elezioni che non si basino sulla proporzionalità settaria” e “per un’indagine indipendente su furto e appropriazione indebita di fondi pubblici “. Quest’ultima richiesta è stata brevemente sintetizzata da un uomo di Arsal: “Non c’è una guerra. Si tratta di soldi. Hai rubato i soldi, restituisci i soldi”.

Le proteste sono anti-settarie in molti modi diversi. Trascendono ciò che potremmo pensare come una divisione sinistra/destra e includono persino i sostenitori tradizionali dei partiti politici settari. Questa rabbia è in atto da quasi tre decenni; i traumi intergenerazionali sono ancora più antichi. Dalla fine della guerra civile, la classe transnazionale dei signori della guerra-oligarchi del Libano ha perfezionato le regole del gioco. Lo stato funge da base attraverso la quale questa classe può fare affari con se stessa e principalmente con le élite del Golfo, dell’Iran e dell’ovest; le reti clientelari mantengono strutture di potere a beneficio di questa classe, mantenendo i segmenti della popolazione dipendenti da loro; le infrastrutture pubbliche sono state lasciate marcire mentre la rapida privatizzazione limita la libertà di movimento tra le regioni e paralizza regolarmente l’intero paese; e, più recentemente, la paura della violenza che trabocca dalla Siria è stata regolarmente evocata, tre decenni dopo la stessa guerra civile del paese, per imporre il senso di impotenza al popolo libanese.
Per farla breve: mentre cercavano di riprendersi da 15 anni di guerra civile, gli abitanti del Libano hanno trascorso gli ultimi tre decenni a barcamenarsi nella vita di un paese in cui avevano ben poco diritto di parola. Un’implosione era inevitabile, ma il modo in cui è accaduta sta sfidando le interpretazioni più ciniche della vita politica libanese, comprese quelle degli stessi libanesi.

Reclamare le nostre strade

Quando la guerra civile finì sotto la “tutela” (leggi: occupazione) del regime siriano, i poteri si sono ricomposti per creare una parvenza di politica al fine di promuovere il messaggio che gli anni ’90 sarebbero stati il ​​decennio della ricostruzione. A Beirut ciò ha comportato la privatizzazione praticamente di tutto. Il centro storico, che gli arabi di tutta la regione chiamano Al-Balad (letteralmente “il paese”) è stato trasformato in Solidere, la società privata fondata dalla famiglia Hariri. Questo “neoliberismo realmente esistente” era addolcito da un discorso ottimistico: la narrazione era che solo attraverso legami commerciali si poteva tenere a bada la minaccia della guerra civile. Questo era il tempo in cui nacque la nostra generazione, la generazione del dopoguerra che mi piace chiamare la “generazione del ripensamento”. Siamo cresciuti ascoltando storie dei “bei vecchi tempi” prima della guerra, quando Beirut aveva una linea del tram e le persone potevano vendere merci negli spazi pubblici. Inutile dire che quel quadro roseo degli anni prebellici non considerasse le molte crisi avvenute a livello regionale e nazionale, crisi che alla fine hanno portato alla guerra civile nel 1975.
Ma gli anni ’90 hanno visto anche altri sviluppi. Il parlamento ha approvato una legge di amnistia nel 1991, perdonando la maggior parte dei crimini commessi durante la guerra, consentendo a coloro che avevano il potere di entrare nel governo. La maggior parte degli attuali pesi massimi della politica erano signori della guerra o imparentati con i signori della guerra, oppure divennero attivi nell’era postbellica o nei suoi primi giorni o dopo la Rivoluzione dei cedri del 2005 che espulse l’esercito siriano.
Queste figure politiche includono Nabih Berri, leader del movimento Amal dagli anni ’80 e presidente del parlamento dal 1992; Michel Aoun, presidente della repubblica, leader del Free Patriotic Movement (FPM) tornato dall’esilio nel 2005, e suocero di Gebran Bassil, che è anche leader dell’FPM e ministro degli esteri; Samir Geagea, leader delle forze libanesi (LF) dagli anni ’80, liberato dal carcere nel 2005 e rivale storico di Aoun; Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah dal 1992; Walid Jumblatt, leader del Partito progressista “socialista” (PSP) dal 1977; e Samy Gemayel, leader del partito Kataeb e nipote di Bachir Gemayel, un signore della guerra assassinato nel 1982 mentre era presidente eletto. Inoltre, possiamo considerare Saad Hariri, leader del Future Movement (FM), ripetutamente primo ministro [Hariri è stato in carica come primo ministro dal 9 novembere 2009 fino al 13 giugno 2011 e poi di nuovo dal 18 dicembre 2016 al 29 ottobre 2019, ndt] e figlio del primo ministro assassinato Rafik Hariri, come uno degli oligarchi più importanti dell’era postbellica, insieme a Tammam Salam, ex primo ministro e figlio di Saeb Salam, sei volte primo ministro prima della guerra civile, e Najib Mikati, anche lui ex primo ministro e di solito citato come l’uomo più ricco del Libano.
In breve, il Libano è governato da dinastie politiche che sono state forgiate nel fuoco della guerra civile o durante la sua “ricostruzione” del dopoguerra. Questo è ciò che i manifestanti nella città settentrionale di Tripoli hanno denunciato il 2 novembre con il canto “noi siamo la rivoluzione popolare, voi siete la guerra civile”.

Tripoli, la luce della rivoluzione

Tripoli, la più grande città del Libano settentrionale, è stata in prima linea nella rivolta. Quasi ogni giorno dal 17 ottobre, migliaia di manifestanti a Tripoli sono scesi in piazza per chiedere la caduta del regime settario. Per citare un manifestante di 84 anni, “C’è così tanta povertà e privazione qui che non importa come andrà a finire, le cose andranno comunque meglio”. Oltre alle spettacolari esibizioni di mobilitazione popolare, Kellon Yaa Kellon e “la gente vuole la caduta del regime” risuonano quotidianamente.
Tripoli, una città a maggioranza sunnita, ha apertamente sfidato la narrazione settaria dichiarando che sta con Nabatiyeh, Tiro e Dahieh, tutte città a maggioranza sciita. Quando Hezbollah e Amal Shabbiha (criminali governativi) hanno attaccato i manifestanti a Nabatiyeh il 23 ottobre, Tripoli ha risposto “Nabatiyeh, Tripoli è con te fino alla morte”. Il canto “Rivoluzione popolare contro guerra civile”, rapidamente adottato nel resto del Libano, presenta una narrazione in cui coloro che ancora si aggrappano alle loro identità settarie come reliquie della guerra civile si oppongono a coloro che stanno cercando di costruire un futuro inclusivo di tutti indipendentemente dalle sette religiose. Le proteste di Tripoli hanno indicato dall’inizio che questa rivolta sarebbe stata diversa.

Tripoli ha mantenuto uno slancio diverso a causa delle strutture organizzative emerse. Come a Beirut, i manifestanti a Tripoli hanno allestito ospedali e forum di discussione delle persone oltre a occupare l’edificio comunale. Le mobilitazioni sono state così inclusive che, per la prima volta che ne sono a conoscenza, i manifestanti di altre parti del Libano sono andati a Tripoli per partecipare alle proteste, in risposta a un invito aperto. Il 22 ottobre, poco prima che i manifestanti iniziassero a cantare “la gente vuole la caduta del regime”, un uomo con un megafono ha dichiarato “se [il governo] chiudesse tutte le piazze, siete tutti benvenuti in Nour Square [la piazza principale]”. Per la prima volta, Tripoli è diventata il centro dell’indignazione nazionale libanese. Nour significa “luce” in arabo; lo scrittore libanese Elias Khoury ha chiamato Tripoli la luce della rivoluzione.

Per cogliere il significato di tutto ciò, è necessario capire che parti di Tripoli e il distretto di Akkar a nord di essa hanno storicamente sopportato il peso maggiore della violenza statale mentre venivano demonizzate dall’opinione pubblica e dai media come snodi dell’estremismo sunnita. Sia lo stato libanese che Hezbollah hanno adottato le proprie versioni della narrazione post guerra dell’11 settembre, e le aree a maggioranza sunnita del Libano settentrionale, tra le più povere del Libano e vicine alla Siria, sono diventate capri espiatori. Eppure, nonostante questi tentativi da parte dei partiti settari, la creazione di questo capro espiatorio del Nord non è riuscita a ostacolare questo movimento. Si possono trovare commenti settari online, di solito mescolati con commenti anti-rifugiati, ma non hanno influenzato in modo significativo lo slancio visto per le strade.
Questo è il motivo per cui lo status di Tripoli come capitale de facto della rivoluzione ha messo a disagio attori politici come l’FPM. La stazione televisiva di FPM, OTV, ha regolarmente demonizzato i manifestanti a Tripoli e Akkar, impegnandosi in una campagna di disinformazione sin dall’inizio. Un titolo affermava che Tripoli stava “copiando” la città siriana di Homs (brutalmente schiacciata dal regime di Assad nel 2014), suggerendo che i militanti di Idlib si stessero facendo strada. Un altro esperto di OTV ha proclamato “proprio come siamo andati in Siria e seppellito la loro rivoluzione, seppelliremo questa rivoluzione in Libano” (L’FPM non ha mai partecipato militarmente in Siria, ma ovviamente lo ha fatto il suo alleato Hezbollah). Quando un attivista a Beirut ha risposto ai sentimenti dei rifugiati anti-siriani cantando “Bassil out, rifugiati in”, OTV ha preso quel filmato e ha aggiunto il titolo “Formazione americana, incitamento saudita, infiltrazione siriana”.

La connessione con la Siria è profonda. I manifestanti a Tripoli hanno cantato “Idlib siamo con te fino alla morte”, in riferimento alla città siriana che continua ad essere bombardata dalle forze aeree russe e siriane; I canti siriani sono stati adottati e riproposti in tutto il Libano. Come ha scritto un attivista siriano, “l’establishment politico del Libano, in particolare la parte che è ancora al potere, è sempre più infastidito da Tripoli e fa di tutto per mettere in cattiva luce la città e i suoi abitanti”. Il capro espiatorio di Tripoli potrebbe essere visto come un’estensione della risposta del governo libanese alla rivoluzione siriana, in particolare da parte di Hezbollah, Amal e FPM. Sebbene ufficialmente non affiliato, il governo libanese ha preso una piega dura contro i rifugiati dall’elezione di Aoun nel 2016, non che il governo fosse pro-rifugiati prima. In particolare Bassil si è associato a questa retorica, da cui il canto pro-rifugiato anti-Bassil.
Il distretto di Akkar è stato senza dubbio il capro espiatorio di politici e media anche più di Tripoli. Sebbene le proteste siano iniziate insieme al resto del Libano, la copertura mediatica rimane minima. Il 30 ottobre, i manifestanti ad Akkar, come altrove nel paese, hanno fatto eco al famoso canto siriano “yalla erhal ya Bashar” (affrettati a lasciare, Bashar [Assad]), adattandolo a “yalla erhal Michel Aoun”, come ascoltato per la prima volta in Beirut. Quella stessa notte, le forze di sicurezza hanno attaccato una marcia ad Akkar mentre i manifestanti cercavano di bloccare le strade. La risposta violenta delle forze di sicurezza ha portato i manifestanti a contrapporre la risposta relativamente mite delle forze di sicurezza di Beirut alla loro risposta ad Akkar.

La sollevazione del sud e dell’est

L’altra parte della storia è ambientata nel sud, in particolare a Nabatiyeh e Tiro (nota come Sour in arabo), così come nella valle della Bekaa ad est.
I manifestanti a Nabatiyeh sono stati tra i primi a manifestare la notte del 17 ottobre. Entro il 18 ottobre alcuni stavano già sfidando tabù di vecchia data. Il solo suggerimento che un manifestante ha fatto in diretta televisiva che Nabih Berri, il cui movimento Amal domina politicamente la regione accanto a Hezbollah, sia stato per troppo tempo presidente del parlamento – ha terrorizzato il giornalista che lo intervistava; il tweet che documenta questo fatto è stato eliminato. Per capire perché ciò sia accaduto e perché ciò che sta accadendo nel Sud e nell’est sia così importante, dobbiamo discutere della shabbiha.

La shabbiha è stata storicamente un fenomeno siriano. La parola stessa deriva da “fantasma” o “ombra”; è spesso associata alle Mercedes nere S600 (chiamate al-shabah) che sono state usate per rapire dissidenti e manifestanti siriani. Più tardi, il termine assunse una connotazione più generale, descrivendo gli uomini disposti a essere violenti in nome dei loro zu’ama (singolare: za’im), signori della guerra o capi principali locali, che spesso ricevono ordini dall’alto. Questo può significare qualsiasi cosa, dal picchiare i manifestanti a rapirli, torturarli e persino ucciderli. Quest’ultimo fatto non è più così comune in Libano, motivo per cui il termine shabbiha ora descrive qualsiasi attore filo-governativo disposto a infliggere violenza sui manifestanti.

Questa immagine [https://twitter.com/joeyayoub/status/1185511737317056512] ad esempio, mostra una banda shabbiha pro-Amal a Tiro il 19 ottobre; un video [https://twitter.com/chehayebk/status/1185506613584650240] di quella stessa mattina mostra queste shabbiha che attaccano i manifestanti. A causa della loro natura, è spesso molto difficile identificare la shabbiha e quasi impossibile “dimostrare” una catena di comando. Ma per motivi sia storici che contemporanei, sono state associate al Movimento Amal e a Hezbollah (sebbene la shabbiha armata di FPM abbia anche attaccato i manifestanti in almeno un’occasione).
Anche se Beirut ha subito due grandi attacchi della shabbiha, vale la pena notare che pure gli eventi del 29 ottobre, quando centinaia di uomini Amal/Hezbollah sono andati nel centro di Beirut per picchiare manifestanti e giornalisti e distruggere le tende allestite da manifestanti, impallidiscono rispetto a ciò che si sta diffondendo nel sud. Il 23 ottobre Amal/Hezbollah shabbiha ha attaccato i manifestanti a Nabatiyeh, ferendone oltre 20. Ciò ha così scioccato i manifestanti che una mezza dozzina di membri del consiglio comunale si sono dimessi il giorno successivo sotto pressione. In risposta all’attacco del 23 ottobre, il 24 ottobre è stato chiamato “il giorno della solidarietà con Nabatiyeh” e un meme è stato diffuso con le parole “Nabatiyeh non si inginocchia, chiedi ai sionisti”. Nella “Domenica dell’Unità” (3 novembre), i manifestanti a Kfar Remen, storicamente noti per la loro resistenza comunista all’occupazione israeliana nel Libano meridionale, hanno incontrato i manifestanti di Nabatiyeh. Alcuni manifestanti in fuga dalla polizia affiliata a Hezbollah di Nabatiyeh sono andati a Kfar Remen per unirsi alle proteste.
Questa è una svolta straordinaria per una regione del Libano che è spesso considerata il territorio incontrastato di Hezbollah e Amal; lo stesso vale per la valle della Bekaa. Ma le sfide alle potenze dominanti sono continuate. Abbiamo ascoltato canti come “Non vogliamo un esercito in Libano tranne quello libanese” (una sfida all’attuale potere militare dominante, Hezbollah), nonché solidale con Tripoli e il resto del Libano. Abbiamo visto la violenza della shabbiha a Bint Jbeil, una città al confine meridionale che ha sofferto molto sotto l’occupazione israeliana e poi durante la guerra del 2006. Tiro si unì anche la prima sera, cantando “la gente vuole la caduta del regime”; entro il 19 ottobre, la shabbiha stava attaccando violentemente i manifestanti. I giornalisti sono stati costretti a fuggire dalla scena mentre la shabbiha picchiava indiscriminatamente chiunque sulla sua strada. Un testimone ha descritto come la mukhabarat (polizia segreta) seguiva i manifestanti accanto alla shabbiha.
Per quanto riguarda la valle della Bekaa, la copertura mediatica è stata relativamente bassa. Ci sono state proteste a Zahleh, Baalbek, Taalbaya, Bar Elias, Saadnayel, Chtoura, Majdal Anjar, Al-Fakeha, Hasbaya, Rashaya e Al-Khyara, tra gli altri luoghi.

Le reazioni a questi attacchi della shabbiha furono un primo segno della rottura della proverbiale barriera della paura. I manifestanti a Beirut hanno cantato “Tiro, Tiro, per te noi risorgeremo” (che fa rima in arabo), uno slogan che è diventato rapidamente comune in tutto il paese.
Da allora, abbiamo visto ripetersi uno schema ormai familiare: la repressione è seguita dalla resistenza, che a volte è seguita dai sostenitori settari che si presentano in gran numero, ma altre volte porta i dimostranti a prendere il sopravvento. Questa è una parte importante della rivolta; c’è anche un chiaro tentativo da parte dei manifestanti di “convertire” i sostenitori del partito settario sotto lo stendardo unificato della politica anti-settaria. Fino ad ora, ciò si è rivelato relativamente efficace: mentre non possiamo mai valutare chi sostiene ufficialmente i partiti settari e chi no, prove aneddotiche e testimonianze dirette suggeriscono che la maggioranza della popolazione sia almeno d’accordo con il malcontento più ampio che motiva i manifestanti.

L’Establishment risponde

Questi attacchi potrebbero essere descritti come la parte fondamentale della strategia del governo di usare il bastone e la carota. Per quanto riguarda la parte della carota, è stata piuttosto confusa. Gli attori principali [dell’Establishment, ndt]  hanno cercato di offrire una risposta coerente alle proteste, soprattutto perché non sono d’accordo tra loro e stanno provando, come al solito, a navigare a vista basando la propria politica giorno per giorno. La natura decentralizzata e orizzontale delle proteste ha ostacolato i tentativi dello stato di demonizzarle o cooptarle.
Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha tenuto un discorso il 19 ottobre. Al momento della stesura di questo documento, Nasrallah ha già parlato quattro volte dall’inizio della rivolta, un fenomeno insolito in sé. Sebbene Nasrallah non detenga una posizione ufficiale nel governo libanese, è visto come un regista di fatto a causa del potere militare di Hezbollah. Ma nonostante abbia una reputazione tra i suoi seguaci di essere relativamente sobrio nei suoi discorsi, il suo primo discorso è stato caratterizzato da autentica rabbia, arroganza e condiscendenza. Ha detto direttamente ai manifestanti che stanno sprecando il loro tempo e che questo “mandato” (la sua scelta di parole potrebbe anche essere tradotta come “era” o “patto”) non cadrà, in riferimento all’accordo del 2016 che ha portato Michel Aoun a diventare il presidente e Saad Hariri a diventare Primo Ministro (Ricordiamo che Nabih Berri non ha lasciato la sua posizione di Presidente del Parlamento dal 1992). Ha persino accusato i manifestanti di essere finanziati da ambasciate straniere, portando i manifestanti a rispondere dicendo “Sto finanziando la rivoluzione”, che da allora è diventato un meme ed è apparso anche sui segnali stradali. Un videomaker libanese ha risposto pubblicando un video dello stesso Nasrallah che afferma che Hezbollah è finanziata al 100% e armata dall’Iran.
Mantenendo il sostegno al governo, Nasrallah ha messo il suo peso dietro due degli uomini più impopolari della politica libanese: Gebran Bassil dell’FPM e Saad Hariri dell’FM. Ciò ha rivelato l’establishment come opportunista e corrotto. Proprio come i partiti politici settari si sono uniti nel 2016 per sconfiggere Beirut Madinati [la lista civica “Beirut è la mia città” raggiunse il 40% ma arrivò dietro la coalizione dei partiti di governo, ndt] alle elezioni comunali, si sono nuovamente uniti per sconfiggere la rivolta popolare. Ma Nasrallah ha commesso un grave errore. Dicendo che questo governo non cadrà, ha aggiunto pressione su Hariri affinché si dimettesse. Hariri era già l’anello più debole di questa coalizione, poiché doveva fare appello ai suoi rivali, il FPM e Hezbollah, per rimanere al potere contro i desideri dei suoi stessi sostenitori. Il 29 ottobre Hariri alla fine si è dimesso, apparentemente sorprendendo Hezbollah. In tredici giorni, i manifestanti avevano imposto il crollo di un governo che aveva richiesto mesi e mesi per essere formato.
Nelle settimane dall’inizio della rivoluzione, la classe dei signori della guerra e degli oligarchi si è impegnata per affrontare una crisi che non aveva previsto.
Ma come detto sopra, altri partiti politici hanno cercato di cavalcare l’onda della rivoluzione. Ciò è stato particolarmente evidente con Geagea e la LF, la storica rivale della FPM – una rivalità che risale alle sanguinose battaglie di Geagea-Aoun durante la guerra civile e che fu riaccesa dopo il 2005. La LF ha visto un’occasione d’oro quando è iniziata la rivoluzione: abbandonando un governo impopolare, l’LF credeva di poter indebolire i suoi rivali, poiché entrambi i gruppi si appellavano agli stessi voti settari. Ci sono stati anche sostenitori di LF che hanno bloccato le strade; questo ha creato un enigma per i manifestanti antigovernativi. Dopo le dimissioni di Hariri, alcuni manifestanti preferiscono concentrarsi sui grandi attori attualmente al governo – Aoun e Berri, rispettivamente presidente e portavoce del parlamento – eppure lo slogan “kellon yaani kellon” continua a dominare le proteste. Nonostante ciò che i sostenitori dell’FPM/Amal/Hezbollah vogliono credere, l’LF non è popolare tra i manifestanti; ha un supporto trascurabile nella maggior parte dei luoghi che hanno visto le proteste. Vi è un forte consenso sul fatto che nessun partito politico settario sarà sostenuto, non importa quanto duramente ci provino.
È ancora troppo presto per sapere quali saranno i prossimi passi del governo. Al momento della stesura di questo documento, il governo del “custode” deve ancora nominare nuovi ministri e il parlamento ha in programma di discutere una legge che garantisca un’amnistia generale che copra reati quali abuso di autorità, negligenza e crimini ambientali. La situazione si sta sviluppando molto rapidamente.

Energia Creativa

Le proteste in Libano sono state incredibilmente creative. Gli studenti di Tripoli hanno usato le gru per portare altri studenti fuori dalle scuole; i panini distribuiti a Beirut sono stati etichettati “finanziati da Arabia Saudita/Francia/Stati Uniti” per deridere quelli che sostengono che i manifestanti siano finanziati da potenze straniere; uno dei tanti posti di blocco è stato trasformato in un salotto con divani, un frigorifero e persone che giocavano a calcio e compariva su AirBnB (gratuitamente); i manifestanti hanno occupato Zaitunay Bay, un lungomare privato costruito sulla costa rubata di Beirut, e hanno proiettato il film V per Vendetta (ovviamente il 5 novembre); le immagini dei leader settari sono state demolite e bruciate; la gente ha sbattuto le pentole, facendo eco ai cacerolazos del Cile, per le strade e dalle loro case; i volontari hanno istituito mense a Beirut e Tripoli; uno storico cinema abbandonato è stato recuperato e riproposto come cinema, aula e luogo di ritrovo per artisti; la gente formava una catena umana da nord a sud; i manifestanti che bloccavano le strade cantavano “baby squalo” a un bambino bloccato nel traffico; i manifestanti indossano regolarmente maschere di Guy Fawkes, Dalì e Joker; gli organizzatori hanno creato forum aperti per riunire i manifestanti di Tripoli, Saida, Nabatieh, Zouk, Aley e Beirut. I manifestanti hanno “bloccato” una stazione ferroviaria per scherzo, per evidenziare una questione importante: le ferrovie del Libano sono state distrutte durante la guerra civile e mai ricostruite. La privatizzazione degli anni ’90 è avvenuta a spese di spazi e servizi pubblici, motivo per cui gran parte delle proteste hanno cercato di rivendicarli, impegnandosi in azioni di guerriglia gardening e simili.
L’idea generale qui è che i manifestanti debbano reinventare costantemente le loro tattiche al fine di rendere difficile per lo stato tenere il passo. Ad esempio, è in corso un dibattito sull’efficacia dei blocchi stradali. L’obiezione principale è che i politici non vengano danneggiati dai blocchi tanto quanto le persone comuni che cercano di andare al lavoro o mandare i loro figli a scuola. Allo stato attuale, questa tattica è ancora in uso, ma non è più quella principale. Nei giorni scorsi, i manifestanti si sono trasferiti per occupare o protestare di fronte a edifici governativi e altri simboli del potere: tutto, dalle case dei politici alle centrali elettriche nazionali (la maggior parte del Libano non ha ancora elettricità 24/7), passando per le principali telecomunicazioni e operatori di dati, banche, comuni e così via. Ora ci sono dozzine di azioni diverse su base giornaliera, con la maggior parte delle azioni annunciate solo un giorno prima. Al momento della stesura di questo articolo, studenti delle scuole superiori e dell’università – e alcuni studenti ancora più giovani – hanno protestato per tre giorni a Saida, Beirut, Jounieh, Tripoli, Koura, Bar Elias/Zahleh, Mansourieh, Hadath, Baalbek, Nabatiyeh, Al-Khyara, Al-Eyn, Mazraat Yachouh, Furn El Chebbak, Akkar, Tannourine, Batroun e Byblos/Jbeil, tra gli altri luoghi.
C’è stato anche uno sforzo online per contrastare le false notizie diffuse dai sostenitori del governo e degli stessi partiti politici, nonché per aiutare i manifestanti a rimanere informati più in generale: el3asas (“la guardia della città”) sta verificando la diffusione delle notizie sui social media e dalle agenzie di stampa ufficiali; una piattaforma online chiamata Daleel Thawra (“directory della rivoluzione https://www.daleelthawra.com/”) sta tenendo traccia delle varie azioni, attività e iniziative; TeleThawra (“TV della rivoluzione”) offre un’alternativa al Télé Liban di proprietà del governo libanese; Fawra Media (“Outburst Media”) mira a documentare “le persone e i gruppi che sostengono la rivoluzione libanese”; Sawt Alniswa (“Voice of Women”) è una rivista a conduzione femminile pubblicata settimanalmente; e Megaphone News è uno dei principali media indipendenti dal 2017.

Onde d’urto sotterranee

Questi sviluppi hanno aperto uno spazio per le persone e le narrazioni che sono generalmente soppresse a livello nazionale o di partito.
Oltre ai suddetti attivisti, palestinesi e siriani hanno partecipato attivamente alle proteste, in particolare nelle due maggiori città, Beirut e Tripoli. Alcuni elementi dei media settari ne hanno approfittato per ribadire le loro accuse secondo cui le proteste sono “infiltrate da stranieri”. Consapevoli di ciò, da allora molti palestinesi e siriani hanno imparato a muoversi nella politica libanese, principalmente mantenendo un profilo basso. Oltre a una protesta nel campo profughi di Ain El Helweh, dove i palestinesi hanno espresso direttamente solidarietà con le proteste libanesi, i palestinesi di Saida, Beirut, Tripoli e altrove dove finora hanno partecipato, hanno fatto attenzione a “restare in disparte nelle manifestazioni libanesi per evitare di essere accusati di istigare o usurpare il movimento di protesta ”. Ciò, in particolare, ha reso più difficile per gli xenofobi giocare il loro solito gioco, dato che è impossibile distinguere tra popolo libanese, palestinese e siriano a meno che non agitino le loro rispettive bandiere nazionali. (Questo testo: https://globalvoices.org/2018/02/01/lebanons-scapegoating-of-refugees-did-not-start-with-syrians-but-with-palestinians/ offre alcune informazioni sulla tattica del capro espiatorio).
Abbiamo anche visto, in misura minore, i canti dei manifestanti in solidarietà con gli egiziani, i sudanesi e altre parti arabe del Medio Oriente e della regione del Nord Africa, e c’è una certa consapevolezza, per lo più espressa sui social media, delle proteste in corso e della violenza in Iraq, Hong Kong, Rojava e Cile. Anche se rapidamente dimenticate a livello nazionale, abbiamo anche assistito a rivolte il primo giorno nelle carceri di Zahle e Roumieh in solidarietà con i manifestanti, nonché per richiamare l’attenzione sulle orribili condizioni carcerarie del Libano e per ripetere la richiesta di una legge di amnistia generale, quando in molti casi le persone vengono arrestate per presunti legami con gruppi jihadisti, possesso di droga e così via.
Allo stato attuale, non vi è stata alcuna grande partecipazione da parte dei lavoratori domestici migranti, che sono generalmente confinati nelle case familiari libanesi oppure stanno languendo in orribili prigioni sotterranee con diritti politici minimi o nulli sotto il famigerato sistema Kafala (sponsorizzazione) del paese. È improbabile che ciò cambi nel prossimo futuro, date le restrizioni imposte loro, ma se lo slancio delle proteste continua, potrebbe aprire abbastanza spazio politico per formare nuove connessioni.

La rivoluzione è femminile

Fino ad ora, le proteste si sono concentrate sulla lotta alla corruzione diffusa e al sistema settario. Ma il ruolo delle femministe, tra cui LGBTQ+ e / o attiviste non libanesi, suggerisce un tentativo da parte dei segmenti di manifestanti di creare un movimento più progressista e inclusivo. Le femministe hanno tenuto marce separate per evidenziare le strutture patriarcali che opprimono in modo sproporzionato le donne e le persone LGBTQ+, in particolare il fatto che le donne libanesi non possono ancora trasmettere la loro nazionalità ai loro coniugi e figli e il fatto che le leggi settarie del paese che regolano tali affari come il matrimonio, il divorzio, la custodia e così via discriminino le donne. Sia le donne che gli uomini hanno marciato per il diritto di trasmettere la nazionalità, a Tiro, a Tripoli e altrove.
Le donne hanno anche usato i loro corpi per proteggere altri manifestanti dalla polizia [https://twitter.com/lebnenereine/status/1184908295770968064]e prevenire l’escalation della violenza. Come ha affermato Leya Awadat, una delle partecipanti a queste “mura femministe”, “In questa società sciovinista, si vede male che gli uomini picchino pubblicamente le donne” (con l’enfasi sulla parola “pubblicamente”), quindi lo hanno usato a loro vantaggio.
Anche le persone LGBTQ+ sono state oggetto di insulti omofobi. Uno shabbiha che ha attaccato i manifestanti il ​​29 ottobre è stato ascoltato in diretta televisiva urlare “Gli uomini sono fottuti uomini!” Un ospite della OTV ha affermato che i manifestanti vogliono distruggere il settarismo in nome di una sorta di “agenda gay”.

Le marce femministe si incontrano sempre con le marce principali. L’idea non è quella di creare movimenti separati, ma piuttosto di far conoscere la loro presenza all’interno delle più ampie richieste di giustizia e uguaglianza. Le femministe hanno guidato molti dei blocchi stradali e lanciato molti slogan, oltre a mantenere una presenza attiva nelle attività quotidiane che aiutano a mantenere lo slancio di questa rivolta. Un modo per riuscirci è riappropriarsi di slogan e canzoni, sia tradizionali che recenti, e rimuovere le loro connotazioni sessiste. La famosa canzone “hela hela” contro Gebran Bassil insulta sua madre – è molto comune nel mondo di lingua araba usare le donne o i loro genitali come insulti – quindi le femministe l’hanno cambiata per insultare sia Gebran che “suo zio” (il presidente, Michel Aoun), creando un canto che da allora ha preso piede. Si sono riappropriate anche di una canzone tradizionale usata per mandare le donne al matrimonio, cambiando il testo in “andò a protestare, andò a chiudere le strade, andò a far cadere il governo”.

Cosa accadrà adesso?

Contrariamente a quanto alcuni avevano ipotizzato, adesso “l’elefante nella stanza” non è più il settarismo. Mentre il rischio di tensioni settarie rimarrà probabilmente per il prossimo futuro, il rischio più immediato è l’incombente crisi economica. Secondo me, questo è il motivo per cui forme di lotta più radicali stanno emergendo solo timidamente. La paura che le cose peggiorino molto è realistica; è molto difficile parlare di modi alternativi di organizzarsi, anche trascendendo le meschine (e pericolose) distinzioni libanesi/non libanesi, quando la preoccupazione principale della maggior parte delle persone è la probabilità di ritrovarsi con la scarsità di medicine e carburante e forse anche di carenze alimentari. Mentre una politica più radicale può svilupparsi organicamente se la situazione economica peggiora, è anche possibile invece che si rafforzino gli elementi più nazionalistici e settari della politica libanese. Queste ultime tendenze hanno decenni di esperienza al potere, mentre le forme più aperte di politica sono relativamente nuove, appena costruite per le strade e online.
Di conseguenza, una percezione dominante tra i manifestanti è che dobbiamo essere sia arrabbiati che cauti.
Detto questo, le mense, i presidi sanitarii gratuiti e il recupero di siti storici e aree costiere privatizzati sono tutte iniziative che implicitamente affermano ciò che possiamo chiamare i beni comuni. Ciò è cruciale da comprendere in un paese che non ha avuto beni comuni nella memoria recente, dove l’ideologia “pro-mercato” dominante precede l’istituzione dello stato nazionale del Libano.
Sebbene si possa sostenere che gli attori principali siano all’incirca una dozzina di personaggi pubblici, la ragione per cui le reti clientelari hanno funzionato finora ha anche a che fare con l’esistenza di un sottogruppo della popolazione che beneficia di queste reti. Si posizionano come intermediari tra gli oligarchi e coloro che cercano wasta (bustarelle, nepotismo, “chi conosci”) per ricevere servizi non forniti dallo stato. In altre parole, alcune persone hanno incentivi finanziari per mantenere le reti clientelari contro la creazione di qualsiasi cosa che possa essere chiamata istituzione pubblica. Riformare e poi rovesciare un tale sistema sarà difficile. Rovesciare un tale sistema mentre ci si confronta con il brutale potenziale dello stato sarà ancora più difficile.
Ma se la libera coalizione di progressisti anti-settari non affronta questo problema, è probabile che lo stato farà fare da capro espiatorio a quelli che ha già preso di mira: rifugiati e lavoratori siriani e palestinesi, lavoratori domestici migranti (principalmente dall’Etiopia, dallo Sri Lanka e dalle Filippine, in modo schiacciante donne), persone LGBTQ+ (cittadine e non cittadine), prostitute e simili. Qualsiasi individuo che non si adatta al paradigma patriarcale-capitalista-settario è a rischio di violenza fisica, psicologica e simbolica.
Infine, e questo è collegato al punto precedente, sconfiggere il settarismo politico e “il modo settario di fare le cose” è visto come una priorità immediata. Questo sistema, che risale al 1860 in una sua manifestazione o in un’altra, sta perdendo la sua aura di essere intoccabile con le generazioni del dopoguerra, sia i Millennial che, in particolare, la Generazione Z – coloro che hanno vissuto per tutta la vita ascoltando i loro genitori lamentarsi “Dov’è il governo? ”quando devono pagare due bollette separate per l’elettricità (privata e pubblica) e tre bollette separate per l’acqua (acqua corrente pubblica e privata, acqua potabile privata in bottiglia). Man mano che i signori della guerra invecchieranno, (due dei più potenti, Aoun e Berri, hanno rispettivamente 84 e 81 anni) vedremo l’inevitabile declino del settarismo dell’era della guerra civile. Ma mentre questo potrebbe essere inevitabile, la domanda è se i progressisti anti-settari riusciranno a costruire alternative sostenibili che possano sfidare il vecchio ordine.

Ancora tu. Il ritorno delle rivolte contro lo stato

La domanda è tanto semplice quanto complessa: sta nascendo un nuovo ciclo rivoluzionario a livello globale? Ampie rivolte si stanno diffondendo in numerosi stati in diversi punti del pianeta, portando lo scontro nelle piazze ad un livello quasi insurrezionale. Ne è un esempio la rivolta di Santiago del Cile, fatta scattare dagli studenti dei licei, una protesta scattata contro l’aumento del biglietto della metropolitana. Abbiamo visto milioni di persone scendere per le strade del paese latino americano, con la polizia che ha arrestato la gente entrando nelle case dei manifestanti la notte come ai tempi di Pinochet e non sono mancati nemmeno gli omicidi e le pallottole sparate nelle piazze. Il presidente e il ministro dell’Interno (un vecchio arnese della dittatura riciclato in tempo di democrazia) sono passati dallo scherno all’aggressività alle finte lacrime di coccodrillo e ad una improbabile richiesta di perdono alle piazze sempre più in rivolta. Ultimamente vediamo anche un disperato tentativo di governo e partiti di opposizione uniti per incanalare in senso istituzionale e concertativo le rivendicazioni di una piazza che si teme possa assumere tratti sempre più insurrezionali. Questo in Cile, ma abbiamo altri esempi in altri continenti di proteste che stanno facendo tremare i palazzi del potere e una struttura consolidata di poteri settari, religiosi o laici che siano, capace di mettere in crisi tutte le varie diplomazie e gli interventi geopolitici nelle aree in questione. Stiamo parlando delle rivolte in Libano come in Iraq, ma ci sono anche altri punti incendiati nel globo in Africa come in Asia e in misura minore anche in Europa (Francia e Catalogna nello specifico). Parliamo ad esempio in breve di quanto sta succedendo in Iraq, un paese strategico storicamente per tutta una serie di questioni, dall’invasione americana di Bush ad oggi, con la nascita dell’ISIS e la creazione di un fragile sistema democratico in cui prevale la distribuzione settaria (a prevalenza sciita filo-iraniana) con una diffusissima corruzione della politica. Se lo scontro in Iraq negli anni scorsi aveva riguardato veri e propri eserciti statuali in lotta tra loro, oggi abbiamo una rivolta che è diretta contro lo stato, una potenziale insurrezione contro i poteri politici cui è stata affidata la gestione della democrazia. Dal canale Telegram “Rojava Resiste” leggiamo le cronache di pochi giorni fa: “Scioperi e blocchi a oltranza di porti, uffici pubblici, scuole, pozzi petroliferi, ponti e strade. Il governo reagisce chiudendo internet e dichiarando il coprifuoco a Bassora. 8 morti sotto i proiettili della polizia tra Baghdad, Nassiriya e Umm Qasr (porto commerciale meridionale bloccato dai manifestanti da giovedì scorso), facendo salire il bilancio complessivo a 260. Cominciano ad assumere un peso i casi di desaparecidos, mentre aumentano le pressioni dell’Iran per un intervento più duro delle milizie sciite irachene sue affiliate. Il contesto è ormai sull’orlo di una aperta guerra civile. I manifestanti chiedono il cambiamento dell’intero sistema politico e risposte radicali alla disoccupazione dilagante, alla mancanza di servizi di base e a un sistema politico settario che ha riempito le tasche di pochi malgrado le vaste entrate statali provenienti dall’industria petrolifera. La classe dirigente irachena e il settarismo istituzionale hanno una doppia copertura internazionale: è figlia dell’occupazione USA ed è al tempo stesso legata a Teheran. Mentre la politica economica ultraliberista ha creato una dipendenza totale dal libero mercato e una accettazione dei pacchetti di aggiustamento strutturale di FMI e Banca Mondiale”. Come in Libano e come in Cile abbiamo qui un attacco diretto che – finalmente – si dirige non in una direzione settaria o corporativa ma richiama immediatamente allo scontro contro lo stato, contro le diseguaglianze sociali, contro la politica e – occorre sottolinearlo – contro la stessa democrazia. Questo è il punto cruciale di quello che sta accadendo oggi in questi paesi in rivolta: di fronte all’ascesa globale del fascismo (quello di Trump, di Putin e di Erdogan, di Salvini e compagnia) se la sinistra occidentale è in crisi e cerca solo di dimostrare di essere più capace della destra nel gestire il capitalismo, abbiamo una spinta diretta che individua con semplicità l’esistenza di una alternativa tra stato e insurrezione, non lasciandosi irretire dal tentativo di ingabbiare dentro l’antifascismo democratico il desiderio di liberazione. Dopo quasi dieci anni e dopo il ciclo delle rivoluzioni arabe sembra dunque esserci finalmente qualcosa di nuovo e insieme di antico che ritorna. La risposta alla domanda iniziale, se ci troviamo di fronte ad un nuovo momento rivoluzionario mondiale, la potremo forse dare nei prossimi mesi, con lo sguardo anche alla eroica resistenza del Rojava contro la brutale invasione turca.

Nuovo centro-sinistra, vecchie politiche di repressione e rapina

“Parlamento”by agenziami is licensed under CC BY-SA 2.0

Il nuovo governo cosiddetto “giallo-rosso” si avvia a varare la sua prima manovra economica. Da molti osservatori è definito come un governo molto spostato a sinistra, tanto che ha anche incassato in un sol colpo l’appoggio di Sinistra Italiana e del gruppo di Liberi e Uguali presente in parlamento. Si potrebbero fare molte considerazioni su questo nuovo esecutivo, dalla linea di continuità rispetto alle politiche sull’immigrazione al mantenimento dei decreti sicurezza fino al sempiterno finanziamento delle imprese private espresso attraverso il cosiddetto cuneo fiscale. Proprio quest’ultimo provvedimento ci riporta indietro di diversi anni e ci ricorda una cosa fondamentale, da tenere sempre a mente: nel nostro paese il centro-sinistra si è macchiato di crimini orrendi, dalle guerre alla costruzione dei lager per migranti fino alla precarizzazione del mercato del lavoro. Quello che ancora oggi viene acclamato come il padre nobile del centro-sinistra italiano, Romano Prodi, inaugurò nel 1996 con l’appoggio iniziale di Rifondazione Comunista una stagione che ha segnato un profondo arretramento per il nostro paese, con un forte aumento delle disuguaglianze sociali e della repressione poliziesca, un governo che ha spostato la ricchezza dal basso verso l’alto creando i presupposti per anni caratterizzati da un’ulteriore svolta conservatrice e razzista in Italia. Questo sia detto a chi ancora oggi si aspetta qualcosa dalla sinistra parlamentare e da chi pensa sia efficace una possibile strategia del “male minore” rispetto alle destre fasciste e razziste. Che il centro-sinistra fosse espressione diretta della borghesia criminale del nostro paese lo aveva invece ben presente la deputata Mara Malavenda, eletta con Rifondazione Comunista nel 1996 e poi espulsa dal partito per il suo voto contrario alla fiducia verso il nascente governo Prodi. Riportiamo qui il suo intervento fatto alla camera dei deputati il 31 maggio del 1996, giorno del voto di fiducia all’esecutivo, per dare un piccolo contributo di memoria storica in rispetto di chi ha avuto la lucidità di opporsi ad un governo che avrebbe poi creato il Pacchetto Treu per la precarizzazione del lavoro e costruito i lager per migranti con la legge Turco-Napolitano.

MARA MALAVENDA. Signor Presidente, signore e signori, ieri nella piazza di Montecitorio c’erano i lavoratori dell’Alfa Romeo con le bandiere rosse e i rappresentanti dello SLAI-COBAS. Sono lavoratori che erano qui per rivendicare i loro diritti e per chiedere un atto riparatorio per quella che è stata la svendita dell’Alfa Romeo (la prima vergognosa privatizzazione nel nostro paese) e soprattutto per difendere il lavoro. Eravamo in 27 mila, siamo ridotti a 14 mila e in questi giorni vi saranno 3 mila e 400 nuove «espulsioni»! L’abbiamo chiesto a lei, Presidente, perché all’epoca, quando c’è stata la truffa della svendita dell’Alfa Romeo, lei era presidente dell’IRI. Adesso lei è qui e ci aspettavamo di sentire qualche parola; le abbiamo posto delle domande, glielo voglio ricordare! Quale responsabilità ha avuto lei in prima persona nella svendita dell’Alfa Romeo insieme con Craxi, Darida, Nicolazzi, De Michelis, De Vito, De Lorenzo, Zanone, Goria e Romita? E come mai all’epoca, la sera prima aveva comunicato ai sindacati che l’Alfa sarebbe stata data alla Ford e poi, invece, all’indomani mattina si seppe che era stata regalata alla FIAT? E perché non ha dato elementi utili alla magistratura per accertare quante mazzette e a chi sono state date per la cessione dell’Alfa? O forse questi elementi li ha già dati a Di Pietro nell’interrogatorio del luglio del 1993 al palazzo di giustizia di Milano? Le abbiamo chiesto perché nessuno degli impegni presi all’atto della cessione e formalizzati con la delibera del CIPI del novembre del 1986 sia stato mantenuto. Sono stati chiusi gli stabilimenti della Lancia di Chivasso, della SEVEL-Campania, dell’Autobianchi di Desio, della Maserati di Lambrate! La FIAT sta chiudendo Arese e sta smantellando Pomigliano. Gli 800 lavoratori impiegati nei cablaggi erano qui ieri a manifestare. Al dottor Di Pietro, che è del suo Governo, ho chiesto: perché non ha indagato sulla svendita dell’Alfa? Perché è stata insabbiata la tangente di 10 miliardi data dalla FIAT a Pascucci? Perché 19 milioni di dollari di mazzette del conto « Sacisa » della FIAT sono stati trasferiti dalla Svizzera alla FIAT-Impresit di Sesto San Giovanni invece di essere sequestrati? Queste erano le mie domande! La FIAT è lo Stato nello Stato; la FIAT è il processo a Romiti, è sistema di corruzione, è Pascucci, sono i fondi neri, è lo spionaggio nelle fabbriche! I lavoratori sono spiati e controllati dai servizi segreti: questa è la FIAT! Detto questo, signor Presidente, dai suoi ministri non ci aspettiamo niente di buono. Dini è colui che ha pensato prima alla sua pensione e poi ha tagliato quelle degli altri, in modo vergognoso. Flick è l’avvocato di Agnelli, della FIAT e di De Michelis. Questa è corruzione! Si aspettano da lui quel «colpo di spugna» per insabbiare tutto. Forse è questa la verità! Ebbene, questo Governo, i suoi ministri, non possono avere il nostro consenso: è un Governo antioperaio e antipopolare. È per questo che voto contro.

Abolire il carcere: una battaglia rivoluzionaria

“Kilmainham Gaol”by luca.bartoletti is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

di lino caetani da ghinea di settembre

Eravamo nel 2006 quando l’ultimo grande indulto generalizzato portò la popolazione carceraria da quasi 70.000 detenut* a 25.000 in meno. Ricordo il dibattito dell’epoca perché facevo parte di una rete locale per l’amnistia: fu un momento importante per la vita di migliaia di persone, si discuteva di sovraffollamento e di recidiva, mentre purtroppo già montava quel clima forcaiolo e giustizialista che infesta oggi il nostro paese. Passano alcuni anni e nel 2013 c’è di nuovo un trend in crescita di detenzioni, si ritorna a 60.000 persone stipate nelle patrie galere e il governo Letta fa un nuovo (l’ultimo ad oggi) indulto per 10.000 detenut*.

Com’è abbastanza noto, oggi siamo punto e daccapo, di nuovo 60.000 persone nelle carceri, una condizione di sovraffollamento che viene stimata tra le 10.000 e le 15.000 unità in meno a disposizione e soprattutto una situazione esplosiva con ripetuti e documentati episodi di violenza da parte delle guardie, suicidi e atti di autolesionismo: una condizione generale pessima a dir poco. Tutto ciò avviene di fronte a due fenomeni che sono in netta contraddizione tra loro: da un lato abbiamo un deciso calo dei reati violenti, degli omicidi e delle rapine, mentre dall’altro lato aumenta a dismisura il controllo sociale e la penalizzazione di comportamenti che vengono definiti socialmente pericolosi, ovvero aumenta la popolazione carceraria non perché aumentino i reati ma perché ogni singolo attimo della nostra vita quotidiana viene visto sotto la lente d’ingrandimento del controllo poliziesco e diventa passibile di punizione.

Questo slittamento è stato descritto al suo nascere da pochi illuminati punti di osservazione, basti pensare a Gilles Deleuze che parlava di “società del controllo” già nel 1990: oggi abbiamo sotto i nostri occhi questa dimensione securitaria diffusa un po’ ovunque, basta farsi un giro in una stazione ferroviaria per vedere come siano repressi fenomeni di alto rischio sociale come il sedersi su una panchina o mangiarsi un panino. Si potrebbe dire che lo Stato tuteli i propri cittadini dalla pericolosa “emergenza stanchezza” di chi aspetta un treno. Le vecchie sale d’attesa notturne, ovviamente, anche quelle non esistono più: troppo pericolose. A fronte di questo fenomeno palpabile, verrebbe da chiedersi come mai lo Stato non intervenga per una razionalizzazione della struttura nazionale carceraria, costruendo altre galere per mitigare fenomeni rischiosi quali il sovraffollamento, come pure invocano praticamente tutti i partiti di governo o di opposizione che siano.

A mio avviso questo avviene perché la priorità dello Stato, piuttosto che regolare il sovraffollamento che pure causa problemi a guardie e sbirri vari, è quella di tenere separato e lontano il carcere dal resto della società. Nelle strade deve esserci l’incentivo blindato al consumo controllato da guardie onnipresenti (leggasi “decoro”) ma chi è punit* deve sparire dalla nostra vista, deve diventare un* reiett* lontan* verso cui l’ultima cosa che deve nascere è la solidarietà o l’immedesimazione. Il carcere è diventato lo snodo centrale per la riproduzione del dominio del capitale nelle nostre società, basti pensare all’enorme gualg a cielo aperto che sono diventati gli Stati Uniti d’America, con una forte messa a valore della popolazione carceraria ottenuta tramite la privatizzazione delle galere che ben conosciamo grazie alla serie tv “Orange is the new black”.

Questo dato di fatto è poco affrontato dai movimenti e dalla sinistra di classe nel nostro paese nella misura in cui essi restano legati a una visione riformista e integrata nel sistema capitalista. La debolezza del movimento rivoluzionario in Italia si esprime principalmente attraverso questa grave mancanza di prospettiva sul carcere: si parla di sovraffollamento, di migliori condizioni detentive, di depenalizzazione di alcuni reati, si discute in alcuni casi del 41 bis e dell’ergastolo ma rarissimamente si prova a pensare e soprattutto a lottare per l’abolizione del carcere. L’abolizionismo oggi è una corrente teorica minoritaria a livello internazionale ma nel nostro dibattito politico risulta pressoché assente, mentre ci sarebbero molti esempi a cui rifarsi e numerose pratiche da sviluppare.

Due sono gli esempi che mi vengono in mente e di cui abbiamo spesso parlato su “la piega” (vedi https://lapiega.noblogs.org/post/category/carcere/) il femminismo anticarcerario diffuso nelle pratiche comunitarie di giustizia trasformativa e l’esperienza delle comunità rivoluzionarie curde nel Rojava liberato. In entrambi i casi si affrontano eventuali atti violenti (come uno stupro o un omicidio) in maniera diametralmente opposta a quanto avviene nelle nostre “democrazie”: la persona che ha commesso questi atti violenti viene presa in carico dalla comunità e dentro la stessa comunità si discute (in primis con le vittime dirette o indirette dell’offesa) di una redistribuzione giusta ed equa del fatto commesso. Solo in ultima istanza si arriva ad un allontanamento dalla comunità, ma questo allontanamento non viene pensato nei termini di una detenzione o della creazione delle strutture detentive così come le conosciamo, gestite da un potere statuale. “La giustizia trasformativa si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della persona che l’ha subita, ma anche le condizioni che hanno permesso questa violenza. In altre parole, invece di guardare l’atto (gli atti) di violenza in un contesto vuoto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare in modo che ciò non accada mai più? Che cosa deve accadere perché la sopravvissuta possa guarire?”[https://lapiega.noblogs.org/post/2018/11/27/come-possiamo-conciliare-labolizione-delle-galere-con-il-metoo/ ].

È importantissimo, dunque, studiare e conoscere queste alternative per costruire una pratica rivoluzionaria all’altezza dei tempi. Nel caso italiano è fondamentale partire da una ricostruzione della solidarietà con le persone carcerate, con le loro famiglie, per creare innanzitutto quelle comunità che riallaccino il legame che lo Stato vuole recidere isolando chi è detenut* nelle galere. Ne parla ogni settimana la trasmissione radio “Battiture”, in onda su www.radioasilo.it il mercoledì alle 19 e disponibile poi nella sezione podcast del sito. In ultima analisi, la società liberata che vogliamo costruire non avrà galere di nessun tipo: non c’è nessun comunismo possibile con il carcere.

Il welfare animale nella campagna delle presidenziali USA

Negli Stati Uniti è tempo ormai di candidature per le elezioni presidenziali e tra le varie tematiche su cui si confrontano i politici democratici, tra di loro e con l’amministrazione Trump, fa capolino anche la questione del “welfare animale”. Bisogna innanzitutto fare presente come da un lato questo interesse per il benessere e la salute delle altre specie sia condizionato nel quadro di proposte politiche molto limitate e cautamente riformiste all’interno di un quadro, quello dell’industria agroalimentare, che di per sé persegue finalità di sfruttamento e di sterminio a scopo di profitto. Desta comunque interesse fare un ragionamento generale su come queste tematiche siano sempre più al centro dell’attenzione e del dibattito politico americano mentre in Europa sono ancora fuori dal confronto istituzionale se non per quanto riguarda alcune proposte dei partiti ecologisti. Un esempio lampante può essere quello dell’appena nominato governo cosiddetto “giallo-rosso” che da un lato ha annunciato una svolta in direzione di una “green economy” con investimenti a favore dell’ambiente fuori dai vincoli di deficit, mentre dall’altro ha nominato una ministra dell’agricoltura che ha rilasciato dichiarazioni inequivocabili sul tema. La politica renziana Teresa Bellanova, intervistata da Lilli Gruber nel talk show “In onda”, ha infatti affermato come le priorità del suo ministero siano relative al contrasto dei virus come la Xylella e alla certificazione di qualità dei prodotti alimentari. Gli animali praticamente non esistono se non come strumento di consumo e di espansione dell’industria made in Italy, così come nessun cenno è stato fatto alla disastrosa situazione dei lavoratori e delle lavoratrici migranti nelle campagne, tra chi lavora senza documenti e senza casa a cottimo sotto il sole cocente della Puglia o della Calabria. Un esordio, quello della ex bracciante Bellanova, totalmente in linea con il suo predecessore leghista Centinaio. Tornando agli USA, il dibattito sulle cause dell’inquinamento e del relativo aumento del riscaldamento climatico ha finalmente messo in primo piano con dati inoppugnabili anche il ruolo degli allevamenti intensivi, per cui diventa difficile anche per i candidati democratici del paese dei mangiatori di cheesburger continuare a fare finta di niente. Nella sinistra USA ci sono politici come Bernie Sanders che hanno presentato per le primarie democratiche un programma di “animal welfare” piuttosto vago ma comunque abbastanza significativo: https://feelthebern.org/bernie-sanders-on-animal-welfare/ Si va dalla richiesta di una diminuzione della crudeltà sugli animali da allevamento fino alla protezione di alcune specie particolari e in via di estinzione. Altri programmi simili sono presenti nelle piattaforme per le primarie democratiche di altr* candidat*. La piattaforma più articolata è quella di Juliàn Castro https://veganista.co/2019/08/19/julian-castro-unveils-groundbreaking-animal-welfare-plan/ che si sofferma sui test animali per i cosmetici, sulla caccia così come sulla stessa riduzione degli allevamenti industriali. Cory Booker, senatore del New Jersey, è un vegano dichiarato (esempio abbastanza raro nel mondo della politica istituzionale) e ha una piattaforma simile a quella di Castro: https://corybooker.com/issues/animal-welfare/ Tra i pezzi grossi delle primarie c’è sicuramente Joe Biden: nella piattaforma dell’ex vicepresidente di Obama non c’è traccia di punti riguardanti il welfare animale ma abbiamo comunque alcuni suoi atti del passato che lo hanno visto battersi contro la macellazione equina, la caccia di animali esotici e dei delfini. Una delle sue principali concorrenti alla nomination è Elizabeth Warren: la candidata del partito democratico si contende con Bernie Sanders (sulle linee di politica generale) la palma del programma più radical e spostato a sinistra. Per quanto riguarda le politiche verso gli animali, invece, diversamente da Bernie, la Warren appare come una convinta nemica della liberazione animale, una specista di tutto tondo: ha infatti sponsorizzato una campagna a favore dell’industria casearia https://veganista.co/2019/07/09/the-dairy-pride-act-is-a-full-blown-attack-on-vegan-businesses-so-why-did-elizabeth-warren-back-it/ finanziata dalle lobby agroalimentari e si è pronunciata in modo nettamente negazionista rispetto al ruolo degli allevamenti nei cambiamenti climatici. Chiedete alla Warren di parlarvi del Green New Deal ma non ditele che il cheesburger che si sta mangiando è la causa dell’inquinamento che sta distruggendo il pianeta. Queste sono dunque le principali posizioni dei politici democrat. Il vincitore o la vincitrice delle primarie si troverà di fronte un avversario tradizionalmente collocato su posizioni speciste e di sterminio animale, nonché di un forsennato negazionismo climatico tout court. L’amministrazione di Donal Trump si è spesa infatti in questi anni attraverso il suo dipartimento per l’agricoltura per aumentare la velocità della macellazione dei suini nelle linee dei mattatoi, attualmente “limitate” a soli 1.106 maiali massacrati all’ora https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-12-06/usda-plan-to-speed-up-slaughter-line-is-challenged-as-flawed Inoltre, l’amministrazione Trump si è spesa contro la protezione delle specie in via di estinzione: https://eu.usatoday.com/story/news/politics/2019/08/12/donald-trump-administration-weaken-endangered-species-act/1985543001/ Insomma, chiunque affronterà Trump alle prossime elezioni presidenziali troverà un candidato ben agguerrito a difesa di tutti i privilegi specisti, anche quelli più odiosi e facilmente evitabili.

lino caetani