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Prigione di As Suwayda in Siria, detenuti in sciopero della fame

Fonte:

https://www.facebook.com/DetaineesVoice.multilingual/posts/?ref=page_internal&_fb_noscript=1

Per il quarto giorno di fila, i detenuti della prigione centrale di As Suwayda (nell’omonima regione nel sud ovest della Siria) continuano il loro pacifico sciopero dela fame.

Continuano a rifutare il cibo, nonostante i ripetuti tentativi dell’amministrazione penitenziaria, che ora chiede ai detenuti solo attraverso la radio della prigione di riceverlo, senza consegnarlo materialmente.

Un detenuto, stremato dallo sciopero, ha ricevuto le cure mediche necessarie.

L’amministrazione penitenziaria incrementa i controlli nelle varie ali della prigione, tentando di spingere i detenuti a sospendere lo sciopero accusando alcuni di loro di incitare alla protesta e impedire ai loro colleghi di ricevere cibo, che è rifiutato e respinto in massa da tutti.

La ribellione è iniziata la sera di lunedi 23 aprile, quando più di 500 detenuti della prigione centrale di As Suwayda hanno iniziato a protestare dopo le sentenze emesse contro di loro dalla Corte del terrorismo, dai Tribunali sul campo e dal Tribunale militare. I detenuti chiedono la presenza di un comitato giudiziario per riconsiderare i loro casi, si oppongono con forza al trasferimento di coloro che hanno terminato le loro condanne ed al previsto rilascio e consegna di altri a corpi di sicurezza sconosciuti che sarebbe solo il preludio di una sparizione forzata.

Rilasciano i punk cubani, ma…

da https://www.havanatimes.org/sp/?p=132150

Nelle prime ore di questo lunedì [9 aprile 2018], gli otto adolescenti e il minore che erano stati sequestrati arbitrariamente dalle forze di polizia cubane venerdì 6 aprile sono stati finalmente rilasciati.

Nonostante fosse stato annunciato alle famiglie degli arrestati che i ragazzi sarebbero stati condannati ad una pena massima di quattro anni di carcere o gli sarebbe stata inflitta una multa di 2.500 pesos (come è successo in altre occasioni), alla fine è stata consegnata soltanto una “Lettera di Avvertimento” ad ognuno dei ragazzi.

Questo è il tipico modus operandi della polizia cubana, che troppo spesso non offre informazioni attendibili sui luoghi in cui si trovano i detenuti, né rivela le vere accuse o motivazioni per l’arresto.

Nel caso dei punk, si aggiunge la discriminazione delle istituzioni verso quel gruppo sociale.

Quasi non hanno permesso le visite agli adolescenti. Dopo che i genitori dei ragazzi hanno scoperto da soli dove le loro figlie e i loro figli fossero ingiustamente trattenuti dietro le sbarre, le guardie hanno dato loro solo 5 minuti per vederli e fargli mangiare quello che gli avevano portato. Molti non sono riusciti a finire il cibo, in così poco tempo.

Ovviamente non credo che la polizia sia preposta per far rispettare la legge. È da molti anni ormai che abbondano gli esempi di come proprio queste forze repressive abbiano violato le leggi in vigore, ignorandone la forma, mentre si applicano in maniera indiscriminata punizioni ingiuste, a volte obbedendo a giudizi e pregiudizi personali.

In questo caso, i punk in questione dovranno opporsi legalmente alla “Lettera di Avvertimento” che sono stati costretti a firmare, perché è proprio il tipo di precedente penale che viene usato per giustificare future vessazioni contro questi gruppi di adolescenti, contro chi è critico e radicale.

La violazione del giusto processo è la norma nelle istituzioni cubane, e le principali vittime sono i reietti della società: punk, persone che subiscono discriminazioni razziali, gay, trans, “diversi”, dissidenti politici, anarchici, difensori dei diritti umani, insomma chiunque la cui semplice esistenza metta in discussione l’immagine idilliaca di una società che in realtà è molto retrograda.

So che alcune persone a Cuba preferirebbero che questo evento rimanesse un semplice aneddoto isolato, e che non si facessero generalizzazioni di questo tipo nei confronti delle istituzioni. Questo è il modo in cui anche molti attivisti preferiscono “giocare con la catena, ma non con la scimmia”.

Ma è nostra responsabilità civica segnalare lo stato di corruzione in cui si trovano le istituzioni cubane, l’arbitrarietà che muove le decisioni di tutti i tipi e a tutti i livelli, dal momento che la corruzione purtroppo alla fine si riflette sulle nostre famiglie, sui nostri quartieri.

Quindi dobbiamo sopportare quei rapporti economici della TV nazionale che accusano l’indisciplina sociale (e anche “popolare”), ignorando olimpicamente che il principale violatore delle sue regole è lo Stato stesso, ed è dallo Stato che le persone prendono esempio.

Isbel Díaz Torres

L’anti-imperialismo degli idioti

di Leila Al Shami

tradotto da https://leilashami.wordpress.com/2018/04/14/the-anti-imperialism-of-idiots/

Ancora una volta il movimento occidentale “contro la guerra” si è svegliato per mobilitarsi in favore della Siria. È la terza volta dal 2011. La prima è stata quando Obama ha ipotizzato di colpire mezzi militari del regime siriano (ma non lo ha fatto) dopo gli attacchi chimici nella regione di Ghouta nel 2013, considerati una “linea rossa”. La seconda volta fu quando Donald Trump ordinò un attacco che colpì una base militare vuota del regime in risposta agli attacchi chimici contro Khan Sheikhoun nel 2017. E oggi, mentre gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia intraprendono azioni militari limitate (attacchi mirati contro mezzi militari del regime e impianti di armi chimiche) a seguito di un attacco con armi chimiche a Douma che ha ucciso almeno 34 persone, tra cui molti bambini che si stavano nascondendo negli scantinati delle case per sottrarsi dai bombardamenti.

La prima cosa da notare rispetto alle tre principali mobilitazioni della sinistra occidentale contro la guerra è che hanno poco a che fare con la fine della guerra. Più di mezzo milione di siriani sono stati uccisi dal 2011. La stragrande maggioranza delle morti di civili è avvenuta attraverso l’uso di armi convenzionali e il 94% di queste vittime sono state uccise dall’alleanza siriano-russo-iraniana. Non vi è alcuno scandalo o preoccupazione simulata per questa guerra, che ha seguito la brutale repressione del regime contro manifestanti pacifici e pro-democrazia. Non c’è indignazione quando barrel bombs (bombe imballate in fusti di grandi dimensioni), armi chimiche e napalm vengono gettati su comunità democraticamente auto-organizzate o hanno come bersaglio ospedali e soccorritori. I civili sono sacrificabili; i mezzi militari di un regime genocida e fascista non lo sono. In realtà lo slogan “Giù le mani dalla Siria” significa “Giù le mani da Assad” e spesso viene espresso sostegno all’intervento militare della Russia. Questo è risultato evidente ieri in una manifestazione organizzata da Stop the War nel Regno Unito, dove un certo numero di bandiere russe e del regime erano vergognosamente esposte.

Questa sinistra che esibisce tendenze profondamente autoritarie, è la stessa che pone gli stati al centro dell’analisi politica. La solidarietà è quindi estesa agli stati (visti come l’attore principale in una lotta per la liberazione) piuttosto che ai gruppi oppressi o svantaggiati in ogni società data, indipendentemente dalla tirannia dello stato. Con una completa cecità di fronte alla guerra sociale che si verifica all’interno della stessa Siria, i siriani (quando esistono) sono visti come una mera pedina in un gioco di scacchi geo-politico. Ripetono il mantra “Assad è il legittimo governante di un paese sovrano”. Assad – che ha ereditato una dittatura da suo padre e non ha mai tenuto, per non dire vinto, un’elezione libera e giusta. Assad – la cui “armata araba siriana” non può che riguadagnare il territorio che ha perso con il sostegno di un guazzabuglio di bombe straniere e mercenari stranieri che stanno combattendo, in generale, ribelli e civili di origine siriana. Quanti avrebbero considerato legittimo il proprio governo eletto se avesse iniziato a condurre campagne di stupri di massa contro i dissidenti? È solo la completa disumanizzazione dei siriani a rendere possibile tale posizione. È un razzismo che vede i siriani incapaci di raggiungere, per non dire meritare, qualcosa di meglio di una delle dittature più brutali del nostro tempo.

Per questa sinistra autoritaria, il sostegno politico è esteso al regime di Assad in nome dell'”anti-imperialismo”. Assad è visto come parte dell'”asse di resistenza” contro l’Impero USA e il Sionismo. Poco importa che lo stesso regime di Assad abbia sostenuto la prima guerra del Golfo, o abbia partecipato al programma di consegna illegale degli Stati Uniti in cui sospetti terroristi sono stati torturati in Siria per conto della CIA. Il fatto che questo regime abbia probabilmente la discutibile caratteristica di massacrare più palestinesi rispetto allo stato israeliano è costantemente sottovalutato, così come il fatto che è più intenzionato a usare le sue forze armate per sopprimere il dissenso interno che a liberare il Golan occupato da Israele.

Questo “anti-imperialismo” degli idioti è quello che identifica l’imperialismo con le sole azioni degli Stati Uniti. Sembrano inconsapevoli che gli Stati Uniti hanno bombardato la Siria dal 2014. Nella campagna per liberare Raqqa dal Daesh sono state messe da parte tutte le norme internazionali di guerra e le considerazioni di proporzionalità. Oltre 1.000 civili sono stati uccisi e l’ONU stima che l’80% della città sia ormai inabitabile. Non ci sono state manifestazioni di protesta organizzate da organizzazioni ‘anti-guerra’ contro questo intervento, nessuna chiamata per garantire che i civili e le infrastrutture civili fossero protetti. Invece hanno adottato la narrazione tipica della ‘Guerra al terrore’, una volta riservata ai neo-con, ora propinata dal regime, che tutti gli oppositori di Assad sono terroristi jihadisti. Hanno chiuso un occhio su Assad che riempiva il suo gulag di migliaia di dimostranti laici, pacifici e pro-democrazia per uccidere e torturare, mentre rilasciava militanti islamici dalle prigioni. Allo stesso modo, le continue proteste tenute in aree liberate in opposizione a gruppi estremisti e autoritari come Daesh, Nusra e Ahrar Al Sham sono state ignorate. I siriani non sono visti come in possesso della necessaria raffinatezza di pensiero per avere una vasta gamma di punti di vista. Gli attivisti della società civile (tra cui molte donne straordinarie), i giornalisti d’inchiesta, gli operatori umanitari sono irrilevanti. L’intera opposizione è ridotta ai suoi elementi più autoritari o vista come un semplice strumento degli interessi stranieri.

Questa sinistra filo-fascista sembra cieca di fronte a qualsiasi forma di imperialismo di origine non occidentale. Combina la politica dell’identità con l’egoismo. Tutto ciò che accade è letto attraverso l’ottica di ciò che significa per gli occidentali – solo i bianchi hanno il potere di fare la storia. Secondo il Pentagono attualmente ci sono circa 2000 soldati delle truppe americane in Siria. Gli Stati Uniti hanno stabilito un numero di basi militari nel nord controllato dai curdi per la prima volta nella storia della Siria. Ciò dovrebbe riguardare chiunque sostenga l’autodeterminazione siriana, eppure questo fatto impallidisce rispetto alle decine di migliaia di truppe iraniane e alle milizie sciite sostenute dall’Iran che ora occupano vaste zone del paese, o ai bombardamenti assassini compiuti dall’aviazione russa in sostegno della dittatura fascista. La Russia ha ora stabilito basi militari permanenti nel paese e ha ricevuto diritti esclusivi sul petrolio e sul gas della Siria come ricompensa per il suo sostegno. Noam Chomsky una volta sosteneva che l’intervento della Russia non poteva essere considerato imperialismo perché la Russia è stata invitata a bombardare il paese dal regime siriano. Con questa analisi, nemmeno l’intervento degli Stati Uniti in Vietnam fu un atto di imperialismo, visto che fu richiesto dal governo sud-vietnamita.

Un certo numero di organizzazioni contro la guerra hanno giustificato il loro silenzio sugli interventi russi e iraniani sostenendo che “il nemico principale è a casa”. Ciò li esonera dall’effettuare qualsiasi seria analisi del potere per determinare chi siano realmente gli attori principali alla guida della guerra. Per i siriani il principale nemico è davvero a casa – è Assad che si sta impegnando in quello che l’Onu ha definito “il crimine di sterminio”. Senza essere consapevoli delle proprie contraddizioni, molte delle stesse voci si sono opposte (giustamente) all’attuale assalto israeliano ai manifestanti pacifici di Gaza. Uno dei modi principali con cui l’imperialismo funziona è negare le voci dei nativi. In questo spirito, le principali organizzazioni pacifiste occidentali tengono conferenze sulla Siria senza invitare alcun oratore siriano.

L’altra grande tendenza politica che ha messo il proprio peso a favore del regime di Assad e si è organizzata contro gli attacchi di Stati Uniti, Regno Unito e Francia sulla Siria è l’estrema destra. Oggi il discorso dei fascisti e di questi “partigiani antimperialisti” è praticamente indistinguibile. Negli Stati Uniti, il suprematista bianco Richard Spencer, il podcaster Mike Enoch e l’attivista anti-immigrazione Ann Coulter sono tutti contrari agli attacchi statunitensi. Nel Regno Unito, l’ex leader del BNP Nick Griffin e l’islamofoba Katie Hopkins si uniscono alle proteste. Il luogo in cui convergono frequentemente l’estrema destra e l’estrema sinistra è la promozione di varie teorie cospirative per assolvere il regime dai suoi crimini. Sostengono che i massacri chimici sono operazioni di servizi segreti sotto falso nome o che i soccorritori sono di al-Qaeda e quindi obiettivi legittimi per l’attacco. Coloro che diffondono tali teorie non sono sul terreno in Siria e non sono in grado di verificare in modo indipendente le loro affermazioni. Spesso dipendono dalla propaganda statale russa o di Assad perché “non si fidano degli MSM” o dei siriani direttamente colpiti. A volte la convergenza di questi due spezzoni apparentemente opposti dello spettro politico si trasforma in vera e propria collaborazione. La coalizione di ANSWER, che sta organizzando molte delle manifestazioni contro un attacco ad Assad negli Stati Uniti, ha una tale storia. Entrambi i filoni spesso promuovono narrazioni islamofobiche e antisemite. Entrambi condividono gli stessi punti di discussione e lo stesso immaginario.

Ci sono molte valide ragioni per opporsi all’intervento militare estero in Siria, che si tratti di Stati Uniti, Russia, Iran o Turchia. Nessuno di questi stati agisce nell’interesse del popolo siriano, della democrazia o dei diritti umani. Agiscono unicamente nei loro interessi. L’intervento di Stati Uniti, Regno Unito e Francia oggi riguarda meno la protezione dei siriani dalle atrocità di massa e più l’applicare una norma internazionale secondo cui l’uso di armi chimiche sia inaccettabile, per paura che un giorno vengano usate sugli stessi occidentali. Più bombe straniere non porteranno pace e stabilità. C’è poco interesse nello spodestare Assad dal potere, cosa che contribuirebbe a porre fine alla peggiore delle atrocità. Tuttavia, opponendosi all’intervento straniero, è necessario trovare un’alternativa per proteggere i siriani dal massacro. È moralmente discutibile dire, ad esempio, che i siriani devono semplicemente starsene zitti e morire per proteggere il principio più alto dell ‘”anti-imperialismo”. Molte alternative all’intervento militare straniero sono state proposte di tanto in tanto dai siriani e sono state ignorate. E così rimane la domanda, quando le opzioni diplomatiche hanno fallito, quando un regime genocida è protetto dalla censura dai potenti sostenitori internazionali, quando non si fanno progressi nel fermare i bombardamenti quotidiani, per porre fine all’assassinio per fame o liberare prigionieri torturati su scala industriale, cosa si può fare?

Non ho più una risposta. Mi sono sempre opposta a tutti gli interventi militari stranieri in Siria, ho sostenuto il processo guidato dalla Siria per liberare il paese da un tiranno e processi internazionali radicati negli sforzi per proteggere i civili e i diritti umani e assicurare la responsabilità per tutti gli attori responsabili dei crimini di guerra. Un accordo negoziato è l’unico modo per porre fine a questa guerra – e sembra ancora più distante che mai. Assad (e i suoi sostenitori) sono determinati a contrastare qualsiasi processo di pace, a perseguire una vittoria militare totale e a schiacciare qualsiasi alternativa democratica rimanente. Centinaia di siriani vengono uccisi ogni settimana nei modi più barbari immaginabili. I gruppi estremisti e le ideologie prosperano nel caos provocato dallo stato. I civili continuano a fuggire a migliaia, mentre i processi legali, come la legge 10, vengono implementati per garantire che non torneranno mai più nelle loro case. Il sistema internazionale stesso sta collassando sotto il peso della sua stessa impotenza. Le parole “Mai più” suonano vuote. Non c’è movimento rilevante che sia solidale con le vittime. Sono invece calunniati, la loro sofferenza viene derisa o negata, e le loro voci sono assenti dalle discussioni o interrogate da persone lontane, che non sanno nulla della Siria, della rivoluzione o della guerra, e che credono con arroganza di sapere cosa sia meglio. È questa situazione disperata che induce molti siriani ad accogliere l’azione degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Francia e che ora vedono l’intervento straniero come la loro unica speranza, nonostante i rischi che sanno che esso comporti.

Una cosa è certa: non perderò il sonno per gli attacchi mirati rivolti alle basi militari del regime e agli impianti di armi chimiche, attacchi che potrebbero fornire ai siriani una breve pausa dall’assassinio quotidiano. E non vedrò mai persone che fanno tanti bei discorsi sulle vite altrui, che sostengono regimi brutali in paesi lontani, o che vendono razzismo, teorie cospirative e negazione delle atrocità, come alleati.

Opinione di un popolo che ha deciso di rompere con il chavomadurismo

Fonte: https://www.lascomadrespurpuras.com/single-post/2018/02/26/Salud-y-Libertad

Nella ricerca di un sentiero che molte e molti hanno tracciato. In questo momento in cui ciò che riempie i cuori è un piccolo nodo legato ai messaggi del passato, dedichiamo questo editoriale alle compagne e ai compagni di lotta che pensano che alcune di noi abbiano perso la testa per aver dichiarato di essere al di fuori del chavismo “realmente esistente”, per trovarci con coloro che stanno costruendo nuovi percorsi dell’autonomia del pensiero e dell’azione, non solamente teorici.

Intendiamo l’autonomia come la capacità di un soggetto collettivo (lavoratrici, lavoratori, movimenti delle donne, movimenti di genere, studenti, artisti, piccole comunità, popoli indigeni, contadine, contadini, ecc.) di svilupparsi integralmente, organizzarsi e governarsi per conto proprio, dal basso e sotto la propria direzione politica. La pratica autonoma rappresenta la dissoluzione del politico nel sociale, cioè non separa il potere politico dalla società (come accade nelle istituzioni statali), ma costruisce questo potere dalla stessa rete di relazioni e incontri dei soggetti collettivi.

Siamo “las comadres purpuras”, (le comari viola) nasciamo come iniziativa di varie voci critiche che vogliono aggiungere colori vivaci da e nella politica femminista. Una politica che non cerca i regali del governo, poiché questo è un meccanismo che è stato usato molto bene per mettere a tacere i grandi abusi che viviamo giorno dopo giorno e per rendere obbedienti le soggettività…perché: “uno non morde la mano di quelli che lo nutrono”. Abbiamo visto con tristezza e indignazione come i pochi movimenti integrati abbiano etichettato le espressioni politiche dissenzienti come “squallide”, con un aggettivo dispregiativo tipicamente usato dal governo. Il discorso consolidato di detestare ciò che era ed è diverso, mentre in un primo momento era solo uno modo per distanziarsi dai partiti di opposizione tradizionale, è diventato sempre di più un atteggiamento autoritario e repressivo, senza possibilità di discutere sulla questione dei diritti umani, di mettere in discussione quello che si pensa, rasentando così l’assurdo di non lasciar più denunciare i soprusi, gridare e persino rischiare la pelle per cambiare le condizioni di questa struttura oppressiva che è stata costruita per schiacciarci.

Nei vari gruppi politici sono presenti diverse sfumature e anche la nostra pratica ne è un esempio. Nel nostro seno confluiscono molteplici voci, che si uniscono nell’obiettivo di creare un fronte controculturale che contrasti i tanti soprusi. Prima di definirci “chaviste” o meno, ci dichiariamo femministe, sorelle, autonome, di sinistra e libertarie. Il Chavismo è stato un movimento interessante, con un potenziale enorme, ma non è riuscito a mantenersi autonomo come movimento ed è stato inghiottito dalle istituzioni, dal più corrotto dei poteri costituiti. Di fatto, l’identità del Chavismo si è costituita sull’immagine di un personaggio che, per quanto possiamo aver stimato, non era solo un leader popolare, ma era anche un Capo di Stato, un politico “di quelli di sopra”, un Comandante in Capo. La figura di Chavez è emersa attraverso un percorso politico statalista, non è poi inutile ricordare l’ovvia considerazione che il Chavismo sia un movimento personalistico basato appunto su una sola persona (Chávez) che ha fatto contare più le sue decisioni individuali piuttosto che l’identità politica del movimento. Ecco perché è così difficile per il Chavismo distaccarsi da un governo mafioso e autoritario come quello di Nicolás Maduro, perché più di quello che contraddice i nostri principi politici, si tratta comunque dell’eredità di Chavez. Questo problema da sempre presente nella tradizione del Chavismo lo rende oggi un ostacolo allo sviluppo di un movimento popolare autonomo. Anche per fare soltanto una manifestazione bisogna aspettare che il PSUV dica quando e dove: in questo senso, non condividiamo e concordiamo con una pratica politica che blocca, invisibilizza, silenzia e alla fine sostituisce i movimenti sociali.

Il Chavismo considerò sempre se stesso come un movimento politico espressione di solidarietà con gli ultimi e di contestazione del potere, ma gradualmente fu assorbito e digerito dal potere nell’ottica di una restaurazione e una ristrutturazione dei poteri statali ed economici. Per quanto audace e innovatore si auto-rappresenti il Chavismo, è difficile separare questa sua caratteristica dalla successiva istituzionalizzazione, dall’attaccamento affettivo e dalla lealtà pretesa verso la figura del Presidente, ovvero dove l’autonomia del movimento si è spenta e l’efficacia è diventata nulla. Le vertenze di lotta invecchiano nei tentativi stantii di incontri con qualche vice ministro o nell’attesa di urgenti telefonate in arrivo dall’ “alto governo”, continuando a insistere nell’inutile speranza dell’esplosione di “contraddizioni interne” al potere, in cambi di rotta che ormai non fanno presa più su nessuno. Così hanno finito col creare una bella espressione politica: “la comare è diventata banale”.

Molte di noi sono cresciute nelle azioni di ribellione di strada portate avanti dai movimenti popolari di quel tempo, non c’era nessun “paco” da attaccare senza pensarci due volte.

Ora ci voltiamo indietro e scopriamo che sia la sfera governativa che il Chavismo difendono e giustificano la violenza di stato e il rafforzamento repressivo delle forze di sicurezza. Questo movimento è stato un osservatore passivo e amichevole della costituzione dei peggiori nuclei di Comandos de Operaciones Especiales a partire dall’anno 2013 in poi. Oltre ad aver approvato una legge antiterroristica (2012) e la nuova legge contro l’odio (2017), attraverso cui imprigionare coloro che denunciano semplicemente l’enorme crisi che viviamo. Senza dubitare per un momento, ben sapendo che con queste procedure qualsiasi espressione di malcontento popolare sarebbe stata contrastata e resa minima. C’è stato un silenzio assoluto, pur essendo noto il numero di persone innocenti assassinate brutalmente dallo Stato in ogni Operazione di Liberazione del Popolo (OLP) o che ora affrontano la terribile repressione delle marce dei lavoratori. Hanno finito per dimostrare ciò che il Chavismo respinse così tanto agli inizi: è diventato un apparato repressivo nemico della protesta popolare.

Nessuno vuole abbandonare la “nave del socialismo del XXI secolo”, però va bene, noi li aspettiamo su un’isola, sicuramente non si comincia da zero, anche se fa male. Però preferiamo che faccia male piuttosto che silenziare tanto autoritarismo, portatore di quelle misure conservatrici e puritane che regolano nella maniera più sinistra la condizione di quelle e di quelli che abitano questo territorio chiamato Venezuela.

Il movimento popolare radicato nell’identità chavista continua a difendersi nei piccoli ma utopici spazi dove ha potuto mantenere una sua autonomia. Casi come quello della “Comuna el Maizal” diventano rappresentativi di una tensione che non sopporta più. Crediamo di dover ricostruire le nostre identità più profonde per poter uscire con una strategia coerente con noi stessx, al fine di superare la tensione che sta per esplodere.

Dalla più ampia diversità di identità nella storia del movimento popolare, ma anche dalla più forte autonomia, che non è negoziabile, come femministe non sponsorizziamo la guerra creata da uomini che giocano al potere e in linea con il loro gioco fanno sì che ci uccidiamo a vicenda. È così che funzionano gli Stati, non partecipiamo al rafforzamento delle strutture che controllano le nostre vite, siamo qui per accompagnare, sostenere e costruire cellule di lavoro politico autonomo. Il nostro seme è dato per questo lavoro e molte di noi continueranno a dare la vita. Se non possiamo vivere di un’utopia che non sia servile, allora meglio morire.

Continueremo per le strade abbattendo le soggettività imperanti
Continueremo a urlare
Non avranno così tante prigioni da riempire con chi le odia

Sull’esperienza dei consigli locali nella rivoluzione siriana

Omar Aziz
“Non valiamo meno dei lavoratori della comune di Parigi … loro hanno retto 70 giorni mentre noi, noi resistiamo da un anno e mezzo”. 
È con queste parole che l’intellettuale organico Omar Aziz ha descritto la rivoluzione siriana. Il 17 febbraio 2013 è morto martire nella prigione centrale di Adra. 
In questo testo, passeremo in rassegna le caratteristiche essenziali dei consigli locali in cui Aziz ha giocato un ruolo influente nella redazione dei testi costitutivi[1]. Verranno indicate le carenze di queste forme di organizzazione, almeno per ciò che concerne la loro applicazione concreta. 
Con l’intensificazione della repressione del regime siriano contro l’esplosione rivoluzionaria in Siria, nella sua fase pacifica, che ha coinciso con la diserzione di molti soldati e l’inizio delle schermaglie tra l’esercito siriano e quello che successivamente sarà conosciuto col nome di “esercito siriano libero”, nacque la necessità di istituire delle forme organizzative che si occupassero della vita delle persone, a partire dal momento in cui il regime non svolgeva nessuno dei suoi compiti basilari, – se n’era già liberato con l’inizio delle “riforme” neoliberali. 
E se i comitati di coordinamento locali erano stati istituiti come forme organizzative per la preparazione, l’appello e la documentazione delle manifestazioni, l’idea dei consigli locali fu concepita come alternativa al regime e alle sue istituzioni. Gli obbiettivi della creazione di questi consigli, secondo Omar Aziz, sono quelli “d’aiutare le persone a gestire la loro vita in maniera indipendente dalle istituzioni dello Stato …, di creare uno spazio di espressione collettivo per stimolare la solidarietà degli individui e farli accedere tramite le attività quotidiane all’azione politica, … fornire sostegno e aiuto agli sfollati e alle famiglie dei prigionieri, …  offrire uno spazio di discussione per deliberare su delle questioni vitali, costruire dei legami orizzontali tra i consigli locali …, difendere il territorio della regione dalle requisizioni dello Stato a favore dei ricchi o degli ufficiali militari e di sicurezza dello Stato …” oltre a documentare le violazioni commesse dal regime e le sue milizie (solo), così come il compito di soccorrere e di coordinarsi con i comitati medici e il sostegno e la coordinazione delle attività educative. 
Ma, a causa “dell’assenza di pratiche elettorali nelle attuali circostanze”, dice ancora Omar Aziz, “i consigli locali sono composti da operatori sociali e persone che godono del pubblico rispetto per le loro competenze (diverse).  La domanda che si pone allora è: “come si può valutare il pubblico rispetto” e quando finiranno “le circostanze attuali”? Malgrado la permanenza delle “circostanze attuali”, delle elezioni sono state organizzate per dei consigli locali a livello municipale, poi è stata formata l’assemblea generale dei consigli locali che comprende i rappresentanti dei consigli locali a livello del governatorato, che culmina con la formazione del consiglio del governatorato, quest’ultimo elegge un ufficio esecutivo e un presidente. Tutti questi consigli sono attaccati al ministero dell’amministrazione locale, dei soccorsi e degli affari dei rifugiati del governo provvisorio[2].  
In pratica, l’attività di questi consigli è rimasta limitata agli affari municipali, vari tipi di servizi, accompagnate (o in competizione?) nello stesso compito da una costellazione di organizzazioni non governative, mentre le fazioni armate rimanevano fuori dal controllo dei consigli locali. Allo stesso tempo il Consiglio nazionale siriano, il Governo ad interim siriano e la Coalizione Nazionale delle forze della rivoluzione e dell’opposizione siriana monopolizzavano il “discorso politico che conta” monopolizzavano “il discorso politico grande”.
È così che il pensiero politico che stava alla base dell’istituzione di questi consigli è stato svuotato di significato. Di fronte al dominio delle armi e del denaro dato a determinate condizioni, il margine di manovra dei consigli è rimasto molto ridotto. È così che è venuta meno la possibilità di costruire un governo alternativo e democratico dal basso che poteva guidare la rivoluzione e parlare a suo nome. Anche se questi consigli erano eletti, la democrazia non si limita alle urne o ai pochi minuti durante i quali si esercita il diritto di voto. Democrazia significa anche la partecipazione della donna a candidarsi e votare[3], una consapevolezza delle problematiche del razzismo e del confessionalismo, la partecipazione di tutte le persone all’autogestione di tutti loro diversi affari, non solo in termini di diritto d’accesso all’alimentazione, la sanità e l’insegnamento, lontano dal controllo dei signori della guerra di tutte le parti. La democrazia implica ugualmente d’operare concretamente per le speranze di migliaia di siriani e siriane che hanno manifestato, sono statx  arrestatx, sono mortx come martiri o sono statx  sfollatx, per la libertà, la dignità e la democrazia. 
I rivoluzionari siriani non sono responsabili di ciò che è accaduto alla rivoluzione. Omar Aziz non si è arrestato da solo, non si è suicidato nel carcere. Fin dall’inizio, han dovuto affrontare un avversario votato alla crudeltà, all’assassinio e allo sfruttamento. Un avversario che non era solo, ma era aiutato da una vasta gamma di paesi dominanti a livello internazionale e regionale, nonché da milizie siriane e non siriane. Allo stesso tempo i rivoluzionari siriani sono stati preda degli stati del Golfo e della Turchia, fino all’intervento “dall’esterno” a favore del regime in carica, direttamente o indirettamente. 
Ci ha insegnato molto l’esperienza incompleta dei consigli locali, con i suoi aspetti positivi e negativi, poiché le lotte dei popoli, o dell’umanità, come le chiama il martire e compagno Omar Aziz, sono legate e interdipendenti. I popoli creano le forme di resistenza e di scontro. Noi dobbiamo lottare a differenti livelli e su diversi fronti e trarre insegnamento dalle esperienze passate e presenti. Non solo dal decesso dei morti che sono molti, ma per la vita. 
Walid Doudou 6 marzo 2017  
 
[1] Il 17 febbraio del 2013 Samy al-Kial ha pubblicato sulla sua pagina di Facebook i fogli di base del pensiero dei consigli locali in Siria scritti dal martire Omar Aziz alla fine del 2011. 
[2] La Coalizione Nazionale siriana delle forze della rivoluzione e dell’opposizione siriana ha pubblicato nel mese di marzo 2014 la piattaforma interna dell’organizzazione dei consigli locali nei governatorati siriani, che è possibile consultare sul sito interno della Coalizione. D’altra parte, il sito elettronico del movimento siriano pacifico ha pubblicato una carta interattiva delle diverse forme del movimento pacifico in Siria, in particolare la distribuzione dei consigli locali. Si tratta di una carta che anderebbe aggiornata a causa degli avvenimenti che hanno riguardato le zone riconquistate dal regime (Daraya e Aleppo) o controllate da Daesh (Raqqa). 
[3] Raza Ghazzawi, “Les femmes et la révolution syrienne”, traduzione dall’arabo di Walid Daou, Al-Manshour, http://al-manshour.org/node/5101

Oltre l’autorappresentazione, mettiamo in gioco i nostri corpi

1. Dopo le elezioni del 4 marzo la situazione politica del paese resta incerta e presenta alcuni aspetti di novità rispetto al passato. Le urne hanno bocciato sonoramente i partiti che hanno governato la crisi negli ultimi anni attraverso l’attuazione delle politiche europee e invece hanno premiato chi si è tenuto (almeno nella retorica) in una posizione contro l’austerity o ha proposto una rottura con Bruxelles. Soprattutto nel mezzogiorno, i Cinque Stelle sono stati riconosciuti da milioni di persone come l’unica alternativa elettorale credibile al fallimento delle politiche del lavoro di Renzi, Confindustria e soci. Quello che resta incerto, pur in un quadro di sostanziale stabilità complessiva del dominio capitalista nel nostro paese, è chi avrà la direzione politica che dovrà guidare l’accumulazione del capitale nei prossimi anni: diversamente da quella che viene spacciata come una presunta “uscita dalla crisi” da destra o da sinistra, si tratta di capire quali saranno gli schieramenti che avranno in mano questo ruolo che sarà giocoforza usato contro le persone sfruttate. Completamente scartata dagli elettori è stata la possibilità di tentare una via di uscita da sinistra: diversamente rispetto ad altri paesi come Inghilterra, Francia, Grecia, Spagna, Portogallo etc., la sinistra cosiddetta radicale è stata giudicata come interna al disastro provocato dalla sinistra liberale e non le si è data nessuna chance di guidare eventualmente un governo che conciliasse (fittiziamente) gli interessi del capitale con quelli di chi è sfruttatx. La stessa esperienza di “Potere al popolo!” raccoglie la metà dei voti della lista di “Rivoluzione Civile” del 2013 e si colloca così nella lunga scia dei tentativi falliti di rianimare il cadavere politico di Rifondazione Comunista.

2. Il fallimento di “Potere al popolo!” (PaP) ci porta dritti alla questione che più ci interessa, ovvero quella della ripresa dei movimenti anticapitalisti e rivoluzionari in questo paese. Il tentativo elettorale di PaP aveva anche il chiaro obiettivo di mettere un cappello e realizzare un’egemonia politica sui movimenti di lotta che si muovono ancora in Italia, un tentativo di ridurre e presentare tutte le lotte e le esperienze antagoniste sotto l’unica regia del centro sociale Ex-Opg di Napoli. Questa struttura politica, forte del sostegno del sindaco De Magistris, ha pensato di allearsi con vari gruppi della sinistra (Rifondazione, Pci, Usb, Sinistra Anticapitalista, Rete dei Comunisti, Eurostop etc.) per riuscire a presentarsi come l’avanguardia delle lotte e dei “centri sociali” e iniziare a costruire il proprio partito. Lo scarso risultato elettorale di PaP non può lasciare quindi in secondo piano la ricaduta politica negativa che avrà comunque questa operazione: la cultura fortemente lavorista e riformista moderata di Ex-Opg (rimarranno agli annali le dichiarazioni a favore della Costituzione) ha portato un deciso arretramento nel dibattito politico delle varie realtà anticapitaliste, e alle persone coinvolte in questo percorso (tante e tanti militanti di base a cui si è lisciato continuamente il pelo per tenerle in futuro legate alla dirigenza dell’Ex-Opg) si è proposta una strada completamente fallimentare. Non c’è nessuno spazio per la sinistra radicale a livello elettorale, ma non c’è nemmeno uno spazio di autorappresentazione delle lotte da usare per portare avanti un politica riformista già ampiamente bocciata dal passato remoto e recente: basti pensare al fallimento di Syriza, un partito arrivato al governo in seguito a una mobilitazione popolare molto forte e con il sostegno di varie esperienze sociali e mutualistiche, che ora gestisce i lager per migranti e le politiche di austerità.

3. In questo scenario piuttosto sconfortante restano varie esperienze importanti e significative che ci danno comunque una prospettiva politica di impegno per i prossimi anni. È certo dura non avere le scorte di entusiasmo di “Potere al popolo!”, ma possiamo far valere almeno la nostra rabbia contro le oppressioni. Ci sono lotte molto dure in questo paese, lotte che hanno visto negli ultimi mesi l’uccisione da parte dello Stato di alcuni nostri compagni e vedono in generale una repressione molto forte: dalle lotte dei/delle migranti ai movimenti femministi, dalle pratiche antifasciste alle lotte sindacali, sono tante le situazioni in cui c’è bisogno di mettere in gioco i nostri corpi. Costruire una presenza rivoluzionaria qui e ora è davvero un’impresa complicata, non solo per la repressione ma anche per la tara politica di una militanza diffusa che crede sia più facile e comodo postare su internet le scene di poche lotte (alle quali magari non si è nemmeno partecipato) per risultare efficaci e poi legittimarsi nei contesti politici più allargati. Così facendo però si aumenta solo il proprio ego ipertrofico (anche detto “entusiasmo”) e si ostacolano di fatto i percorsi di lotta. Abbiamo visto in queste settimane anche compagni e compagne denunciate in seguito alle riprese filmate dei cortei fatte non dalla questura ma da alcuni gruppi che dicono di partecipare ai movimenti. Rompere questo gioco delle identità e della legittimazione dei leaderini di movimento che si fanno pubblicità (magari per poi presentarsi alle elezioni) ci sembra un presupposto decisivo per fare chiarezza, cominciando anche a discutere di cosa significhi “mutualismo” in contesti non conflittuali ma solo utili a quella autorappresentazione così deprimente e dilagante. Spesso le pratiche mutualistiche proposte dai movimenti non sono altro che piccole esperienze di impresa privata, cooperativa o meno, gestita dalla direzione di alcune strutture politiche. Vediamo anche la ripresa dell’idea tipicamente cattolica della sussidiarietà nei confronti dell’intervento statale, oppure il progetto di controllare quello che fanno le istituzioni rispetto ad un loro presunto dovere: si è finiti addirittura per affiancare la polizia o le Asl locali in nome di un presunto decoro e buon funzionamento di istituti repressivi come i centri di accoglienza per migranti. Come scrive il Comitato Invisibile, “Pochi settori hanno sviluppato un amore così fanatico della contabilità,  per cura della legalità, della trasparenza o dell’esemplarità, quanto quello dell’economia sociale e solidale. In confronto qualsiasi PMI è un lupanare contabile. Abbiamo centocinquanta anni d’esperienza di  cooperative per sapere che queste non hanno mai minimamente minacciato il capitalismo. Quelle che sopravvivono finiscono, presto o tardi, per  divenire delle imprese come le altre. Non esiste «un’altra economia», ciò che esiste è un altro rapporto all’economia. Un rapporto di distanza e di ostilità, giustamente” [Estratto da Comité invisible, Maintenant, la Fabrique, Paris 2017, pp.87-107(trad. a cura di quieora international).

4. Essere presenti nelle lotte costa fatica, sacrificio, ci sono poche soddisfazioni e non ci appartiene la cultura religiosa del martirio bensì quella della pratica comune e della gioia. La costruzione di percorsi non identitari e conflittuali deve nascere attraverso pratiche orizzontali e non verticistiche, pratiche che superino quel leaderismo machista che tanti danni ha fatto ai movimenti in questi anni. L’obiettivo che ci prefiggiamo non può essere una mera ricostruzione della “sinistra”, un luogo ideale ormai scomparso dal parlamento così come ripudiato nella società, il nostro percorso deve invece riguardare la ripresa di una conflittualità rivoluzionaria e intersezionale di fronte alle varie oppressioni. Non ci interessa dunque nessuna “uscita dalla crisi” che sia una ricomposizione degli apparati economici e repressivi statali guidata da partiti della sinistra, ma vogliamo anzi far aumentare le contraddizioni mediante la pratica del conflitto, costruendo reti e contatti con una visione internazionale. Insisteremo dunque in questo percorso consapevoli che pur nelle difficoltà troveremo tante altre persone disponibili a intraprendere il nostro stesso cammino.

Rompete le gabbie, non innamoratevi del potere!

Riceviamo e pubblichiamo:

Appena sciolte le camere e chiusa la legislatura, il governo ha deciso di inviare l’esercito in Niger per fermare le rotte dei migranti e tutelare gli interessi economici nazionali; dopo pochi giorni sono stati inviati in Tunisia sessanta militari per aiutare la polizia locale a sedare la rivolta scoppiata contro il carovita, l’austerity e la corruzione. Oltre la figura formale della rappresentanza politica, gli interessi del capitale devono continuare ad essere tutelati dallo Stato, che prosegue la sua pratica stragista e colonialista in Africa come nel nostro paese. Migliaia di morti uccisi nel canale di Sicilia, apertura di lager per migranti sia in Italia che in Libia, un sistema di “accoglienza” infernale che tiene le persone recluse e sottomesse, in balìa di ogni violenza e sopruso. Ogni giorno il carattere repressivo di questo sistema ci pone di fronte ad una scelta: collaborare con il potere fornendogli una copertura di solidarietà “dal basso” oppure essere solidali con le persone chiuse in queste gabbie e aiutarle a uscirne fuori. Tertium non datur. In queste settimane siamo richiamat* a fare il nostro dovere di brav* cittadin* in una campagna elettorale completamente slegata dalle urgenze reali che dobbiamo affrontare. La sinistra (partiti, movimenti, centri sociali etc.) ci invita addirittura alla difesa e all’attuazione della Costituzione del 1948. Questa carta, nata come un debolissimo tentativo di compromesso tra la resistenza del movimento operaio e la violenza senza freni del capitalismo, in realtà ha sempre funzionato: è servita a tutelare gli interessi del dominio capitalista sul lavoro salariato nella forma democratica che dal secondo dopoguerra ha assunto questo sistema di sfruttamento; adesso che gli spazi formali di rappresentanza parlamentare vengono ritenuti dal capitalismo un orpello inutile e facilmente aggirabile, non starà certo a noi tentare di riportarli in vita per un uso conflittuale assolutamente impensabile. Anche la necessaria pratica antifascista, a cui siamo chiamat* ogni giorno, visto che le formazioni fasciste si rafforzano e diventano sempre più pericolose, non significa in nessun modo per noi difendere le istituzioni democratiche che consentono la stessa ascesa della violenza fascista: solo combattendo entrambe potremo essere efficaci nella nostra lotta. In questi mesi di campagna elettorale, mentre le organizzazioni della sinistra cercano di aprirsi uno spazio nel teatrino della rappresentanza istituzionale, abbiamo la necessità di continuare a lottare contro ogni oppressione senza farci irretire da questo ritornello che ci invita alla disciplina democratica e alla difesa del lavoro, dell’accoglienza, delle briciole di mutualismo non conflittuale perfettamente compatibili con la linearità del dominio. Non abbiamo nessuna voglia e nessun entusiasmo militante da mettere in questo inutile giochino, anzi, invitiamo tutt* a uscire da questa tentazione: non fatevi prendere dal potere, non innamoratevi del potere, non perdiamo tempo a rincorrere le scadenze elettorali, restiamo sulle strade a combattere per la libertà e contro ogni forma di oppressione. La nostra alternativa non è di governo, non abbiamo bisogno che ci venga affidata la chiave di nessuno strumento di dominio, non abbiamo bisogno di aggiornare il curriculum della nostra partecipazione alle lotte per poi spendercelo a fini elettorali, vogliamo invece rompere queste gabbie e inseguire il nostro desiderio di libertà.

NON VOTARE!

alcunu disertoru delle urne

Cento anni dopo: l’insurrezione che viene

Immortalato nella scena del film “Ottobre” di Ėjzenštejn mentre firma la deposizione del governo tra i bolscevichi che hanno preso d’assalto il “Palazzo d’Inverno”, il comunista dandy con il suo cravattino slacciato e gli occhialini da intellettuale ha nella mano una rivoltella, in una scena quasi da western. L’insurrezione è compiuta, gli orologi si fermano e l’evento impensabile si è realizzato. Questa volta, la prima nella storia dell’umanità, gli oppressi che hanno tentato l’assalto al cielo hanno vinto. Non è più la Comune parigina repressa nel sangue, nemmeno il massacro dei contadini tedeschi a Frankenhausen. Dopo cento anni dai “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, cosa abbiamo da dire oggi sulla rivoluzione dei soviet, cosa rimane dell’insurrezione che ha aperto la strada a milioni di proletari in ogni parte del pianeta? Sarebbe troppo facile o noioso partire dalle cause o dalle conseguenze del termidoro staliniano oppure dalla sconfitta del socialismo reale nel 1989, ricordando come quelle ali si siano bruciate sotto il sole di un tentativo audace o viziato sin dal principio. Pure ricostruire una genealogia comunista basata sulla tendenza dell’economia, sullo sviluppo delle forze produttive, oggi “pur nella mutata fase”, sembrerebbe stonato. Leggendo l’ultima intervista fatta recentemente a Toni Negri si possono trovare ancora le tracce di questo antico vizio economicista, nonostante tutto: “La rivoluzione – afferma Negri – è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo dell’intelligenza collettiva”. Ancorati all’idea della priorità di giustificare in un modello produttivo le nuove istituzioni del potere costituente, rischiamo forse di partire con il piede sbagliato, ovvero rischiamo di dimenticare quanto ci sia da distruggere ancora del vecchio dominio, del potere che ci opprime qui e ora. Assumendo la centralità della produzione, anche se nelle nuove vesti cognitive e cooperative nei network immateriali, siamo costretti a ripetere idealmente la creazione di nuovi poliziotti a difesa di nuovo dello “stato di tutto il popolo”, anche se uno stato certamente “diverso”, ci mancherebbe, uno stato che nasce dalla relazione tra governo democratico e movimenti di opposizione, in una sterile riproposizione del riformismo novecentesco anche se sotto le nuove forme del postmoderno. Eppure è vero che l’intelligenza, il coraggio, la generosità e l’immaginazione dei rivoluzionari non mancano dopo cento anni da quella insurrezione: queste qualità le vediamo all’opera in tante parti del mondo, ancora vive e vitali, mentre cercano di contrastare il capitalismo e le sue istituzioni. Penso a Paul Preciado che dichiara la sua disforia di genere insieme alla sua incapacità di identificarsi con una patria e una nazione: proprio mentre partecipa al processo dell’indipendenza della Catalunya si dichiara estraneo non solo ad uno stato che lo opprime e che c’è già ma anche a quello che non c’è ancora. Oppure penso a chi è rimasto in Siria a combattere il tiranno Bashar Al-Asad, sfuggendo ai bombardamenti chimici e al terrore delle galere o dell’invasione di Putin, magari sorretto anche dalla fede in un Islam che non si esprime, fortunatamente, solo attraverso il volto fascista e totalitario dell’ISIS. Oppure penso agli anarchici che si battono, completamente incompresi dalla sinistra mondiale, contro il regime corrotto di Maduro in Venezuela, consapevoli che nelle lotte non può valere la considerazione borghese della ricerca di un presunto “male minore”, in questo caso rappresentato dalla burocrazia del capitalismo petrolifero bolivariano. O ancora, seguendo proprio la rotta del petrolio, penso a un guerrigliero africano che assalta e rompe l’oleodotto di una multinazionale per redistribuire una parte dell’immensa ricchezza che viene sottratta al suo continente ogni giorno. Non possiamo certo dimenticare che oggi, cento anni dopo, la stessa parola comunismo appaia impronunciabile e richiami alla salma di Lenin o al potere del partito turbo-capitalista cinese: ovunque nel mondo il simbolo della falce e martello chiama a raccolta non i lavoratori ma poliziotti, politici, nazionalisti e feccia di ogni risma. Eppure, ancora, cento anni dopo sentiamo in lontananza quel ritornello che non muore: le sue note ci dicono che il partito storico degli oppressi continuerà a giocare la sua partita, diversa da ieri e da domani, contro gli oppressori in ogni latitudine del pianeta. Chi sarà in grado di vincere oggi? Dove si realizzerà la nuova insurrezione? Sembra banale dirlo, ma una rivoluzione non è possibile senza i rivoluzionari: saranno ancora loro, non anonimi processi storici o astratte tendenze tecnologiche ed economiche, a portare avanti il desiderio di autonomia e liberazione.

l.c.

Lo spettacolo della catastrofe, la catastrofe dello spettacolo

Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” Guy Debord.

Le immagini dell’uragano Irma che devasta la Florida salendo sulla cartina geografica dello stato americano con il colore rosso-arancione della forza al massimo livello di allerta possibile fanno veramente impressione: se le associamo al negazionismo di Donald Trump sulla realtà del riscaldamento globale vediamo l’uomo che nega il global warming e abbandona gli accordi sul clima di Parigi mentre affronta uno degli effetti catastrofici dell’innalzamento delle temperature semplicemente esortando la gente a scappare via dalla Florida. La catastrofe deve andare avanti, the show must go on, il capitalismo sembra aver assorbito anche l’annuncio della prossima distruzione del pianeta, con nonchalance, si possono fare dei bei profitti anche sugli studi scientifici che dimostrano che un immediato (quanto improbabile) cambio di rotta in materia ambientale non servirebbe ormai a modificare l’esito disastroso per il pianeta Terra. C’è tempo dunque per uno spettacolo ad alti livelli, non per la farsa del riformismo della “green economy”: fa ridere Veltroni che richiama il Pd ad una sua vocazione ecologista, i tempi in cui si risolveva la questione dando un assessorato a Pecoraro Scanio sono finiti, adesso sono scesi in campo i pesi massimi della politica del capitale, quelli della alt-right o della Brexit, i populisti che tanto piacevano alla sinistra antimperialista nostrana. Ormai pare chiaro come le grandi lotte ambientaliste siano le lotte anticapitaliste più avanzate, coincidendo il sistema di sfruttamento delle risorse dei territori e del lavoro salariato su più fronti. Eppure solo pochi anni fa un economista di sinistra tra i più seguiti in Italia poteva scrivere su “Liberazione” come gli ambientalisti fossero dei “nemici di classe” in quanto ostacolo all’aumento della spesa pubblica e alla ripresa del keynesismo di Stato che avrebbe dovuto invertire la rotta del neoliberismo trionfante. In Brasile il fallimento della socialdemocrazia corrotta di Lula ha spianato la strada al governo della destra di Temer, ex vice di Dilma Rousseff: una delle più recenti disposizioni del nuovo presidente riguarda l’intervento industriale massiccio in una parte cospicua della foresta amazzonica, uno di quei “polmoni del pianeta” che sta affondando. Anche le migrazioni da cui si difende la fortezza Europa e le guerre in medio oriente coincidono largamente con le crisi ambientali e idriche: anche in questo caso, come per la Florida di Trump, il tentativo europeo di chiudere le frontiere e salvarsi dal massacro può rivelarsi una mera illusione. Veltroni, aderendo alla sua rinnovata verve ambientalista, potrebbe riprendere il suo vecchio progetto di fare volontariato in Africa partendo da uno di quei lager in Libia che il suo compagno di partito Minniti sta finanziando. Chi ha provato a ribellarsi contro i regimi più brutali in questi anni, dall’Egitto alla Siria, è stato schiacciato con una violenza che conosce pochi precedenti. La rivoluzione siriana è stata spezzata da un’alleanza che va dal regime di Assad a quello di Putin fino all’intervento del fascismo dell’Isis, così come la dittatura di Al-Sisi in Egitto sta sterminando un’intera generazione con la complicità dell’Italia: se tiriamo una linea tra gli interessi di questi regimi e il ruolo di multinazionali come l’Eni in Africa troviamo anche qui una perfetta coincidenza tra l’ascesa del capitalismo di rapina e la distruzione ecologica del pianeta. Di fronte a questa situazione generale, non si capisce perché la vita degli attivisti anticapitalisti negli stati occidentali dovrebbe essere più semplice di quella dei loro compagni in Africa o in Asia o altrove. L’automobile che piomba sul corteo antifascista a Charlottesville ci ricorda come la mano pesante del capitalismo contro i suoi oppositori sia sempre pronta a colpire anche in “democrazia”. Allo stesso livello è il discorso nell’infosfera mediatica: nei social troviamo sempre più sdoganate a livello di massa le posizioni naziste più esplicite e tocca farci i conti nel libero confronto di opinioni tra chi vuole lo sterminio e chi no. Insomma, sono passati più di quindici anni da quando Hardt e Negri in “Impero” aprivano l’immaginario delle lotte dentro la globalizzazione portando l’esempio di Francesco di Assisi come riferimento del militante comunista in questa nuova era: scalzo, ricco solo di amore, il “poverello” avrebbe affrontato i potenti del mondo consapevole della gioia e della giustezza che derivavano dalle sue azioni. Come sia andata a finire è sotto gli occhi di tutti, invece dei militanti è arrivato papa Francesco e anche questo scorcio di immaginario è stato coperto dalla rappresentazione del potere. Forse Negri e Hardt invece che al poverello di Assisi, che pure rimase integrato dentro un dispositivo mortale come l’istituzione cattolica, avrebbero dovuto guardare a un Fra Dolcino o agli altri eretici che scesero in armi contro la chiesa. Ciò non toglie che un cedimento alle sirene del nichilismo sarebbe sbagliato: il capitale, come detto, ha appaltato agli sceneggiatori dei suoi studios anche lo spettacolo della fine del mondo, ai militanti rivoluzionari non è rimasto dunque neanche più il “no future”. Quello che resta, invece, è proprio l’urgenza di organizzarsi e di lottare in assenza di ogni illusione riformista, sarebbe da dire: finalmente.

Lino Caetani

“Cómplice de Fuego”, un altro anarchico arrestato durante le proteste a Maracaibo

[In Venezuela il regime chavista di Nicolàs Maduro sta inasprendo sempre di più la repressione contro la rivolta popolare che si è diffusa in tutto il paese per via della grave crisi economica e sociale: il 30 luglio, giorno prima dell’elezione dell’Assemblea Costituente (organismo votato solo da una minoranza di elettori chavisti e boicottata dalle opposizioni maggioritarie nel Parlamento ostile al governo), ben 16 venezuelani sono stati uccisi dalle forze governative, di polizia o para-militari. I commentatori di sinistra e di movimento sono quasi tutti schierati con il governo per una sua presunta posizione anti-imperialista e le cronache che scorriamo sulle bacheche social dei compagni ci parlano di un esperimento socialista, sia pur contraddittorio, che viene osteggiato dalla destra foraggiata dal grande capitale americano: i rivoltosi, bene che vada, vengono dipinti come utili idioti al servizio dell’imperialismo. Questo accade anche perché non si conoscono le storie e le voci di chi è in prima persona impegnato nelle rivolte: per tentare di rompere il silenzio e farla finita con le calunnie che dipingono vigliaccamente generosi e coraggiosi rivoluzionari come agenti del fascismo, abbiamo pensato di tradurre alcuni materiali provenienti dal movimento anarchico venezuelano, cominciando con questa intervista a uno dei tanti protagonisti della rivolta contro il regime di Maduro]
di Rodolfo Montes de Oca 
Il giorno 11 luglio è stato arrestato nella città di Maracaibo, nello stato di Zulia, un compagno anarchico che ha partecipato alla difesa della comunità dagli attacchi da parte della Polizia Nazionale Bolivariana (PNB) e di funzionari governativi. Per preservare la sua integrità fisica utilizzeremo il nome “Complice de fuego”. Abbiamo parlato con lui dopo che aveva lasciato il luogo di detenzione: attualmente sta bene e partecipa attivamente alla ribellione popolare.
Per iniziare questa conversazione, cosa ti ha spinto a partecipare alle proteste?
 
Per molti anni ho partecipato a vari tipi di proteste. Il fatto di difendere le mie idee insieme ad altri è stato per me l’obiettivo principale nella costruzione di una mia scelta di campo nella società. Ho scelto per la mia vita l’ideologia anarchica, che si traduce in un sistema di valori in cui si incarnano i principi che guidano i vari aspetti della partecipazione sociale. La coerenza tra parola e azione è l’elemento centrale per la pratica costante delle nostre idee. Assimilare principi comporta anche una serie di impegni, che sono legati alle nostre azioni quotidiane e si concretizzano in forma di scelte e di decisioni: sulla base di questo, la lotta viene interiorizzata ed è praticabile nel campo sociale. Sedersi pigramente con le braccia conserte in momenti di tensione sociale non è in armonia con l’ideale libertario. Le contestazioni, anche se la maggior parte restano inficiate dal carattere rappresentativo della democrazia (è questa una discussione fatta agli albori dell’anarchismo), sono composte da soggetti sociali in cui si ravvisa un forte scollamento dalla politica partitica. Le persone adottano nuove forme di organizzazione sociale in cui emergono elementi che fanno parte del quadro teorico dell’anarchismo, come la solidarietà, il rispetto e il sostegno reciproco. Come nemici dell’autorità, del potere e dello stato, credo che il nostro dovere di libertari sia quello di accompagnare le persone in questa impresa senza precedenti e contribuire, dal nostro punto di vista, con strumenti che aiutino a rafforzare la lotta contro la tirannia.
Hai visto delle correlazioni tra le forme di protesta e il pensiero libertario?
Assolutamente sì. Di fatto, questa sintonia contribuisce a rafforzare un principio fondamentale del movimento anarchico: “Se i principi sono praticati, non importa che non si chiami anarchia”. Ora,  facendo un’analisi, l’organizzazione delle proteste è legata a criteri di azione collettiva. Le persone si incontrano e agiscono intorno a obiettivi comuni, si pongono degli obiettivi e programmi di azione. Tutto al di fuori della retorica partitista che, come è noto, cerca di incanalare il potere dell’azione collettiva in una strategia di ascesa politica delle leadership. La crisi strutturale in cui è immerso il paese ha creato le condizioni per un’organizzazione autonoma e coerente con le esigenze dei diversi settori della società. La rappresentanza politica viene superata, il divario tra le sue proposte riformiste e le petizioni che vengono dal basso è dannoso per le rivendicazioni di un movimento che è attraversato da un sentimento comune: la caduta del governo dittatoriale di Nicolas Maduro. Le comunità organizzano le loro azioni, creano reti di affinità, di comunicazione e di difesa. Si organizzano in modo orizzontale e gestiscono le proprie risorse nell’interesse dei bisogni immediati della comunità in questione. L’utopia è reale.
Quando sei stato arrestato? Puoi raccontarci un po’ che cosa è successo?
Sono stato arrestato l’11 luglio di quest’anno (2017) alle quattro di pomeriggio. L’arresto è avvenuto nella zona in cui vivo, per la precisione in via Falcon, un luogo molto usato per le proteste. C’è stata una chiamata generale alle cosiddette “trancazos”, la chiamata è venuta attraverso i social network. Erano le 11:00 quando ero con un altro compagno (anche lui libertario, avremo la possibilità di leggere anche il suo resoconto degli avvenimenti) nel pieno delle proteste. La cooperazione avviene in maniera naturale, si alzano le barricate e si preparano gli strumenti della resistenza. Il tutto senza imposizioni, ciascuno secondo le proprie volontà e capacità. Con il passare delle ore, la strada si è riempita di gente, la folla era diventata impressionante. Mi ricordo di aver fatto una battuta sul fatto che “non ci sono tanti poliziotti per così tante persone”. Dopo mezzogiorno la gente della comunità aveva l’abitudine di fare un “pranzo solidale” dove il cibo veniva preparato per chiunque volesse mangiare. Le persone offrono acqua, cibo e si aprono per i manifestanti perfino le porte delle case. L’emozione non dura però a lungo, si posiziona a un centinaio di metri da noi una squadra della polizia Bolivariana dello Stato di Zulia (CPBEZ): un acronimo che mette i brividi per via della nota storia di abusi che caratterizza questo corpo poliziesco. Subito iniziano le provocazioni, i poliziotti ci insultano e ci sfidano. Fanno di tutto per far cessare l’equilibrio e la calma e quindi giustificare la repressione. Va notato che tra i gruppi anti-sommossa alcuni funzionari mentre ci riprendevano con il cellulare ci insultavano e minacciavano. Hanno cominciato a sparare i gas lacrimogeni, la polizia voleva disperderci, lanciando bombe incendiarie e proiettili di gomma, gas lacrimogeni al pepe, uno più forte dell’altro, ma sempre affrontati dalle persone con la volontà e il desiderio di resistere insieme. La protesta ha raggiunto il suo picco, la polizia antisommossa ha 
cominciato a muoversi verso di noi, sparando e gettando le cose. Mentre ci stavamo ritirando, da una via sono spuntate quattro moto con i funzionari di polizia che si erano nascosti. Ho visto la moto venire verso di me, e lo sguardo del poliziotto: ero il suo obiettivo. Cerco di schivare la moto, ma sono molto veloci; sono avanzati a tutta velocità e hanno attraversato la mia strada, scontrandosi con il mio piede destro, l’impatto mi ha causato delle lesioni. Sono rimasto sull’asfalto in posizione fetale, coprendomi la faccia, perché sapevo cosa stava per succedere. Due poliziotti mi hanno preso a calci nelle costole e nello stomaco, urlandomi “Sali sulla maledetta moto!”. Mi hanno preso di peso e mi hanno caricato sulla moto quando ero praticamente svenuto (sentivo delle grida lontane: “Non dargliene così tante, prendilo e vai via!”). Il poliziotto mi ha messo sulla moto, mentre guidava mi dava delle gomitate nello stomaco colpendomi ripetutamente (se Maduro dovesse leggere questa intervista, di sicuro gli darebbe una medaglia per l’abilità nel torturare). Quasi svenuto, mi hanno portato in un capannone vicino alla scena della protesta. Ero molto debole e non riuscivo a scendere dalla moto, quindi, mi hanno messo giù a suon di botte … Sono caduto a terra. Mi sono svegliato e ho cercato di aggiustare i miei occhiali. Pessima idea, la polizia me li ha strappati e mi ha fracassato la faccia (tutto sempre accompagnato da insulti). Ho urlato che avevo bisogno degli occhiali per vedere, che non potevo farne a meno. Le mie richieste non hanno avuto alcun risultato, se non di essere preso in giro e sentirmi dire “ahh ma per gettare bombe non sono ciechi…”. Dopo lunghe ore con roba simile (molto tempo ammanettato, mi sono rimasti i segni), siamo stati trasferiti a un comando di polizia chiamato Irama. Sono stato introdotto lì e spogliato di tutto, ma dopo un po’ ho potuto ottenere di fare una telefonata e avvisare la mia famiglia (che non ho potuto vedere fino a quando 
non sono stato rilasciato). Sono stato arrestato alle 4:00 pm e solo alle 10:00 di sera ho potuto chiamare casa mia. La ONG di difesa dei diritti umani “Foro penale venezolano” è arrivata al comando, dandoci indicazioni e sollevando il morale degli arrestati. Dopo 24 ore, dormendo sul pavimento, mangiando e bevendo quel poco che era riuscito a far passare la nostra famiglia, abbiamo finalmente lasciato la stazione di polizia. In tali situazioni, i minuti sono ore. Ero stato picchiato ed ero molto debole, ma felice di essere uscito a testa alta.
Come è stata la reazione delle altre persone private della libertà? Ci sono state azioni di solidarietà?
Con me sono state catturate altre quattro persone, tra cui un amico. Tutto è accaduto molto velocemente e la gente era molto spaventata, io non li biasimo, hanno armi e possono distruggere la vita di chiunque. Nel camion, dopo aver subito percosse e umiliazioni, lanciandoci un rapido sorriso, abbiamo parlato tra noi e scherzato sulla nostra sorte. Abbiamo condiviso tutto. Se un membro della famiglia ha inviato il pane, il pane è stato diviso in quattro parti così potevamo mangiare tutti. Qualcuno era più ottimista degli altri: “tranquillo compagno, tra poco ce ne andiamo”, mentre uno più pessimista diceva “ci giudicheranno in un tribunale militare”. L’incertezza si tagliava con un coltello. Alla fine di tutto, i “maledetti guarimberos” sono diventati buoni compagni e qui ce n’è uno che può raccontare con rabbia quello che è successo.
Stai per essere giudicato o hai un ordine di comparizione?
La decisione di cosa sarebbe stato di noi era un dibattito interno al comando di polizia, poiché alcuni erano della “opposizione” e altri sostenitori del governo. In un primo momento hanno cercato di addebitarmi delle accuse che non corrispondevano al mio arresto, qualche ricordo: alterazione dell’ordine pubblico, fabbricazione di ordigno incendiario, tra le altre cose. Ho negato tutto. Mi hanno fatto le foto e preso le impronte digitali. Dopo l’arrivo degli avvocati, mi hanno fatto firmare una lettera di impegno e un ordine restrittivo per l’area in cui sono stato arrestato. Secondo loro, non posso andare in quella zona e commettere di nuovo “atti violenti”.
Come si vive nello Zulia? Vale la pena rischiare tanto?
 
Lo stato Zulia, nello specifico Maracaibo che è dove abito, è un municipio coinvolto dalla crescita esponenziale della popolazione. La densità demografica dello stato di Zulia produce una differenziazione immensa di culture e modi di vita. È una città compatta e calorosa, con pretese da metropoli. È piena di polizia e banche; istituzioni e imprese. È importante sottolineare che lo scambio culturale che si vive nelle strade, perché è una città di confine. Al di là di un denso strato di apatia e cattivo umore, c’è gente nobile e coraggiosa. Vivere nella città dell’“amato sole” è difficile, come lo è in ogni città in Venezuela. La differenza sta nel modo in cui si affronta la realtà. Ne vale la pena, il tempo e i sogni. La vita per me non è l’inerzia sui binari di una routine. Il modo in cui si vive deve essere una diretta conseguenza delle proprie idee, bisogna mettere in pratica i principi che scegliamo per guidare il nostro cammino. Le nostre idee sono il timone che dirige le nostre azioni. La difesa della nostra libertà individuale è composta da nodi di affinità in cui la prassi collettiva intreccia la nostra ideologia.
Pensi che ci troviamo di fronte ad una Ribellione Popolare?
Siamo dentro una ribellione popolare e ne siamo testimoni. Questa rivolta è semplicemente la risposta ad una crisi causata da fattori strutturali. La rottura dell’ordine sociale consiste nell’abbandono del modo settoriale di rispondere ai diritti dei cittadini e si concretizza nel violare gli ordini della dittatura; emergono spontaneamente focolai di rivolta sociale che derivano e si ramificano in azioni di rivendicazione sociale in cui il collettivo e l’individuo si fondono per formare un moto popolare che persegue obiettivi comuni.
Qual è la tua opinione sugli “autoconvocati” e sui “gruppi di resistenza”?
Quando si fa un paragone tra le proteste del 2014 e quelle dell’anno in corso si possono evidenziare alcune sfumature che, anche se sottili, segnano comunque una differenza. In primo luogo, le manifestazioni nel contesto attuale, diversamente rispetto al 2014, vengono convocate dalla società civile organizzata. In secondo luogo, la forza di sovra-determinazione dei partiti nella lotta è molto diminuita e ha perso peso rispetto al passato. La coalizione riunita nella MUD (Mesa de Unidad Democratica) si caratterizza come un’opposizione collaborazionista e debole: si sta allontanando sempre di più dalla gente che rischia la pelle nelle strade, dagli arrestati, dai caduti, dalla gente che muore di fame o muore in una sala d’attesa. A queste persone non basta un dialogo con il governo o un negoziato tra poteri: hanno bisogno di un profondo cambiamento della struttura sociale. Per quanto riguarda i gruppi di resistenza, dal mio punto di vista, sono la punta di diamante in questa lotta per la ricerca di un governo di transizione. Non solo per il fatto di spingere verso la fine della dittatura, ma per il messaggio che si lascia ai governi che verranno: “Ci sono persone che si organizzano, che si difendono e attaccano”. L’organizzazione che si costruisce nei gruppi di resistenza non ha precedenti, il percorso di autonomia nasce in modo spontaneo tra le persone coinvolte in questi gruppi. La gestione è orizzontale e le decisioni sono prese nelle assemblee. Di solito questi gruppi operano insieme alla comunità in cui vivono. Si preparano per la difesa e per l’attacco, creano i loro strumenti di difesa in modo artigianale facendo uso di quanto si ha a portata di mano (questo non impedisce che la qualità degli strumenti sia buona). Sono informati e documentati, li muove la convinzione e il pensiero di un Venezuela migliore. La resistenza sta scrivendo la storia.
Cosa pensi degli “anarchici” che osservano in silenzio quanto accade in Venezuela per non appoggiare una presunta “destra”?
Il disegno teorico dell’anarchismo ci ha lasciato qualcosa di estremamente chiaro: siamo contro tutti i governi. Sulla base di questo presupposto, la militanza anarchica affronta qualsiasi forma di governo, che si proclami di destra o di sinistra. Lo Stato è la ragione principale delle disparità sociali e delle relazioni di potere che ci separano, pertanto è il nostro nemico. Gli anarchici che attualmente chiudono un occhio di fronte agli eventi semplicemente non hanno capito nulla. Non hanno capito i principi che uniscono i libertari. Giustificare la repressione di un governo solo per il fatto che questo si auto-proclami di “sinistra” è qualcosa che si allontana decisamente dal pensiero anarchico. Non c’è nessuna destra che attacca la sinistra. Ci sono persone nobili che difendono i loro diritti, che resistono alla dittatura, che cercano dei cambiamenti nella società in cui vivono. In questo processo di liberazione e di lotta, che come anarchici sosteniamo con la solidarietà e il sostegno reciproco, i cambiamenti sono generati dal basso nella rete sociale.
Quale dovrebbe essere l’attività degli anarchici e dei libertari in questa fase politica?
È nostro dovere come anarchici accompagnare e promuovere la rivolta. Essere presenti in tutti gli ambiti in cui si pratica la lotta popolare contro la tirannia. Dobbiamo condividere le informazioni sulla lotta e sulla difesa popolare che storicamente definiscono l’anarchismo. Conosciamo il modo di organizzare e strutturare le mobilitazioni promuovendo l’autonomia e lo sviluppo orizzontale dei movimenti sociali. La musica, gli scrittori e tutta la letteratura che ha segnato la nostra crescita culturale e intellettuale sono ora i nostri strumenti per affrontare la dittatura. Sappiamo di propaganda e contro-informazione, strumenti estremamente importanti per l’egemonia comunicativa che il governo di Maduro ha installato nel paese. L’anarchismo è un catalogo di strumenti per l’organizzazione sociale. Bisogna far circolare il messaggio che stiamo combattendo fianco a fianco nelle comunità, bisogna dare validità e credibilità al nostro discorso.
Per concludere…cosa vorresti aggiungere?
L’utopia è diventata realtà, i precursori nelle lotte non si sono sbagliati. Da queste barricate, voglio mandare un forte abbraccio solidale a tutti i compagni di resistenza. Per tutti i compagni che hanno subito abusi e vessazioni dallo Stato, per tutti quelli che resistono a stomaco vuoto, che si ritrovano a piangere un caduto in famiglia. Per le persone che affollano le strade, che si tolgono il pane dalla bocca per darlo a chi sta peggio. Vale ogni secondo nella lotta. In particolare, voglio mandare un abbraccio con tutte le mie forze a quei compagni che sono detenuti, a quelli che portano sulle loro spalle una condanna di decenni solo per aver espresso dissenso contro questo governo tirannico. Non posso nemmeno immaginare il dolore che hanno di fronte, ma spero che questo messaggio gli serva almeno di conforto. Sulla strada siamo in molti che non dimentichiamo, restiamo in piedi,  combattiamo, apprezziamo coloro che hanno dato la loro vita per questa lotta. Mi auguro che sapendo che c’è chi lotta e spera per la loro libertà, possano sentirsi meno soli. Un abbraccio, ci vediamo per le strade.