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Lo spettacolo della catastrofe, la catastrofe dello spettacolo

Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” Guy Debord.

Le immagini dell’uragano Irma che devasta la Florida salendo sulla cartina geografica dello stato americano con il colore rosso-arancione della forza al massimo livello di allerta possibile fanno veramente impressione: se le associamo al negazionismo di Donald Trump sulla realtà del riscaldamento globale vediamo l’uomo che nega il global warming e abbandona gli accordi sul clima di Parigi mentre affronta uno degli effetti catastrofici dell’innalzamento delle temperature semplicemente esortando la gente a scappare via dalla Florida. La catastrofe deve andare avanti, the show must go on, il capitalismo sembra aver assorbito anche l’annuncio della prossima distruzione del pianeta, con nonchalance, si possono fare dei bei profitti anche sugli studi scientifici che dimostrano che un immediato (quanto improbabile) cambio di rotta in materia ambientale non servirebbe ormai a modificare l’esito disastroso per il pianeta Terra. C’è tempo dunque per uno spettacolo ad alti livelli, non per la farsa del riformismo della “green economy”: fa ridere Veltroni che richiama il Pd ad una sua vocazione ecologista, i tempi in cui si risolveva la questione dando un assessorato a Pecoraro Scanio sono finiti, adesso sono scesi in campo i pesi massimi della politica del capitale, quelli della alt-right o della Brexit, i populisti che tanto piacevano alla sinistra antimperialista nostrana. Ormai pare chiaro come le grandi lotte ambientaliste siano le lotte anticapitaliste più avanzate, coincidendo il sistema di sfruttamento delle risorse dei territori e del lavoro salariato su più fronti. Eppure solo pochi anni fa un economista di sinistra tra i più seguiti in Italia poteva scrivere su “Liberazione” come gli ambientalisti fossero dei “nemici di classe” in quanto ostacolo all’aumento della spesa pubblica e alla ripresa del keynesismo di Stato che avrebbe dovuto invertire la rotta del neoliberismo trionfante. In Brasile il fallimento della socialdemocrazia corrotta di Lula ha spianato la strada al governo della destra di Temer, ex vice di Dilma Rousseff: una delle più recenti disposizioni del nuovo presidente riguarda l’intervento industriale massiccio in una parte cospicua della foresta amazzonica, uno di quei “polmoni del pianeta” che sta affondando. Anche le migrazioni da cui si difende la fortezza Europa e le guerre in medio oriente coincidono largamente con le crisi ambientali e idriche: anche in questo caso, come per la Florida di Trump, il tentativo europeo di chiudere le frontiere e salvarsi dal massacro può rivelarsi una mera illusione. Veltroni, aderendo alla sua rinnovata verve ambientalista, potrebbe riprendere il suo vecchio progetto di fare volontariato in Africa partendo da uno di quei lager in Libia che il suo compagno di partito Minniti sta finanziando. Chi ha provato a ribellarsi contro i regimi più brutali in questi anni, dall’Egitto alla Siria, è stato schiacciato con una violenza che conosce pochi precedenti. La rivoluzione siriana è stata spezzata da un’alleanza che va dal regime di Assad a quello di Putin fino all’intervento del fascismo dell’Isis, così come la dittatura di Al-Sisi in Egitto sta sterminando un’intera generazione con la complicità dell’Italia: se tiriamo una linea tra gli interessi di questi regimi e il ruolo di multinazionali come l’Eni in Africa troviamo anche qui una perfetta coincidenza tra l’ascesa del capitalismo di rapina e la distruzione ecologica del pianeta. Di fronte a questa situazione generale, non si capisce perché la vita degli attivisti anticapitalisti negli stati occidentali dovrebbe essere più semplice di quella dei loro compagni in Africa o in Asia o altrove. L’automobile che piomba sul corteo antifascista a Charlottesville ci ricorda come la mano pesante del capitalismo contro i suoi oppositori sia sempre pronta a colpire anche in “democrazia”. Allo stesso livello è il discorso nell’infosfera mediatica: nei social troviamo sempre più sdoganate a livello di massa le posizioni naziste più esplicite e tocca farci i conti nel libero confronto di opinioni tra chi vuole lo sterminio e chi no. Insomma, sono passati più di quindici anni da quando Hardt e Negri in “Impero” aprivano l’immaginario delle lotte dentro la globalizzazione portando l’esempio di Francesco di Assisi come riferimento del militante comunista in questa nuova era: scalzo, ricco solo di amore, il “poverello” avrebbe affrontato i potenti del mondo consapevole della gioia e della giustezza che derivavano dalle sue azioni. Come sia andata a finire è sotto gli occhi di tutti, invece dei militanti è arrivato papa Francesco e anche questo scorcio di immaginario è stato coperto dalla rappresentazione del potere. Forse Negri e Hardt invece che al poverello di Assisi, che pure rimase integrato dentro un dispositivo mortale come l’istituzione cattolica, avrebbero dovuto guardare a un Fra Dolcino o agli altri eretici che scesero in armi contro la chiesa. Ciò non toglie che un cedimento alle sirene del nichilismo sarebbe sbagliato: il capitale, come detto, ha appaltato agli sceneggiatori dei suoi studios anche lo spettacolo della fine del mondo, ai militanti rivoluzionari non è rimasto dunque neanche più il “no future”. Quello che resta, invece, è proprio l’urgenza di organizzarsi e di lottare in assenza di ogni illusione riformista, sarebbe da dire: finalmente.

Lino Caetani

Roma – Contro gli accordi Italia-Libia

Riceviamo e pubblichiamo:
Oggi, 9 settembre, un gruppo di nemiche e nemici delle frontiere, ha esposto uno striscione davanti al Ministero della Difesa, sede della Marina Militare, per evidenziare il ruolo dell’Italia nella strage di migranti in atto nel Mediterraneo. Sullo striscione era scritto “Le persone respinte in mare finiscono nei lager in Libia. Stato complice e assassino”. Lo striscione è stato poi appeso in un altro punto visibile della città. Abbiamo scelto di esplicitare la nostra posizione contro uno dei luoghi simbolo della guerra ai/alle migranti che l’Italia conduce anche in mare: questo per rendere chiaro che non c’è nessuna “Italia accogliente che salva i migranti” ma solo un cinico disegno di sterminio. Non vogliamo continuare a tacere rendendoci complici di simili nefandezze.

nemiche e nemici delle frontiere

La guerra contro i/le migranti e il colonialismo della sinistra

“Con il nemico si parla dopo averlo combattuto e mai prima. Ma questo è ciò che tutti i riformisti fanno finta di non capire. Per questo il primo avversario dei rivoluzionari è sempre la socialdemocrazia, quello che bisogna disattivare per poter affrontare il vero nemico ontologico-esistenziale: il capitalismo e il suo mondo” [Vicente Barbarroja, “Gentry, Odio, Metropoli”, in “Qui e ora” n.3]

La stretta repressiva operata dal governo italiano negli ultimi mesi in materia di immigrazione è stata spettacolare e particolarmente efficace: una volta registrata l’indisponibilità europea a rivedere gli accordi di Dublino rispetto alla suddivisione tra gli stati membri dell’Unione delle persone sbarcate nel primo paese-approdo del vecchio continente, ecco che l’esecutivo guidato da Gentiloni ha realizzato in poche settimane un blocco quasi completo della rotta libica. Senza scrupoli di sorta, guidato dal desiderio del ministro Minniti di passare alla storia come l’uomo che ha risolto “il problema dei migranti”, il governo italiano ha di fatto chiuso la missione Triton, bloccato i soccorsi in mare di stato e organizzazioni non governative, appaltando il controllo delle coste libiche alle stesse bande criminali che gestiscono parte del percorso che va dai lager libici all’approdo a Lampedusa. La spettacolare riduzione degli approdi in Italia, diminuiti del 50% a luglio (mese di maggiore frequenza di sbarchi) e ancora di più in questo mese di agosto, ha portato sempre più in auge nel teatrino politico la figura di Minniti, il comunista cresciuto con il culto dello stato e dei servizi segreti, l’uomo che non si fa scrupolo di portare le navi militari nel porto di Tripoli o di stringere accordi coi peggiori criminali degli stati sub–sahariani pur di non far approdare gli africani in Italia. Missione compiuta, dunque? Di certo questa operazione militare, una vera e propria operazione di guerra neo-colonialista, ha raggiunto parte del suo scopo, con il piccolo “danno collaterale” della reclusione nel deserto di migliaia di persone, con l’aumento del rischio di morti nel Mediterraneo e con la distruzione di centinaia e centinaia di vite umane. Poco importa, l’opinione pubblica italiana è grata a Minniti, convinta che “non ci sia posto” per gli africani nel nostro paese, con l’Europa che preme alle frontiere per non farli circolare negli altri stati confinanti, con relativa chiusura a Ventimiglia e al Brennero. Una strage vera e propria, concepita e realizzata con l’idea che la sicurezza del controllo dei confini sia un’idea di sinistra, ugualmente spendibile insieme al discorso di accogliere e gestire le vite di quei pochi fortunati che sono riusciti miracolosamente a entrare nel nostro paese. Che vita fanno queste persone mentre gli altri dannati della terra sono bloccati nei lager libici o nel deserto del Ciad o sono morti nel fondo del mar mediterraneo? Qui entra in gioco l’altro aspetto della faccenda: mentre il fronte esterno della guerra ai migranti dispiega navi militari e bande criminali senza scrupoli, il volto buono dell’accoglienza in Europa spende milioni di euro per controllare, gestire, infantilizzare migliaia di vite umane, inserendole in un circuito di sfruttamento lavorativo e di disperazione. Nessun documento, niente libera circolazione, respingimenti, deportazioni, vite di merda in tendopoli sovraffollate, in centri di accoglienza straordinaria simili a carceri: un vero e proprio inferno, molto più simile alle condizioni dei lager libici che alle promesse del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e altre belle cose scritte solo sulla carta. Di fronte a questo scenario così complesso e terrificante, qual è la reazione del movimento antirazzista italiano? A parte poche lodevoli eccezioni di autorganizzazione dei lavoratori migranti nelle campagne o nel settore della logistica, lo scenario è decisamente sconfortante. Sindacati di base che spacciano per “sindacalizzazione” il corrompere pochi migranti per far spegnere le lotte in corso nelle tendopoli o nei luoghi di lavoro, associazioni che si pongono come mediatori immaginari tra la volontà dello stato di reprimere e i desideri dei/delle migranti di avere documenti e una vita decente. La sinistra italiana, nelle sue espressioni politiche, associative e sindacali, fino alle sue espressioni più radicali nei centri sociali e nei collettivi di solidarietà ai migranti, sta attraversando questo passaggio storico drammatico in cui migliaia di vite umane vengono massacrate e altre vengono gestite in un sistema di controllo e repressione senza porsi alcun problema, anzi partecipando al funzionamento di questo sistema prendendo fondi, aiutando lo stato a reprimere, piazzando clientele di lavoratori del settore, operando divisione e delazione tra i migranti che lottano. Forse oggi non è ancora completamente chiara questa dinamica vergognosa, complice il racconto interessato dei media subalterni alla politica, complice pure la volontà di questi gruppi di sinistra di auto-rappresentarsi con “selfie” e vagonate di pagine Facebook come buoni amici dei migranti: ogni giorno che passa, però, aumenta la visibilità del marchio di infamia della partecipazione a un sistema che ha una doppia faccia ma il medesimo obiettivo, ossia controllo e repressione, gestione e genocidio, colonialismo dal volto umano e massacro nel mar mediterraneo. La sinistra italiana pagherà in futuro la sua mancanza completa di coraggio, ma già oggi gli spazi elettorali e istituzionali che vorrebbe ritagliarsi sono praticamente ridotti al lumicino, mentre tutto il discorso politico generale si sposta sempre più a destra, con il Pontefice della chiesa cattolica che viene visto come un difensore dei migranti e l’Avvenire come foglio antifascista, in un declino sempre più veloce e pericoloso nella normalizzazione e nell’accettazione di pratiche discriminatorie, fasciste e criminali. Se la sinistra ha introiettato questo “colonialismo 2.0”, oggi i migranti che riescono a entrare in Italia sono sempre più soli, mentre una quota esorbitante di cittadini italiani è a sua volta parte di quell’esercito di “migranti economici” in viaggio verso altri lidi europei o internazionali, una quota di emigrazione massiccia, agli stessi livelli del secondo dopoguerra o della fine dell’ottocento. L’Italia si svuota sempre di più, lo stivale diventa una prigione, i padroni sono sempre più in grado di sfruttare la classe lavoratrice perché tutte le colpe e lo stigma sociale vengono scaricati sugli immigrati. Uno scenario veramente disastroso all’interno del quale qualche centro sociale “comunista” riesce addirittura ad accreditarsi e ad attribuirsi come vittoria qualche permesso di soggiorno rilasciato con il contagocce dalla questura. Nonostante questo, lontano da questo atteggiamento paternalista e autoreferenziale, le lotte dei migranti continueranno e saranno sempre di più le uniche lotte in grado di contrapporsi veramente al sistema di sfruttamento del capitalismo nazionale. I/le solidali che stringeranno legami con queste lotte avranno la possibilità di apprendere come ci si oppone al potere in maniera efficace.

Intersezioni e animali

[Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, antispecismo, sono da molt* declinate come singole istanze, non convergenti; ma le lotte di liberazione necessitano di intersezionalità, questo il senso del video e dell’articolo di Pattrice Jones.
In particolare da un lato l’antispecismo italiano, declinandosi spesso in singole lotte animaliste, rischia l’isolamento politico se non sarà in grado di abbracciare l’intersezionalità che lo lega alle lotte di liberazione animale, umane e non; dall’altra parte le lotte di movimento hanno bisogno di comprendere la necessità di processi di liberazione animale che ribaltino l’intero sistema di dominio su corpi e spazi]

di Pattrice Jones

Gli animali vivono, soffrono e muoiono in circostanze plasmate dalle attività umane. Quelle attività umane sono sempre impigliate nei processi sociali, storici, economici e culturali che sono basati non solo sullo specismo ma anche su fattori come il razzismo e il sessismo.

La studiosa giuridica Kimberlé Crenshaw ha coniato il termine “intersezioni” come modo di comprendere e parlare delle complesse e complicate interazioni tra diverse forme di oppressione. Allo stesso modo in cui i matematici hanno bisogno della trigonometria e gli ingegneri hanno bisogno di un calcolo, gli attivisti hanno bisogno di intersezioni come strumento concettuale. Senza questo strumento, è impossibile valutare con precisione il problema da risolvere ed è difficile progettare strategie efficaci.

Le interazioni tra la razza, il sesso e l’oppressione di classe sono stati l’obiettivo primario delle indagini intersezionali. Da allora abbiamo capito come questi interagiscono con altri fattori, come la disabilità o la nazionalità. Più di recente, siamo arrivati lentamente a vedere come questi pregiudizi, intersecandosi, permettono e contemporaneamente sono aggravati dall’inquinamento umano e dallo sfruttamento dell’ambiente. E adesso affrontiamo il compito urgente di includere animali non umani nelle nostre analisi intersezionali.

Gli attivisti della giustizia sociale e ambientale devono comprendere come lo specismo sia fondamentale all’oppressione intra-specie, stabilendo i termini e contribuendo a mantenere i molti modi in cui le persone sfruttano l’un l’altro e la terra. Allo stesso tempo, gli animalisti devono capire che ogni atto di abuso o di ingiustizia contro gli animali avviene in situazioni sociali e materiali che non possono essere affrontate in modo adeguato senza una comprensione dell’intersezione.

Ampliata per includere lo specismo e lo sfruttamento degli animali tra le ideologie e le pratiche oppressive che indaga, l’intersezione offre agli attivisti della giustizia sia animale che sociale/ambientale una comprensione più profonda e più completa dei sistemi in cui i problemi su cui lavorano (e loro stessi) sono invischiati e, pertanto, aumenta la probabilità di concepire e attuare strategie veramente efficaci. In più, questa comprensione estesa apre percorsi di cooperazione e di collaborazione nei vari movimenti.

Intuizioni essenziali

Crenshaw ha scelto la parola “intersezione” adeguatamente. Quando sei al centro dell’incrocio di Main Street e First Avenue, non è possibile dire su quale di queste due strade tu stia: sei su entrambe contemporaneamente. Pensando alla discriminazione nei confronti delle donne di colore, Crenshaw notò che spesso non era possibile dire se la discriminazione fosse dovuta alla polarizzazione razziale o alla polarizzazione di genere – era dovuta a entrambe allo stesso tempo, secondo legami non prevedibili per semplice “miscela”.

Le interazioni tra razzismo e sessismo risultano essere moltiplicative anziché additive. Le funzioni di queste interazioni non possono essere disaggregate. Gli stereotipi razziali sono di genere. La violenza contro le donne è permessa dal razzismo.

Il sessismo, il razzismo e altre forme di pregiudizio tra le persone non solo condividono cause e caratteristiche, ma interagiscono anche in modo reciproco-rinforzante. Ciò può essere facilmente notato nella convinzione di Suzanne Pharr che l’omofobia sia “un’arma del sessismo”. Mentre certamente è vero che alcuni pregiudizi contro le persone LGBTQ si riducono ai pregiudizi radicati nell’ignoranza, la funzione strutturale dell’omofobia (e anche della transfobia) serve per mantenere il sistema di oppressione di genere che vede l’uomo sulla cima. Non devi essere gay per essere oggetto di un’aggressione a sfondo omofobo. Non è necessario essere identificatx come trans per essere soggetto alla transfobia. Tutto quello che devi fare per essere vulnerabile a queste forme di pregiudizio è trasgredire i ruoli di genere. Ciò significa che la liberazione LGBTQ è un progetto necessario del femminismo e che la liberazione LGBTQ non può essere realmente realizzata finché non abbiamo risolto il sessismo.

Le studiose di Ecofemminismo come Lori Gruen e Marti Kheel hanno dimostrato che una “logica di dominazione” si fonda su un pensiero eurocentrico riguardo non solo la razza e il sesso ma anche la terra e gli animali. Questa logica artificialmente (e falsamente!) divide il mondo in opposti dualismi – il maschio contro la femmina, l’uomo e l’animale, la cultura contro la natura, la ragione contro l’emozione, ecc. – secondo la superiorità di un solo termine di ciascuna coppia. I termini su ciascun lato del divario gerarchico sono legati: gli uomini sono considerati più razionali, le donne e le persone di colore si vedono più vicine alla natura, categorie di persone vengono poste in basso chiamandole con nomi di animali.

Se si desidera smantellare una struttura, la cosa da fare è colpire alle articolazioni. Quindi, gli attivisti che vogliono avere il maggior impatto devono cercare i modi per lavorare alle intersezioni, facendo così si avranno progressi tangibili su un problema specifico, aiutando contemporaneamente a minare la struttura del sistema intersecante di oppressioni.

Se non è possibile trovare un tale incrocio a cui lavorare, è ancora necessario tenere in considerazione l’intersezione mentre si selezionano tattiche e teoria, in modo da evitare di minare senza volerlo i propri obiettivi partecipando involontariamente alla subordinazione di qualcun altro.

Preparazione al lavoro intersezionale

Ogni nuovo strumento richiede una certa pratica da utilizzare. Ciò è particolarmente vero per l’intersezionalità, che richiede di vedere modelli, riconoscere relazioni e analizzare interazioni complesse tra più variabili. Quellx di noi che sono stati scolarizzati negli Stati Uniti o in Europa sono stati addestrati a pensare esattamente nella direzione opposta e quindi potrebbero aver bisogno di fare uno sforzo per imparare a pensare in termini di comunanza piuttosto che di distinzioni, di contesto piuttosto che di astrazione e di sistemi piuttosto che di individui.

Ecco alcuni semplici esercizi che potete fare:

  • Pensa a due forme di oppressione, come il sessismo e lo specismo, e sfidati a trovare dei modi in cui si intersecano.

  • Pensa a un problema, come prigioni o zoo, e sfidati a identificare quante diverse forme di oppressione si intersecano in esso.

  • Pensa a una tattica di oppressione, come ad esempio la stereotipizzazione o il lavoro forzato, e sfida te stesso per individuare i modi in cui questa viene impiegata in diverse forme di oppressione.

  • Pensa a un obiettivo di oppressione, come il profitto o il controllo della riproduzione, e sfidati a vedere come questo sia ricercato tramite forme di oppressione diverse.

  • Pensa ad un impatto di una forma di oppressione, come la sofferenza emotiva necessaria per la carne, e sfidati a identificare il modo in cui sostiene altre forme di oppressione.

Si prega di notare che potrebbe essere necessario educare se stessi durante questi esercizi. Non puoi aspettarti di vedere i legami tra specismo e razzismo, per esempio, se non sai niente di razzismo! Proprio come hai appreso dello specismo e delle molte forme di sfruttamento animale che ha generato, potrebbe essere necessario educarsi attivamente su altre forme di oppressione. Ecco un suggerimento: puoi farlo leggendo o guardando i documentari sui movimenti contro quelle forme di oppressione. In questo modo, avrai sempre un’utile istruzione in tattiche attiviste!

Risultati preliminari

Gli/le attivistx hanno appena iniziato a disegnare le intersezioni tra specismo e altre forme di oppressione. Già, i nostri risultati sono eccitanti e potenzialmente molto utili. Ecco alcuni esempi di ciò che impariamo quando usiamo gli esercizi sopra per pensare alle relazioni tra lo sfruttamento degli animali e l’ingiustizia sociale/ambientale:

  • Le “grandi tre” scuse per lo sfruttamento animale – potrebbe essere giusto, abbiamo abilità che loro non hanno e Dio ha deciso così- sono anche tutte usate per spiegare (o non disturbare) l’ingiustizia sociale. Questi modi di pensare conducono alla guerra, alla discriminazione e ad altri mali.

  • Il sessismo e lo specismo sono stati così intrecciati per così tanto tempo -fin dai tempi in cui le figlie e le vacche da latte erano entrambe proprietà dei capi maschi delle famiglie – che non possono essere completamente compresi senza riferirsi all’altro.

  • Quello che è stato chiamato “riprocentrismo” (reprocentrism) non è solo fondamentale per lo sfruttamento animale, ma anche centrale per il patriarcato e il capitalismo. La riproduzione costante (di persone, animali e prodotti) ci ha portati all’orlo del disastro planetario.

  • La strategia psicologica attraverso la quale le persone si sono alzate e uscite dagli ecosistemi per trasformare la terra e gli animali in beni pronti per essere acquistati e venduti non solo sottolinea lo specismo e la distruzione ambientale, ma tende anche a portare all’individualismo e all’alienazione, fattori chiave del capitalismo e altri disturbi.

  • Lo specismo sembra così naturale che il privilegio delle specie è ancora più invisibile del privilegio bianco o del privilegio maschile. L’invisibilità del privilegio, quindi, è una questione di preoccupazione congiunta per diversi movimenti.

  • I lavoratori della macellazione, i vivisettori e persino i mangiatori di tutti i giorni tendono ad essere pronti a dire che “semplicemente non pensano” alle sofferenze che causano. Questa abitudine mentale di non-pensare-alla-sofferenza agevola anche l’ingiustizia sociale, come quando i consumatori statunitensi semplicemente non pensano alle sofferenze di lavoratori sottopagati o persino schiavi.

Ecco alcuni modi in cui forme particolari di sfruttamento animale si intersecano con l’ingiustizia sociale ed ambientale:

  • La produzione di latte richiede la fecondazione forzata delle mucche da cui i vitelli vengono presi poco dopo la nascita. Questa violazione fisica ed emotiva delle femmine di animale a scopo di lucro crea prodotti che il settore lattiero-caseario potente e altamente sovvenzionato porta in ogni scuola pubblica, nonostante il fatto che la maggioranza dei bambini di colore sia intollerante al lattosio.

  • Gli zoo cominciarono come espressioni dell’impero in cui venivano esposte sia persone che animali. Gli zoo continuano a esprimere l’ultimo hubris umano insistendo sul fatto che possiamo produrre ecosistemi – una savana africana a Filadelfia! Un oceano artico in Florida! – e “salvare” gli animali in pericolo non restituendo loro gli habitat, ma controllando la loro riproduzione.

  • Circhi e altri usi degli animali nell’intrattenimento sono anche l’espressione del controllo umano della natura. Molti di questi, come ad esempio il combattimento tra galli e i rodeo, rappresentano anche l’espressione della mascolinità costruita socialmente.

  • Lo sfruttamento pratico degli animali tende a promuovere non solo la resistenza emotiva ma anche il disprezzo per la debolezza. Quindi vediamo elevati tassi di violenza nei confronti dei partner e dei bambini nelle comunità in cui si trovano aziende agricole e macelli. L’ingiustizia ambientale porta queste installazioni altamente inquinanti ad essere situate nelle regioni a basso reddito e nelle comunità di colore.

fonte http://blog.bravebirds.org/archives/1553

Centro di accoglienza a Sicignano degli Alburni: rompiamo l’isolamento, documenti per tutti

Percorrendo l’autostrada Salerno-Reggio, in un giorno segnato dal terribile caldo umido di agosto, abbiamo raggiunto Sicignano degli Alburni per renderci conto di persona delle condizioni dei 35 migranti che da mesi risiedono nel centro di accoglienza nel comune salernitano, frazione Galdo. Siamo stati spinti a cercare questo incontro dal fatto che ormai più volte, negli ultimi mesi, queste persone stanno mettendo in campo una serie di atti di protesta per reclamare documenti, una migliore condizione di vita e l’uscita dall’isolamento. Arrivati sul posto infatti la prima cosa che colpisce è proprio la sensazione di isolamento: il centro di accoglienza è lontano 8 km dal centro abitato di Sicignano ed è, come ci ha detto un migrante, “in the middle of the forrest”. Il “centro” in realtà sarebbero due capannoni prefabbricati in lamiera (immaginiamo come si possa stare in questi giorni di calura là dentro…), uno per la mensa e uno per i letti. Un gruppo di musulmani è costretto a pregare fuori sul cemento, nel frattempo un altro migrante si bagna con una pompa messa fuori sempre alla buona. La cucina è ripetitiva e non sempre tiene conto dell’alimentazione a cui sono abituate le differenti persone, che vengono da vari paesi africani e asiatici. Il centro di Sicignano fa parte del circuito ufficiale dell’accoglienza: i finanziamenti ci sono ma, considerando la situazione e le innumerevoli proteste, nascono forti dubbi riguardo il loro utilizzo e il rispetto di tutti gli obblighi cui sono tenuti i gestori di queste strutture. L’atmosfera di tensione era comunque palpabile, anche rispetto agli effetti della recente protesta: c’è chi è ormai da nove mesi in Italia e non ha ottenuto ancora risposte e vorrebbe costruirsi una vita in autonomia, non essere recluso in un prefabbricato in una frazione di un piccolo paese senza possibilità alcuna di migliorare la propria condizione. Inoltre, a seguito di tale protesta,10 migranti tra quelli coinvolti sono stati denunciati, con la conseguente espulsione dal centro accoglienza e dunque l’impossibilità di ottenere il diritto d’asilo, tornando così in una situazione di irregolarità che mette ancora più a rischio le loro esistenze. Ci sembra fondamentale e mai scontato ribadire che la situazione che questi migranti vivono nel centro di Sicignano non si discosta affatto da quella di chi è costrett* in altri centri di accoglienza, strutture nate per favorire gli affari di pochi, regalare manodopera a basso costo o totalmente gratuita con la scusa dell’integrazione, infantilizzando, controllando e privando della libertà migliaia di persone prigioniere per anni di questo sistema dal quale solo una misera percentuale riesce a uscire con il tanto agognato documento che permetterà la permanenza in Italia. In definitiva, siamo molto preoccupat* per quanto stanno vivendo le persone in questo centro a Sicignano: l’appello che facciamo è che si ascolti la loro voce, si supporti la loro lotta, rompendo l’isolamento, si diano subito risposte alle loro richieste: documenti per tutti e una possibilità di vita indipendente e autonoma in questo paese.

“Cómplice de Fuego”, un altro anarchico arrestato durante le proteste a Maracaibo

[In Venezuela il regime chavista di Nicolàs Maduro sta inasprendo sempre di più la repressione contro la rivolta popolare che si è diffusa in tutto il paese per via della grave crisi economica e sociale: il 30 luglio, giorno prima dell’elezione dell’Assemblea Costituente (organismo votato solo da una minoranza di elettori chavisti e boicottata dalle opposizioni maggioritarie nel Parlamento ostile al governo), ben 16 venezuelani sono stati uccisi dalle forze governative, di polizia o para-militari. I commentatori di sinistra e di movimento sono quasi tutti schierati con il governo per una sua presunta posizione anti-imperialista e le cronache che scorriamo sulle bacheche social dei compagni ci parlano di un esperimento socialista, sia pur contraddittorio, che viene osteggiato dalla destra foraggiata dal grande capitale americano: i rivoltosi, bene che vada, vengono dipinti come utili idioti al servizio dell’imperialismo. Questo accade anche perché non si conoscono le storie e le voci di chi è in prima persona impegnato nelle rivolte: per tentare di rompere il silenzio e farla finita con le calunnie che dipingono vigliaccamente generosi e coraggiosi rivoluzionari come agenti del fascismo, abbiamo pensato di tradurre alcuni materiali provenienti dal movimento anarchico venezuelano, cominciando con questa intervista a uno dei tanti protagonisti della rivolta contro il regime di Maduro]
di Rodolfo Montes de Oca 
Il giorno 11 luglio è stato arrestato nella città di Maracaibo, nello stato di Zulia, un compagno anarchico che ha partecipato alla difesa della comunità dagli attacchi da parte della Polizia Nazionale Bolivariana (PNB) e di funzionari governativi. Per preservare la sua integrità fisica utilizzeremo il nome “Complice de fuego”. Abbiamo parlato con lui dopo che aveva lasciato il luogo di detenzione: attualmente sta bene e partecipa attivamente alla ribellione popolare.
Per iniziare questa conversazione, cosa ti ha spinto a partecipare alle proteste?
 
Per molti anni ho partecipato a vari tipi di proteste. Il fatto di difendere le mie idee insieme ad altri è stato per me l’obiettivo principale nella costruzione di una mia scelta di campo nella società. Ho scelto per la mia vita l’ideologia anarchica, che si traduce in un sistema di valori in cui si incarnano i principi che guidano i vari aspetti della partecipazione sociale. La coerenza tra parola e azione è l’elemento centrale per la pratica costante delle nostre idee. Assimilare principi comporta anche una serie di impegni, che sono legati alle nostre azioni quotidiane e si concretizzano in forma di scelte e di decisioni: sulla base di questo, la lotta viene interiorizzata ed è praticabile nel campo sociale. Sedersi pigramente con le braccia conserte in momenti di tensione sociale non è in armonia con l’ideale libertario. Le contestazioni, anche se la maggior parte restano inficiate dal carattere rappresentativo della democrazia (è questa una discussione fatta agli albori dell’anarchismo), sono composte da soggetti sociali in cui si ravvisa un forte scollamento dalla politica partitica. Le persone adottano nuove forme di organizzazione sociale in cui emergono elementi che fanno parte del quadro teorico dell’anarchismo, come la solidarietà, il rispetto e il sostegno reciproco. Come nemici dell’autorità, del potere e dello stato, credo che il nostro dovere di libertari sia quello di accompagnare le persone in questa impresa senza precedenti e contribuire, dal nostro punto di vista, con strumenti che aiutino a rafforzare la lotta contro la tirannia.
Hai visto delle correlazioni tra le forme di protesta e il pensiero libertario?
Assolutamente sì. Di fatto, questa sintonia contribuisce a rafforzare un principio fondamentale del movimento anarchico: “Se i principi sono praticati, non importa che non si chiami anarchia”. Ora,  facendo un’analisi, l’organizzazione delle proteste è legata a criteri di azione collettiva. Le persone si incontrano e agiscono intorno a obiettivi comuni, si pongono degli obiettivi e programmi di azione. Tutto al di fuori della retorica partitista che, come è noto, cerca di incanalare il potere dell’azione collettiva in una strategia di ascesa politica delle leadership. La crisi strutturale in cui è immerso il paese ha creato le condizioni per un’organizzazione autonoma e coerente con le esigenze dei diversi settori della società. La rappresentanza politica viene superata, il divario tra le sue proposte riformiste e le petizioni che vengono dal basso è dannoso per le rivendicazioni di un movimento che è attraversato da un sentimento comune: la caduta del governo dittatoriale di Nicolas Maduro. Le comunità organizzano le loro azioni, creano reti di affinità, di comunicazione e di difesa. Si organizzano in modo orizzontale e gestiscono le proprie risorse nell’interesse dei bisogni immediati della comunità in questione. L’utopia è reale.
Quando sei stato arrestato? Puoi raccontarci un po’ che cosa è successo?
Sono stato arrestato l’11 luglio di quest’anno (2017) alle quattro di pomeriggio. L’arresto è avvenuto nella zona in cui vivo, per la precisione in via Falcon, un luogo molto usato per le proteste. C’è stata una chiamata generale alle cosiddette “trancazos”, la chiamata è venuta attraverso i social network. Erano le 11:00 quando ero con un altro compagno (anche lui libertario, avremo la possibilità di leggere anche il suo resoconto degli avvenimenti) nel pieno delle proteste. La cooperazione avviene in maniera naturale, si alzano le barricate e si preparano gli strumenti della resistenza. Il tutto senza imposizioni, ciascuno secondo le proprie volontà e capacità. Con il passare delle ore, la strada si è riempita di gente, la folla era diventata impressionante. Mi ricordo di aver fatto una battuta sul fatto che “non ci sono tanti poliziotti per così tante persone”. Dopo mezzogiorno la gente della comunità aveva l’abitudine di fare un “pranzo solidale” dove il cibo veniva preparato per chiunque volesse mangiare. Le persone offrono acqua, cibo e si aprono per i manifestanti perfino le porte delle case. L’emozione non dura però a lungo, si posiziona a un centinaio di metri da noi una squadra della polizia Bolivariana dello Stato di Zulia (CPBEZ): un acronimo che mette i brividi per via della nota storia di abusi che caratterizza questo corpo poliziesco. Subito iniziano le provocazioni, i poliziotti ci insultano e ci sfidano. Fanno di tutto per far cessare l’equilibrio e la calma e quindi giustificare la repressione. Va notato che tra i gruppi anti-sommossa alcuni funzionari mentre ci riprendevano con il cellulare ci insultavano e minacciavano. Hanno cominciato a sparare i gas lacrimogeni, la polizia voleva disperderci, lanciando bombe incendiarie e proiettili di gomma, gas lacrimogeni al pepe, uno più forte dell’altro, ma sempre affrontati dalle persone con la volontà e il desiderio di resistere insieme. La protesta ha raggiunto il suo picco, la polizia antisommossa ha 
cominciato a muoversi verso di noi, sparando e gettando le cose. Mentre ci stavamo ritirando, da una via sono spuntate quattro moto con i funzionari di polizia che si erano nascosti. Ho visto la moto venire verso di me, e lo sguardo del poliziotto: ero il suo obiettivo. Cerco di schivare la moto, ma sono molto veloci; sono avanzati a tutta velocità e hanno attraversato la mia strada, scontrandosi con il mio piede destro, l’impatto mi ha causato delle lesioni. Sono rimasto sull’asfalto in posizione fetale, coprendomi la faccia, perché sapevo cosa stava per succedere. Due poliziotti mi hanno preso a calci nelle costole e nello stomaco, urlandomi “Sali sulla maledetta moto!”. Mi hanno preso di peso e mi hanno caricato sulla moto quando ero praticamente svenuto (sentivo delle grida lontane: “Non dargliene così tante, prendilo e vai via!”). Il poliziotto mi ha messo sulla moto, mentre guidava mi dava delle gomitate nello stomaco colpendomi ripetutamente (se Maduro dovesse leggere questa intervista, di sicuro gli darebbe una medaglia per l’abilità nel torturare). Quasi svenuto, mi hanno portato in un capannone vicino alla scena della protesta. Ero molto debole e non riuscivo a scendere dalla moto, quindi, mi hanno messo giù a suon di botte … Sono caduto a terra. Mi sono svegliato e ho cercato di aggiustare i miei occhiali. Pessima idea, la polizia me li ha strappati e mi ha fracassato la faccia (tutto sempre accompagnato da insulti). Ho urlato che avevo bisogno degli occhiali per vedere, che non potevo farne a meno. Le mie richieste non hanno avuto alcun risultato, se non di essere preso in giro e sentirmi dire “ahh ma per gettare bombe non sono ciechi…”. Dopo lunghe ore con roba simile (molto tempo ammanettato, mi sono rimasti i segni), siamo stati trasferiti a un comando di polizia chiamato Irama. Sono stato introdotto lì e spogliato di tutto, ma dopo un po’ ho potuto ottenere di fare una telefonata e avvisare la mia famiglia (che non ho potuto vedere fino a quando 
non sono stato rilasciato). Sono stato arrestato alle 4:00 pm e solo alle 10:00 di sera ho potuto chiamare casa mia. La ONG di difesa dei diritti umani “Foro penale venezolano” è arrivata al comando, dandoci indicazioni e sollevando il morale degli arrestati. Dopo 24 ore, dormendo sul pavimento, mangiando e bevendo quel poco che era riuscito a far passare la nostra famiglia, abbiamo finalmente lasciato la stazione di polizia. In tali situazioni, i minuti sono ore. Ero stato picchiato ed ero molto debole, ma felice di essere uscito a testa alta.
Come è stata la reazione delle altre persone private della libertà? Ci sono state azioni di solidarietà?
Con me sono state catturate altre quattro persone, tra cui un amico. Tutto è accaduto molto velocemente e la gente era molto spaventata, io non li biasimo, hanno armi e possono distruggere la vita di chiunque. Nel camion, dopo aver subito percosse e umiliazioni, lanciandoci un rapido sorriso, abbiamo parlato tra noi e scherzato sulla nostra sorte. Abbiamo condiviso tutto. Se un membro della famiglia ha inviato il pane, il pane è stato diviso in quattro parti così potevamo mangiare tutti. Qualcuno era più ottimista degli altri: “tranquillo compagno, tra poco ce ne andiamo”, mentre uno più pessimista diceva “ci giudicheranno in un tribunale militare”. L’incertezza si tagliava con un coltello. Alla fine di tutto, i “maledetti guarimberos” sono diventati buoni compagni e qui ce n’è uno che può raccontare con rabbia quello che è successo.
Stai per essere giudicato o hai un ordine di comparizione?
La decisione di cosa sarebbe stato di noi era un dibattito interno al comando di polizia, poiché alcuni erano della “opposizione” e altri sostenitori del governo. In un primo momento hanno cercato di addebitarmi delle accuse che non corrispondevano al mio arresto, qualche ricordo: alterazione dell’ordine pubblico, fabbricazione di ordigno incendiario, tra le altre cose. Ho negato tutto. Mi hanno fatto le foto e preso le impronte digitali. Dopo l’arrivo degli avvocati, mi hanno fatto firmare una lettera di impegno e un ordine restrittivo per l’area in cui sono stato arrestato. Secondo loro, non posso andare in quella zona e commettere di nuovo “atti violenti”.
Come si vive nello Zulia? Vale la pena rischiare tanto?
 
Lo stato Zulia, nello specifico Maracaibo che è dove abito, è un municipio coinvolto dalla crescita esponenziale della popolazione. La densità demografica dello stato di Zulia produce una differenziazione immensa di culture e modi di vita. È una città compatta e calorosa, con pretese da metropoli. È piena di polizia e banche; istituzioni e imprese. È importante sottolineare che lo scambio culturale che si vive nelle strade, perché è una città di confine. Al di là di un denso strato di apatia e cattivo umore, c’è gente nobile e coraggiosa. Vivere nella città dell’“amato sole” è difficile, come lo è in ogni città in Venezuela. La differenza sta nel modo in cui si affronta la realtà. Ne vale la pena, il tempo e i sogni. La vita per me non è l’inerzia sui binari di una routine. Il modo in cui si vive deve essere una diretta conseguenza delle proprie idee, bisogna mettere in pratica i principi che scegliamo per guidare il nostro cammino. Le nostre idee sono il timone che dirige le nostre azioni. La difesa della nostra libertà individuale è composta da nodi di affinità in cui la prassi collettiva intreccia la nostra ideologia.
Pensi che ci troviamo di fronte ad una Ribellione Popolare?
Siamo dentro una ribellione popolare e ne siamo testimoni. Questa rivolta è semplicemente la risposta ad una crisi causata da fattori strutturali. La rottura dell’ordine sociale consiste nell’abbandono del modo settoriale di rispondere ai diritti dei cittadini e si concretizza nel violare gli ordini della dittatura; emergono spontaneamente focolai di rivolta sociale che derivano e si ramificano in azioni di rivendicazione sociale in cui il collettivo e l’individuo si fondono per formare un moto popolare che persegue obiettivi comuni.
Qual è la tua opinione sugli “autoconvocati” e sui “gruppi di resistenza”?
Quando si fa un paragone tra le proteste del 2014 e quelle dell’anno in corso si possono evidenziare alcune sfumature che, anche se sottili, segnano comunque una differenza. In primo luogo, le manifestazioni nel contesto attuale, diversamente rispetto al 2014, vengono convocate dalla società civile organizzata. In secondo luogo, la forza di sovra-determinazione dei partiti nella lotta è molto diminuita e ha perso peso rispetto al passato. La coalizione riunita nella MUD (Mesa de Unidad Democratica) si caratterizza come un’opposizione collaborazionista e debole: si sta allontanando sempre di più dalla gente che rischia la pelle nelle strade, dagli arrestati, dai caduti, dalla gente che muore di fame o muore in una sala d’attesa. A queste persone non basta un dialogo con il governo o un negoziato tra poteri: hanno bisogno di un profondo cambiamento della struttura sociale. Per quanto riguarda i gruppi di resistenza, dal mio punto di vista, sono la punta di diamante in questa lotta per la ricerca di un governo di transizione. Non solo per il fatto di spingere verso la fine della dittatura, ma per il messaggio che si lascia ai governi che verranno: “Ci sono persone che si organizzano, che si difendono e attaccano”. L’organizzazione che si costruisce nei gruppi di resistenza non ha precedenti, il percorso di autonomia nasce in modo spontaneo tra le persone coinvolte in questi gruppi. La gestione è orizzontale e le decisioni sono prese nelle assemblee. Di solito questi gruppi operano insieme alla comunità in cui vivono. Si preparano per la difesa e per l’attacco, creano i loro strumenti di difesa in modo artigianale facendo uso di quanto si ha a portata di mano (questo non impedisce che la qualità degli strumenti sia buona). Sono informati e documentati, li muove la convinzione e il pensiero di un Venezuela migliore. La resistenza sta scrivendo la storia.
Cosa pensi degli “anarchici” che osservano in silenzio quanto accade in Venezuela per non appoggiare una presunta “destra”?
Il disegno teorico dell’anarchismo ci ha lasciato qualcosa di estremamente chiaro: siamo contro tutti i governi. Sulla base di questo presupposto, la militanza anarchica affronta qualsiasi forma di governo, che si proclami di destra o di sinistra. Lo Stato è la ragione principale delle disparità sociali e delle relazioni di potere che ci separano, pertanto è il nostro nemico. Gli anarchici che attualmente chiudono un occhio di fronte agli eventi semplicemente non hanno capito nulla. Non hanno capito i principi che uniscono i libertari. Giustificare la repressione di un governo solo per il fatto che questo si auto-proclami di “sinistra” è qualcosa che si allontana decisamente dal pensiero anarchico. Non c’è nessuna destra che attacca la sinistra. Ci sono persone nobili che difendono i loro diritti, che resistono alla dittatura, che cercano dei cambiamenti nella società in cui vivono. In questo processo di liberazione e di lotta, che come anarchici sosteniamo con la solidarietà e il sostegno reciproco, i cambiamenti sono generati dal basso nella rete sociale.
Quale dovrebbe essere l’attività degli anarchici e dei libertari in questa fase politica?
È nostro dovere come anarchici accompagnare e promuovere la rivolta. Essere presenti in tutti gli ambiti in cui si pratica la lotta popolare contro la tirannia. Dobbiamo condividere le informazioni sulla lotta e sulla difesa popolare che storicamente definiscono l’anarchismo. Conosciamo il modo di organizzare e strutturare le mobilitazioni promuovendo l’autonomia e lo sviluppo orizzontale dei movimenti sociali. La musica, gli scrittori e tutta la letteratura che ha segnato la nostra crescita culturale e intellettuale sono ora i nostri strumenti per affrontare la dittatura. Sappiamo di propaganda e contro-informazione, strumenti estremamente importanti per l’egemonia comunicativa che il governo di Maduro ha installato nel paese. L’anarchismo è un catalogo di strumenti per l’organizzazione sociale. Bisogna far circolare il messaggio che stiamo combattendo fianco a fianco nelle comunità, bisogna dare validità e credibilità al nostro discorso.
Per concludere…cosa vorresti aggiungere?
L’utopia è diventata realtà, i precursori nelle lotte non si sono sbagliati. Da queste barricate, voglio mandare un forte abbraccio solidale a tutti i compagni di resistenza. Per tutti i compagni che hanno subito abusi e vessazioni dallo Stato, per tutti quelli che resistono a stomaco vuoto, che si ritrovano a piangere un caduto in famiglia. Per le persone che affollano le strade, che si tolgono il pane dalla bocca per darlo a chi sta peggio. Vale ogni secondo nella lotta. In particolare, voglio mandare un abbraccio con tutte le mie forze a quei compagni che sono detenuti, a quelli che portano sulle loro spalle una condanna di decenni solo per aver espresso dissenso contro questo governo tirannico. Non posso nemmeno immaginare il dolore che hanno di fronte, ma spero che questo messaggio gli serva almeno di conforto. Sulla strada siamo in molti che non dimentichiamo, restiamo in piedi,  combattiamo, apprezziamo coloro che hanno dato la loro vita per questa lotta. Mi auguro che sapendo che c’è chi lotta e spera per la loro libertà, possano sentirsi meno soli. Un abbraccio, ci vediamo per le strade.

Abbiamo bisogno di resistenza non di cooptazione: sull’esclusione delle persone transgender dall’esercito imposta da Trump

Se la tua risposta all’esercito che vessa le comunità povere e quelle di colore, usando la povertà come nuova recluta, è quella di utilizzarlo per legittimare l’esistenza stessa dell’istituzione come una fuga dalla povertà piuttosto che chiedere si ponga fine all’uso di giovani poverx come carne da cannone per le guerre dei ricchi, potresti avere delle priorità di merda.
L’esercito USA è imperialista, l’esercito del capitale globale. Non aderire. Non difenderlo. Sopratutto sotto la presidenza Trump, dove si è passati dall’uccidere 80 civili al giorno sotto Obama, ai 360 al mese, almeno 12 al giorno. 
Se avete a cuore le vite dei neri qui, cosa ne è delle persone in Somalia, Yemen e Siria?
Quanto al bando delle soggettività transgender, questo riguarda molto più che l’esercito. 
È un tentativo di disumanizzare le persone trans che si rivolge alla base reazionaria di Trump in un momento in cui inizia a cedere anche il sostegno da parte delle destre. 
Ma la risposta di coloro che si oppongono a tale vessazione dei gruppi marginalizzati non dovrebbe essere lodare l’esercito o un imperialismo diversificato.
Abbiamo bisogno di resistenza non di cooptazione. Questo elogio del militarismo sta riportando l’energia verso un sistema che causa enormi quantità di sofferenze in tutto il mondo. 
Come ultima nota volevo aggiungere che è per questo che non reputo Trump e gli altri intorno a lui come degli idioti. Questa considerazione sembra perfettamente creata a beneficio delle forze reazionarie sia del centrosinistra sia del centrodestra – uno intriso di bigottismo anti-trans e l’altro che supporta come una cheerleader l’imperialismo arcobaleno e le forze armate USA. 
L’effetto è che il tentativo di bloccare l’analisi critica strutturale regali agli arci-imperialisti una breccia per posizionarsi come forza progressista. 
by CRS

Che cos’è un buongustaio? Le aragoste di David Foster Wallace e i social network

Dopo aver passato qualche decina di minuti su Twitter mi sono reso conto di aver letto ancora una volta il solito profluvio incessante di: foto di raffinati piatti a base di carne e pesce pronti per essere mangiati, battutine simpatiche contro i vegani, battute più esplicite tipo gente in posa davanti alla grigliata con il meme “in culo ai vegani”, polemiche politiche contro la giunta comunale grillina che avrebbe “imposto” nel menù di una mensa scolastica nientedimeno che un pericoloso piatto vegano una volta al mese. Tutto ciò viene postato ogni giorno anche da gente di sinistra, colta e progressista, tutte persone con le quali si condividono molte cose riguardo altre questioni, principi o scelte politiche. Mi è venuta la curiosità, per staccare da questo petulante ritornello, di rileggere il celebre racconto di David Foster Wallace “Considera l’aragosta”. Faccio un breve riassunto del bellissimo scritto di DFW. Lo scrittore americano viene inviato dalla rivista culinaria “Gourmet” a scrivere un reportage sul Festival dell’aragosta del Maine nel 2003. Il risultato del report di Wallace, sebbene parta da una richiesta piuttosto semplice, ovvero indagare alcuni aspetti sociali e di costume nell’ambito di una manifestazione turistica tipicamente americana, esonda massicciamente dal compitino richiesto dal giornale e diventa un classico sia della letteratura che della riflessione animalista. Il punto di partenza di Wallace è molto aperto e dubitativo, infatti più volte nel racconto l’autore si smarca dall’attivismo animalista della PETA (People for Ethical treatment of Animals) e da posizioni già precostituite sull’argomento. Nonostante questo atteggiamento di partenza, espresso con un tono conciliante e ragionevole, Wallace scrive una requisitoria che a distanza di anni resta ancora intatta con tutte le domande conclusive aperte e le questioni di fondo irrisolte. “Nella pratica, sappiamo tutti cos’è un’aragosta. Come al solito, però, c’è molto più da sapere di quanto possa interessare alla maggior parte di noi – è solo una questione di quali sono i nostri interessi”. Le aragoste sono degli enormi insetti marini con cinque paia di zampe, fino all’Ottocento erano un cibo proteico rivolto al consumo dei ceti bassi e venivano cucinate morte e conservate sotto sale. Oggi l’aragosta viene ritenuta un cibo prelibato, simile al caviale, un cibo estivo: l’aragosta appena pescata ha una polpa molto nutriente e gustosa, il metodo comune per essere cucinata è dunque bollirla viva. “Un dettaglio così ovvio che le ricette quasi mai lo menzionano è che le aragoste devono essere vive quando le mettete in pentola”. Questo dettaglio apre la riflessione morale di Wallace, una riflessione tanto sui generis per essere stata scritta sulle colonne di una rivista gastronomica quanto penetrante, attuale e di rilievo etico generalizzabile. “Ed ecco allora una domanda quasi inevitabile di fronte alla Pentola per aragoste più grande del mondo, domanda che potrebbe sorgere in varie cucine degli Stati Uniti: è giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?”. La domanda rimane aperta, anche dopo quattordici anni da quando è stata posta da DFW. Il racconto continua descrivendo lo straziante tentativo degli animali di uscire dalla pentola, aggrappandosi disperatamente e vanamente con le chele sui bordi: l’aragosta agisce come se stesse provando un dolore terribile, ed è ragionevolmente vero che questo strazio sia una cosa molto seria e reale per il crostaceo, poiché esso possiede una quantità sufficiente di struttura neurologica necessaria all’esperienza del dolore (nocicettori, prostaglandine, recettori oppioidi neuronali etc.) e per di più si comporta proprio come se volesse evitare questo dolore. Le aragoste, inoltre, sono sprovviste degli analgesici in dotazione nei sistemi nervosi dei mammiferi, quindi dovrebbero essere soggette in maniera ancora più atroce al dolore conseguente alla morte per bollitura. Alla fine del reportage, David Foster Wallace si dichiara più che altro confuso e curioso e chiede ai lettori della rivista “Gourmet” quali siano le loro sensazioni a riguardo: “Pensate molto allo status morale (possibile) e alla sofferenza (probabile) degli animali coinvolti? Se sì, quali convinzioni etiche avete trovato che vi permettono non solo di mangiare ma di assaporare e godervi vivande a base di carne (dato che naturalmente è il godimento raffinato, e non la mera ingestione, il punto fondamentale della gastronomia)?”. Siamo arrivati al punto di domanda finale del ragionamento di DFW, quello riguardante le implicazioni etiche e morali del mangiare animali per il proprio godimento personale, se debba essere solo una questione sensoriale, di gusto e non anche di empatia ed etica. La stessa domanda, come dicevo in precedenza, si ripropone quando ci troviamo di fronte a tanti compagni che postano ogni giorno le foto di animali uccisi, bolliti, fritti, impanati, pronti per essere mangiati per il proprio godimento raffinato e per essere condivisi sulle tavole e sulle bacheche dei social network.

Lino Caetani

La piega

“Per cominciare ad orientarci in questo mondo leibniziano, per Deleuze ancora attualissimo, potremmo appunto pensare che la realtà è fatta di pieghe, una piega che si prolunga all’infinito e non cessa di differenziarsi, ripiegamenti della materia e pieghe dell’anima. Una realtà porosa, rugosa, cavernosa, sempre in movimento, in uno sterminato brulicare di piccole pieghe: molteplicità che si ripiega e si spiega, e che sta a noi, alla nostra capacità di pensarla, tentare a nostra volta di spiegare. Per semplicità, possiamo pensare proprio alla stoffa e alle sue pieghe, a un tessuto che si trama di infinite increspature; oppure, con un occhio per così dire più orientale, possiamo pensare alla carta e quella sottile arte giapponese di piegarla che si chiama origami” [Pier Aldo Rovatti]

L’idea che sia costantemente importante fare e dare un punto e mai la linea, che la costruzione di soggettività sia più legata alle affinità e alle assonanze che ad un richiamo all’ordine, il tentativo di costruire una serie di composizioni che possano creare un modo differente di porsi rispetto all’analisi della realtà e dei suoi movimenti: questo blog collettivo nasce come un tentativo (uno dei tanti) di dare uno spazio virtuale (e possibilmente in alcuni casi anche fisico) a questa esigenza diffusa tra tant* di noi. La differenza che forse ci contraddistingue da altre elaborazioni collettive è che vorremmo tentare di dare voce a una presa di posizione intersezionale opposta al classico discorso legato ad analisi, commenti, autorappresentazioni politiche e opinioni: pur essendo legittime tutte queste ultime, riteniamo che ci sia una sottile differenza tra “avere” una posizione (il campo delle opinioni, soprattutto nell’era dei social, si dispone su un campo così vasto e sconfinato che sarebbe veramente una fatica improba attraversarlo con la pretesa di “fare egemonia” tra le posizioni contrapposte) e “prendere” una posizione, che implica un coinvolgimento emotivo, affettivo, quando cioè in ballo c’è il nostro corpo e ci sono le possibilità che i nostri incontri, anche i nostri discorsi e i nostri ragionamenti, producano qualcosa di positivo, un di più di gioia e di composizione comune. Viviamo un tempo nel quale è difficile, se non impossibile, costruire percorsi collettivi che siano felicemente intersecati con le volontà di essere singolarmente attivi, capaci di spendere le migliori energie individuali perché spesso questi tentativi si scontrano con la volontà di un soggetto egemone che propone la delega ai suoi associati, a cui chiede semplicemente di assumere un tono uniforme, un vocabolario collettivo, un linguaggio unico che chiuda ogni possibile fuga in avanti o divergenza. In questo stesso tempo, però, già l’emergere di un richiamo urgente alla pratica politica dell’intersezionalità ci porta a dover fare un passo in avanti: contro la gerarchia delle lotte, contro l’immagine del militante umano-maschio-lavoratore-occidentale siamo costrett* ad attraversare le varie faglie che il capitalismo oggi propone nel suo tentativo di riduzione ad uno dei vari mondi che esistono e potenzialmente potrebbero esistere: il transfemminismo queer, il superamento della dicotomia animale-umano, la lotta alle frontiere, non c’è nessun tema che oggi possa pretendere di zittire discorsi e pratiche di un altro percorso, ponendo una riduzione già in partenza delle pratiche di lotta. Attraversando questa realtà, tra le pieghe del molteplice, cercheremo di aprire qualche spazio in più di incontri, di complicità e relazioni solidali.

Quel giorno che non presi le manganellate

Per Mamadou Konate e Nouhou Dombia

Quello che mi domando, ma veramente, ma come cazzo ci sono finito qui? La polizia ha circondato la piazza, noi stavamo a bloccare il traffico al centro della città, da dove passano tutte le macchine di questo posto un po’ fascista, piano piano ci hanno stretti sulla rotatoria e un gruppo si è messo con lo striscione steso per terra. Da qui non ci muoviamo fino a che almeno il Prefetto non ci concede un’udienza. Mi guardo intorno e me la faccio sotto dalla paura. La fila di celerini bardati con caschi e manganelli si fa sempre più vicina. Allora, io penso che come prima cosa mi vorrei allontanare fuggendo insomma vorrei stare in qualsiasi posto ma non qui, vorrei stare a casa magari davanti al computer a twittare qualche cazzata. Meglio ancora a bere una birra. Ho una fifa bestiale delle manganellate dei celerini, penso che per quanto sono fracito una mazzata di quelle spranghe mi atterra da mo ai prossimi vent’anni. A me che una puntura di zanzara mi fa stare squieto, figuriamoci una botta in fronte: il caldo, all’inizio non senti niente ma poi ti ritrovi pieno di sangue e dolore. Me la immagino come quando mi strafacciai con la bicicletta. Mi ricordo il primo corteo che ho fatto. Stavamo sul prato come adesso, mi guardavo attorno e vedevo la polizia avanzare ma mi dicevo “ma figurati se ci vengono ad attaccare a noi che stiamo qua tutti quieti e contenti e non facciamo male a nessuno”, figuriamoci. Il compagno con cui ero venuto però lui era preoccupatissimo, tanto che lo ritenevo paranoico. “Ce ne dobbiamo andare! Questi caricano!”, diceva. “Ma quando mai, vabuo se lo dici tu facciamo così, usciamo dalla piazza e passiamo sul lungomare”. Insomma, appena passato tra due carabinieri facendomi stretto stretto, sorpassata la fila, parte una carica verso la piazza, una delle più brutali e violente della storia italiana. Gente che era venuta con la chitarra e con la Bibbia al corteo fu scamazzata a sangue sul prato, senza pietà, con i ragazzi portati nelle caserme che fecero da preludio a Bolzaneto. Quando il giorno dopo guardai le immagini di quel poco che era successo, con i compagni ancora in caserma, pensai di essere un miracolato e che dovevo ringraziare la madonna e la paranoia del mio amico. Per questo mo io, da già miracolato lì e pure sul lungomare di Genova poche settimane dopo, con la guardia di finanza che sgormava a sangue i viecchi della rete Lilliput a pochi metri da me, mi spiegate che cazzo mi sono venuto a infognare in questa piccola città di provincia di merda, piena di fascisti che li vedo che fuori dal cordone della polizia che ridono e incitano i celerini a caricare. Guarda quel vecchio di merda cosa cazzo si ride. Allora guardo attraverso la fila di polizia e vedo un parco alle loro spalle, guarda caso si chiama Giovanni Paolo II proprio come a quello che io mai in vita mia ho potuto sopportare. Eppure se parte la carica, penso, me ne corro in avanti verso il parco. L’unica salvezza quel cazzo di papa polacco. Non ne sono certo eh. Guardo le compagne dietro lo striscione steso per terra. Tengono una cazzimma abissale, io me la faccio sotto e loro stanno là a gridare gli slogan e a sfottere la polizia. A sfottere! Questi mo ci caricano e noi li sfottiamo pure. Ma cosa cazzo e quanto le amo però a ste soggette. Eh ritorniamo alla domanda iniziale. Perché sono finito qui? A prendermi la prima e a questo punto sicuramente l’ultima manganellata della mia vita? Io, fosse per me, me ne andrei dietro, ci stanno quelli del partito comunista che se ne sono andati, beati a loro, forse per loro è finita così sta manifestazione, hanno detto i loro slogan dietro al corteo e amen. E invece mi avvicino piano piano verso lo striscione. Non ce la faccio. Nel senso che sono venuto qui vabè per una serie di motivi, di conseguenze, di situazioni una dopo l’altra a cascata, ma vorrei starmene adesso dall’altro capo del pianeta. Ma io sto qua con loro, come fai ad andartene e voltargli le spalle. Mi avvicino piano piano ancora di più, ormai sono quasi davanti ai celerini. We need yes! Cantano i compagni, e sfottono ancora la polizia. Prego la madonna e pure a Giovanni Paolo Secondo vi prego dateci sto cristo di incontro in Prefettura e facciamola finita. Cerco di assumere un’aria tranquilla ma in realtà sto ancora allucinato. Cerco pure di scambiare due chiacchiere con qualche amico, ma la tensione mi fa fare una smorfia storta. Ci sono finito qui, dicevo, perché mano mano mi è venuta la malsana idea che non è possibile solo “avere” una posizione sulle cose terribili che ci accadono e che funestano la nostra società, dovrei pure “prendere” una posizione. Ma sulle piccole cose, fare un corteo, un’assemblea, preparare uno striscione. Non so se mi spiego, ma è una questione di riconoscere di avere un privilegio: questi qui che manifestano sotto la fila della celere sono persone che lottano per la sopravvivenza, per avere uno straccio di documento, loro che lavorano la terra per ore con un salario schifoso e rischiano la vita ogni giorno. Due di loro, tornando da una manifestazione come questa, erano stanchi e si sono addormentati nella tenda del campo: la polizia ha appiccato un incendio per far sgomberare tutta la tendopoli ma loro due non hanno fatto in tempo a scappare e sono morti tra le fiamme. Escluso il rogo doloso, dicono i giornali. Sì, come no. Si chiamavano Mamadou Konate e Nouhou Dombia. C’è qualcuno con un cartello con il loro nome. Io mi avvicino ancora, guardo gli altri e penso al mio privilegio, il privilegio di uno che è venuto qui ma se volesse la madonna che questi non caricano se ne torna a casa sano e salvo e domani non tiene tante preoccupazioni se non quella di riposarsi dopo una giornata così faticosa. Questi qui invece rischiano la vita pure domani. Ho sempre avuto un’incredibile ammirazione per chi come loro attraversa decine di stati per cercare di campare, ci vuole un coraggio immenso. Per poi arrivare qua tra caporali, polizia e quel vecchio di merda che inzulfiava i celerini a caricare. Sono nel gruppo ormai, certo un poco poco ancora più defilato dallo striscione steso per terra ma ormai li posso vedere meglio in faccia. Ci sta una che ammiro in maniera assurda per quello che fa assieme ai migranti. Loro si seguono tutta la vertenza, da solidali, e non è che finito il corteo se ne tornano a casa, continuano a seguire come va a finire sta storia, che sicuro il Prefetto non riceve nessuno stasera. Figuriamoci, mo si tratta solo di uscire da sta cazzo di piazza. E infatti, deo gratia, partiamo in corteo verso la stazione. Appena vedo che la polizia ci fa passare, lancio un’occhiata di sdegno pure al parco di Giovanni Paolo Secondo, quello stronzo. Andiamo avanti, partono i cori, incredibile ma vero, pure se ancora guardo sospettoso intorno ai palazzi, riesco a urlare anche io “siamo tutti antifascisti!”. Mo faccio pure il tipo tosto. Ancora pochi metri e siamo in stazione, l’ultimo sforzo e quanto odio la polizia sti maledetti. Finalmente in piazza davanti la stazione, mi sgonfio di tensione, mo si tratta solo di andare a pigliare la macchina. Comunque, che schifo di militante che sono, non ho fatto altro che pensare a come non mi dovevo pigliare sta manganellata. Che poi dai, sicuro pure se piglio le mazzate qualche cosa poi la riesco e mi sento di fare, magari non subito ad un altro corteo, per carità. Vabè mo non esageriamo, qualche riunione al limite. Mi rimetto in macchina e andiamo via da sta città passando per i campi dove domani i fratelli andranno a faticare. Io domani mi sveglierò a mezzogiorno poco ma sicuro. È quell’amore che ancora ti spinge a fare qualcosa in più, per chi come me è abituato a pensare a come arrivare al pub la sera senza che qualcuno mi smuova dallo stato di quiete in cui mi trovo è un passo formidabile. Non credete. Arrivato a casa, qualcosa ancora mi turba. Il pensiero di prendere posizione, di non stare fermo al privilegio, almeno considerarlo presente nella mia vita. Questo mi spinge un po’ più in là. Certamente non avrò la capacità di combattere il capitalismo, di partecipare alla rivoluzione, però. Non c’è niente da riformare in questo sistema né ci sta il soggetto il partito la classe che ci porta in un nuovo e migliore mondo possibile. Non lo credo onestamente, una volta coltivavo delle illusioni politiche ma ora penso che il problema sia ancora più alla base. Almeno a sapersi riconoscere, a guardarsi intorno e a scegliersi i fratelli e le sorelle, a stargli accanto. Magari senza pigliare le mazzate.

L.C.