Le carceri non sono femministe

Marcha nocturna feminista. Foto: Pablo Ibáñez

Marcha nocturna feminista. Foto: Pablo Ibáñez

di C.A.M.P.A. (Colectivo de apoyo a mujeres presas en Aragon, Collettivo di solidarietà alle donne prigioniere d’Aragona)

Tradotto da http://arainfo.org/las-carceles-no-son-feministas/

Rispetto al caso di Laura Luelmo molte voci femministe hanno invitato alla sorellanza, a chiamare il fatto col suo nome (violenza di genere) a voler essere libere di tornare a casa (e non coraggiose nel farlo)…tutto ciò veniva accompagnato ancora una volta dalla richiesta del carcere o di pene più dure per i soggetti accusati delle azioni. La mediatizzazione dei crimini più terribili (e il suo impatto emotivo sulla società) crea un brodo di coltura perfetto per implementare politiche in materia penale, quello che conosciamo come populismo punitivo. Il populismo punitivo ha la sua base nel pensiero neoliberale secondo il quale le responsabilità sono individuali e la società è una somma di libere volontà, presumendo che non esistono condizioni materiali e che la nostra personalità non si costruisce a partire da interazioni sociali.

Istituire l’ergastolo nei casi di crimini sessuali non contribuirà a far cessare gli omicidi né le aggressioni su donne da parte di uomini; ciò che farà è rafforzare l’idea che le responsabilità sono esclusivamente individuali(1). L’internamento penitenziario, col suo carattere di istituzione totale, genera di per sé un alto livello di conflittualità. Il carcere – ricorrendo alla sua terminologia – non diminuisce il crimine e oltretutto non “ri-socializza” i/le condannati/e, cioè non migliora le loro condizioni sociali né personali, al contrario le deteriora. L’effetto dissuasivo della pena (a maggiore pena minor numero di delitti) è un mito. I crimini sono, nella stragrande maggioranza dei casi, prodotto di vuoti ed errori nella struttura sociale del sistema, tra cui l’educazione sessuale e affettiva, le precarie condizioni economiche, la mancanza di accesso al welfare eccetera. Perciò il castigo individuale non è utile nella soluzione e nel risanamento del danno.

Il sistema penitenziario riproduce e legittima le disuguaglianze strutturali sui cui si fonda. Noi del C.A.M.P.A. (Collettivo di Solidarietà alle Donne Prigioniere di Aragona) sosteniamo l’abolizione delle carceri come alternativa al mantenimento del sistema penitenziario il quale sostiene il peggioramento delle relazioni sociali e delle condizioni delle persone. La filosofa Angela Davis propone che le azioni per l’eliminazione di questi meccanismi punitivi instaurino poco a poco le proprie alternative al carcere (2).

Bisogna esigere un sistema che garantisca salute, lavoro, casa, etc. e alternative basate sulla cura e la protezione reale delle persone; un sistema che rivitalizzi l’educazione a tutti i livelli da un punto di vista antipunitivista e transfemminista. Ciò supporrebbe ad esempio sostenere una giustizia trasformativa, per mediare tra riparazione e riconciliazione con le persone coinvolte nel conflitto e la comunità, favorendo così la coesione e non la rottura del tessuto sociale. Piegando la facoltà di intervento nella società a nostro favore.

Coinvolgere la comunità

Emerge inoltre la necessità di sostituire il sistema penale (la relazione tra crimine e castigo), coinvolgendo la comunità come elemento necessario per il lavoro educativo e come spazio per generare legami e reti di aiuto. Il principale effetto negativo del giustizialismo (inasprire le pene, istituire l’ergastolo…) è che non si parte mai da un’analisi delle cause dei problemi sociali (supportato dalla menzogna che dice che è irrilevante la causa, e che se la pena è dura il delitto non verrà commesso di nuovo).

Il giustizialismo quindi prescinde dal femminismo, prescinde dalle cause e considera i crimini esclusiva responsabilità delle persone che li commettono e le uniche contromisure che si adottano in merito sono basate sul castigo e non sulla riparazione del danno.

Se parliamo della violenza maschilista come una serie di problemi individuali scollegati fra loro otterremo soltanto l’invisibilizzazione della loro reale causa: la struttura etero patriarcale che agisce come nesso del problema. Perciò sottoscriviamo le parole di Laia Sierra: “è legittimo, comprensibile e da rispettare che nel dolore si possa chiedere il ‘pugno di ferro’ contro i carnefici, ma l’empatia e la solidarietà con le vittime e con le sopravvissute non ci può far accettare che lo Stato attui riguardo ciò la sua politica criminale (3).

Non focalizzarsi sul castigo

A partire dai femminismi abbiamo alcune responsabilità. Dobbiamo ricercare una nuova logica, diversa da quella imposta dal sistema eteropatriarcale e cominciare a pensare al luogo in cui ci troviamo, in questo caso nel circuito del sistema penale.

Se ci si riferisce a noi come “donne aggredite” che vanno protette e che vivono nella paura, caute, insicure, e ci si colloca nella categoria delle vittime (anche da parte di certo femminismo) chi sarà e dove troveremo la nostra “entità salvatrice”? Nello Stato? Nel sistema penale? Nella giustizia? Negli uomini che ci aggrediscono? Sono questi i salvatori?

L’antropologa Rita Segato nel suo libro La guerra contra las mujeres scrive: “Questa costruzione coloniale moderna del valore residuale del destino femminile è ciò che dobbiamo smontare, contrastare e riprogrammare, perché è da questo schema binario e minorizzante che derivano non solo i mali che colpiscono la vita delle donne ma anche quelli che riguardano la società contemporanea nella sua interezza”.

Chi finisce in carcere?

Il giustizialismo, il punire individualmente e nella maniera più dura, si scontra frontalmente con la socializzazione, la collettività e con l’obiettivo di lavorare alle intersezioni che agiscono nei conflitti sociali in maniera proficua e vitale. Il punto è come educhiamo la società per comprendere il problema della violenza sessuale come un problema politico e non morale, come ben sottolinea Segato.

Pensare che il carcere sia necessario non è nient’altro che quel che ci hanno fatto credere fosse un tratto intrinseco alla vita e al nostro sistema politico e sociale. Per questo non è facile disfarci di questo supposto bisogno di punire e rinchiudere le persone per restare nell’ordine stabilito. In questo modo possiamo comprendere che si incarcerano le persone non per il delitto che commettono ma proprio per le loro condizioni sociali: poveri/e, dissidenti, marginali. Quando la rappresentazione simbolica della “malvagità” si spinge a definire mediaticamente un “Altro/a” come nemico, modifica le condizioni di visibilità di un problema che è strutturale e non individuale.

Il carcere pretende di occultare le persone detenute etichettandole come mostri delinquenti, in modo che generino indifferenza e repulsione nella società. Ciò non è altro che un modo di deresponsabilizzarci, dato che la cittadinanza si sente in tal modo estranea al criminale e i funzionari estranei al boia (4).

Il punto di vista abolizionista è difficile da gestire quando la cultura del castigo è radicata in tutti i fronti, tanto in quello degli oppressori quanto in quello delle oppresse. Ci basiamo da secoli su una cultura del castigo dell’Altro, dell’eretico, della strega, del pazzo, del delinquente, del mafioso, del pedofilo, del terrorista, insomma, del nemico. La cultura così istituita è, in sintesi, un elemento di addestramento e etichettatura che agisce attraverso il meccanismo peccato-punizione per produrre soggettività “a immagine e somiglianza” del funzionamento capitalista.

Si tratta, quindi, di continuare a seminare, pensare e costruire alternative e strategie contro i sistemi che ci opprimono e ci impediscono una vita degna e sostenibile e che, in definitiva, valga la pena di essere vissuta. È necessario che i femminismi si muovano in questo senso e non in altri. Mettendo i femminismi dalla nostra parte. Perché le carceri non sono femministe.

Note

  1. La violenza machista, una volta messa alle sbarre, si presenta come una eccezionalità individuale, separandola dalle pratiche sociali e dalle violenze quotidiane e convenzionali che la rendono possibile, invisibilizzando il carattere storico della società patriarcale e dell’attuale struttura sociale di relazioni di potere. Se vogliamo costruire un mondo più giusto, più umano, il carcere non serve nemmeno per i nostri peggiori nemici. Dobbiamo pensare a un’altra modalità di risoluzione dei conflitti che non passi per la logica giustizialista che punisce esclusivamente le persone e non si occupa delle condizioni che danno forma al conflitto”
    C.A.M.P.A., Come affrontare il caso de ‘La Manada’ da un’ottica transfemminista antigiustizialista
    https://campazgz.wordpress.com/2018/05/03/como-enfrentar-el-caso-de-la-manada-desde-un-feminismo-antipunitivista/disciplina y un control para poder ejercer el control sobre esa población

  2. Davis, A. Abolition Democracy: Beyond Prisons, Torture, and Empire, Seven Stories Press (October 1, 2005)

  3. Sierra, L. Populismo punitivo o como se instrumentaliza el dolor de las víctimas. http://www.pikaramagazine.com/2018/02/populismo-punitivo-o-como-se-instrumentaliza-el-dolor-de-las-victimas/

  4.  Guagliardo, V.: De los dolores y las penas. Ensayo abolicionista y sobre la objeción de conciencia. Traficantes de sueños, Madrid, 2013.