Mosca, 1938. Qualche chilometro fuori dalla capitale dell’URSS, tra boschi innevati e un silenzio spettrale, si incontrano tre alti dirigenti del partito comunista. Il dialogo è drammatico, dopo l’omicidio misterioso del compagno Tulaev, influente e spietato membro del comitato centrale, il cerchio della repressione si stringe non solo verso il possibile esecutore materiale del delitto, ma coinvolge in un’orgia delirante di sospetti tutti i vari uomini dell’apparato che sono invisi per qualche motivo alla polizia segreta oppure semplicemente possono fungere da capro espiatorio per l’occasione. I tre comunisti sono terrorizzati, ormai certi di avere il destino segnato: così come centinaia di migliaia di loro pari, tra i bolscevichi della prima ora come tra le fila dei quadri intermedi del partito, anche per loro è pronto un colpo di pistola alla tempia o una scarica di fucili del plotone di esecuzione, dopo essere stati annientati moralmente in un processo farsa nel quale ammettere le proprie colpe di traditori della rivoluzione. La bianchezza della neve moscovita diventa un tutt’uno con la discussione allucinata: cosa fare? Fuggire, spararsi un colpo di pistola adesso, sperare di essere “solamente” deportati in Siberia? Scende la sera e i tre dirigenti del PCUS ritornano mestamente nelle loro abitazioni, rassegnati ad affrontare gli eventi. Questa scena terribile e magnifica è solo una delle tante del capolavoro di Victor Serge “Il caso Tulaev”, un romanzo scritto nel 1947 durante l’esilio in Messico del rivoluzionario apolide, un anno prima della sua morte. Serge, pseudonimo spagnolo di Viktor L’vovic Kibal’cic, riesce a costruire un racconto di fantasia sul periodo delle purghe staliniane, liberamente ispirato alla carneficina di Stato successiva all’omicidio del capo del partito a Leningrado Sergej Kirov nel 1934. Del grande terrore degli anni trenta, Serge riesce a ricostruire il clima e gli stati d’animo delle vittime e dei carnefici di questa epoca così decisiva per la storia del Novecento e del fallimento nel delirio staliniano del socialismo reale. La fedeltà al Partito della vecchia guardia bolscevica rimase viva anche dopo l’arresto e i processi farsa, spesso i dirigenti arrestati si interrogano sul destino di un regime che reputano, nonostante gli orrori della repressione, storicamente superiore e moralmente migliore del capitalismo occidentale. Tra le pagine del libro compare anche lui, il “capo”, ossia Josip Stalin. Con i suoi occhi furbi e la corporatura massiccia, il paranoico dittatore sovietico parla a tu per tu con alcuni dei suoi vecchi compagni del periodo eroico del 1917, decidendo con una semplice frase il loro destino: una parola in più o in meno del capo e la sorte del dirigente amico di gioventù di Stalin può variare dall’esilio in Siberia a un colpo di rivoltella nella tempia appena usciti dalla stanza del Cremlino. Tutto pare vertere sulla volontà imprevedibile e inaccessibile del capo, ma questi a sua volta si atteggia a semplice esecutore di una volontà storica più grande di lui, una dura necessità sanguinosa che solo la sua grandezza può sopportare e applicare come necessità per far avanzare il socialismo nel suo radioso avvenire. La realtà storica, tuttavia, preme implacabile nelle stesse pagine del romanzo: con la seconda guerra mondiale alle porte, con un paese fiaccato da anni di carestia dovuti al delirante disegno di industrializzazione forzata e di collettivizzazione delle campagne, nonché dall’eliminazione fisica della maggioranza dei quadri del partito e dell’esercito, un massacro ancora maggiore sta per arrivare e travolgere milioni di russi. La domanda che aleggia per tutta la durata del testo è sempre la stessa: come è stato possibile tutto ciò, ovvero che la rivoluzione bolscevica finisse in un Termidoro di sangue e in un regime poliziesco crudele e ottuso? Altra domanda che può farsi oggi il lettore: come è stato possibile che quasi tutta la sinistra mondiale giustificasse questo abominio in nome del supporto al socialismo? Chi sapeva quanto è accaduto, lontano dal pericolo di morte immediato nella Russia di Stalin, che meccanismi mentali ha messo in opera per giustificare di fronte a se stesso e al mondo una strage così scientifica e implacabile? L’elenco degli intellettuali e dei grandi politici fedeli allo stalinismo novecentesco è lunghissimo, ed è veramente difficile pensare che nessuno sapesse quanto stava accadendo a Mosca durante tutti gli anni trenta. Per rispondere a una domanda così complicata e brutale, assieme all’osservazione dei personaggi descritti ne “Il caso Tulaev”, con il loro gregarismo e la loro ottusità, con l’umanissima paura di essere uccisi e la volontà delatoria di scaricare sul compagno di partito più vicino la paranoia assassina di Stalin, possiamo anche rivolgere lo sguardo all’attualità. I crimini del regime di Bashar Al-Asad, per dirne una, come sono stati recepiti dalla sinistra occidentale? Abbiamo visto anche dei fieri compagni comunisti italiani recarsi deferenti in visita dagli uomini del macellaio di Damasco: mentre centinaia di migliaia di persone venivano uccise, massacrate, torturate, esiliate, i compagni stringevano le mani degli ottusi e spietati carnefici del regime siriano in nome del presunto ruolo anti-imperialista di Asad. Forse basta poco nella propria mente per giustificare un omicidio, un genocidio, sull’altare immaginario di una necessità storica o geo-politica che si rivelerà sempre tragicamente falsa. Quasi tutti gli strenui difensori dello stalinismo novecentesco sono diventati dopo il crollo del 1989 i propagandisti più feroci del capitalismo neoliberista attuale: questo non può stupire, visto il carattere della stessa Russia del secolo scorso, nel suo statalismo brutale, nel suo sviluppismo ottuso. Se una transizione poteva esserci non era certo quella “doppia”, dal capitalismo verso il socialismo e dal socialismo verso il comunismo, come si diceva a Mosca nel 1938 mentre i dirigenti comunisti sparivano nel nulla, ma semplicemente una lunga e dolorosa transizione di un paese arretrato verso il capitalismo occidentale. Come oggi la Russia di Putin sia integrata nel capitalismo globale è sotto gli occhi di tutti: imperialismo, economia mafiosa, omofobia, tutti i tratti che imperversano nelle nostre società le ritroviamo perversamente inglobate a Mosca. La stessa Mosca che ha tenuto in piedi il regime genocida di Bashar Al-Asad. Se vogliamo trarre una conclusione per l’attualità di fronte alla rilettura delle pagine di Victor Serge, possiamo forse pensare a quanto la lucidità necessaria per l’analisi della società attuale debba essere accompagnata sempre da altre virtù etiche quali il coraggio, la solidarietà e il desiderio di ricercare sempre la verità, anche quando essa sia scomoda e metta in discussione il nostro orticello fatto da piccole sicurezze e comodità militanti. Nel mentre oggi stesso nei movimenti di opposizione al sistema siamo circondati dai tristi e farseschi epigoni della cultura staliniana, tra maschere di partitini e piccole organizzazioni che si dicono comuniste o per il “potere al popolo”, possiamo riflettere sul valore di un’etica rivoluzionaria sganciata dal sentimento di fedeltà ad un capo o ad una organizzazione burocratica: riprendere oggi il desiderio consiliare del 1917, quel movimento di assemblee che sconvolse per un attimo il mondo intero, significa espungere e ripudiare una volta per tutte ogni residuo di stalinismo che resta nelle nostre pratiche politiche quotidiane.
Lino Caetani