Monthly Archives: July 2017
Che cos’è un buongustaio? Le aragoste di David Foster Wallace e i social network
Dopo aver passato qualche decina di minuti su Twitter mi sono reso conto di aver letto ancora una volta il solito profluvio incessante di: foto di raffinati piatti a base di carne e pesce pronti per essere mangiati, battutine simpatiche contro i vegani, battute più esplicite tipo gente in posa davanti alla grigliata con il meme “in culo ai vegani”, polemiche politiche contro la giunta comunale grillina che avrebbe “imposto” nel menù di una mensa scolastica nientedimeno che un pericoloso piatto vegano una volta al mese. Tutto ciò viene postato ogni giorno anche da gente di sinistra, colta e progressista, tutte persone con le quali si condividono molte cose riguardo altre questioni, principi o scelte politiche. Mi è venuta la curiosità, per staccare da questo petulante ritornello, di rileggere il celebre racconto di David Foster Wallace “Considera l’aragosta”. Faccio un breve riassunto del bellissimo scritto di DFW. Lo scrittore americano viene inviato dalla rivista culinaria “Gourmet” a scrivere un reportage sul Festival dell’aragosta del Maine nel 2003. Il risultato del report di Wallace, sebbene parta da una richiesta piuttosto semplice, ovvero indagare alcuni aspetti sociali e di costume nell’ambito di una manifestazione turistica tipicamente americana, esonda massicciamente dal compitino richiesto dal giornale e diventa un classico sia della letteratura che della riflessione animalista. Il punto di partenza di Wallace è molto aperto e dubitativo, infatti più volte nel racconto l’autore si smarca dall’attivismo animalista della PETA (People for Ethical treatment of Animals) e da posizioni già precostituite sull’argomento. Nonostante questo atteggiamento di partenza, espresso con un tono conciliante e ragionevole, Wallace scrive una requisitoria che a distanza di anni resta ancora intatta con tutte le domande conclusive aperte e le questioni di fondo irrisolte. “Nella pratica, sappiamo tutti cos’è un’aragosta. Come al solito, però, c’è molto più da sapere di quanto possa interessare alla maggior parte di noi – è solo una questione di quali sono i nostri interessi”. Le aragoste sono degli enormi insetti marini con cinque paia di zampe, fino all’Ottocento erano un cibo proteico rivolto al consumo dei ceti bassi e venivano cucinate morte e conservate sotto sale. Oggi l’aragosta viene ritenuta un cibo prelibato, simile al caviale, un cibo estivo: l’aragosta appena pescata ha una polpa molto nutriente e gustosa, il metodo comune per essere cucinata è dunque bollirla viva. “Un dettaglio così ovvio che le ricette quasi mai lo menzionano è che le aragoste devono essere vive quando le mettete in pentola”. Questo dettaglio apre la riflessione morale di Wallace, una riflessione tanto sui generis per essere stata scritta sulle colonne di una rivista gastronomica quanto penetrante, attuale e di rilievo etico generalizzabile. “Ed ecco allora una domanda quasi inevitabile di fronte alla Pentola per aragoste più grande del mondo, domanda che potrebbe sorgere in varie cucine degli Stati Uniti: è giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?”. La domanda rimane aperta, anche dopo quattordici anni da quando è stata posta da DFW. Il racconto continua descrivendo lo straziante tentativo degli animali di uscire dalla pentola, aggrappandosi disperatamente e vanamente con le chele sui bordi: l’aragosta agisce come se stesse provando un dolore terribile, ed è ragionevolmente vero che questo strazio sia una cosa molto seria e reale per il crostaceo, poiché esso possiede una quantità sufficiente di struttura neurologica necessaria all’esperienza del dolore (nocicettori, prostaglandine, recettori oppioidi neuronali etc.) e per di più si comporta proprio come se volesse evitare questo dolore. Le aragoste, inoltre, sono sprovviste degli analgesici in dotazione nei sistemi nervosi dei mammiferi, quindi dovrebbero essere soggette in maniera ancora più atroce al dolore conseguente alla morte per bollitura. Alla fine del reportage, David Foster Wallace si dichiara più che altro confuso e curioso e chiede ai lettori della rivista “Gourmet” quali siano le loro sensazioni a riguardo: “Pensate molto allo status morale (possibile) e alla sofferenza (probabile) degli animali coinvolti? Se sì, quali convinzioni etiche avete trovato che vi permettono non solo di mangiare ma di assaporare e godervi vivande a base di carne (dato che naturalmente è il godimento raffinato, e non la mera ingestione, il punto fondamentale della gastronomia)?”. Siamo arrivati al punto di domanda finale del ragionamento di DFW, quello riguardante le implicazioni etiche e morali del mangiare animali per il proprio godimento personale, se debba essere solo una questione sensoriale, di gusto e non anche di empatia ed etica. La stessa domanda, come dicevo in precedenza, si ripropone quando ci troviamo di fronte a tanti compagni che postano ogni giorno le foto di animali uccisi, bolliti, fritti, impanati, pronti per essere mangiati per il proprio godimento raffinato e per essere condivisi sulle tavole e sulle bacheche dei social network.
Lino Caetani
La piega
“Per cominciare ad orientarci in questo mondo leibniziano, per Deleuze ancora attualissimo, potremmo appunto pensare che la realtà è fatta di pieghe, una piega che si prolunga all’infinito e non cessa di differenziarsi, ripiegamenti della materia e pieghe dell’anima. Una realtà porosa, rugosa, cavernosa, sempre in movimento, in uno sterminato brulicare di piccole pieghe: molteplicità che si ripiega e si spiega, e che sta a noi, alla nostra capacità di pensarla, tentare a nostra volta di spiegare. Per semplicità, possiamo pensare proprio alla stoffa e alle sue pieghe, a un tessuto che si trama di infinite increspature; oppure, con un occhio per così dire più orientale, possiamo pensare alla carta e quella sottile arte giapponese di piegarla che si chiama origami” [Pier Aldo Rovatti]
L’idea che sia costantemente importante fare e dare un punto e mai la linea, che la costruzione di soggettività sia più legata alle affinità e alle assonanze che ad un richiamo all’ordine, il tentativo di costruire una serie di composizioni che possano creare un modo differente di porsi rispetto all’analisi della realtà e dei suoi movimenti: questo blog collettivo nasce come un tentativo (uno dei tanti) di dare uno spazio virtuale (e possibilmente in alcuni casi anche fisico) a questa esigenza diffusa tra tant* di noi. La differenza che forse ci contraddistingue da altre elaborazioni collettive è che vorremmo tentare di dare voce a una presa di posizione intersezionale opposta al classico discorso legato ad analisi, commenti, autorappresentazioni politiche e opinioni: pur essendo legittime tutte queste ultime, riteniamo che ci sia una sottile differenza tra “avere” una posizione (il campo delle opinioni, soprattutto nell’era dei social, si dispone su un campo così vasto e sconfinato che sarebbe veramente una fatica improba attraversarlo con la pretesa di “fare egemonia” tra le posizioni contrapposte) e “prendere” una posizione, che implica un coinvolgimento emotivo, affettivo, quando cioè in ballo c’è il nostro corpo e ci sono le possibilità che i nostri incontri, anche i nostri discorsi e i nostri ragionamenti, producano qualcosa di positivo, un di più di gioia e di composizione comune. Viviamo un tempo nel quale è difficile, se non impossibile, costruire percorsi collettivi che siano felicemente intersecati con le volontà di essere singolarmente attivi, capaci di spendere le migliori energie individuali perché spesso questi tentativi si scontrano con la volontà di un soggetto egemone che propone la delega ai suoi associati, a cui chiede semplicemente di assumere un tono uniforme, un vocabolario collettivo, un linguaggio unico che chiuda ogni possibile fuga in avanti o divergenza. In questo stesso tempo, però, già l’emergere di un richiamo urgente alla pratica politica dell’intersezionalità ci porta a dover fare un passo in avanti: contro la gerarchia delle lotte, contro l’immagine del militante umano-maschio-lavoratore-occidentale siamo costrett* ad attraversare le varie faglie che il capitalismo oggi propone nel suo tentativo di riduzione ad uno dei vari mondi che esistono e potenzialmente potrebbero esistere: il transfemminismo queer, il superamento della dicotomia animale-umano, la lotta alle frontiere, non c’è nessun tema che oggi possa pretendere di zittire discorsi e pratiche di un altro percorso, ponendo una riduzione già in partenza delle pratiche di lotta. Attraversando questa realtà, tra le pieghe del molteplice, cercheremo di aprire qualche spazio in più di incontri, di complicità e relazioni solidali.
Quel giorno che non presi le manganellate
Per Mamadou Konate e Nouhou Dombia
Quello che mi domando, ma veramente, ma come cazzo ci sono finito qui? La polizia ha circondato la piazza, noi stavamo a bloccare il traffico al centro della città, da dove passano tutte le macchine di questo posto un po’ fascista, piano piano ci hanno stretti sulla rotatoria e un gruppo si è messo con lo striscione steso per terra. Da qui non ci muoviamo fino a che almeno il Prefetto non ci concede un’udienza. Mi guardo intorno e me la faccio sotto dalla paura. La fila di celerini bardati con caschi e manganelli si fa sempre più vicina. Allora, io penso che come prima cosa mi vorrei allontanare fuggendo insomma vorrei stare in qualsiasi posto ma non qui, vorrei stare a casa magari davanti al computer a twittare qualche cazzata. Meglio ancora a bere una birra. Ho una fifa bestiale delle manganellate dei celerini, penso che per quanto sono fracito una mazzata di quelle spranghe mi atterra da mo ai prossimi vent’anni. A me che una puntura di zanzara mi fa stare squieto, figuriamoci una botta in fronte: il caldo, all’inizio non senti niente ma poi ti ritrovi pieno di sangue e dolore. Me la immagino come quando mi strafacciai con la bicicletta. Mi ricordo il primo corteo che ho fatto. Stavamo sul prato come adesso, mi guardavo attorno e vedevo la polizia avanzare ma mi dicevo “ma figurati se ci vengono ad attaccare a noi che stiamo qua tutti quieti e contenti e non facciamo male a nessuno”, figuriamoci. Il compagno con cui ero venuto però lui era preoccupatissimo, tanto che lo ritenevo paranoico. “Ce ne dobbiamo andare! Questi caricano!”, diceva. “Ma quando mai, vabuo se lo dici tu facciamo così, usciamo dalla piazza e passiamo sul lungomare”. Insomma, appena passato tra due carabinieri facendomi stretto stretto, sorpassata la fila, parte una carica verso la piazza, una delle più brutali e violente della storia italiana. Gente che era venuta con la chitarra e con la Bibbia al corteo fu scamazzata a sangue sul prato, senza pietà, con i ragazzi portati nelle caserme che fecero da preludio a Bolzaneto. Quando il giorno dopo guardai le immagini di quel poco che era successo, con i compagni ancora in caserma, pensai di essere un miracolato e che dovevo ringraziare la madonna e la paranoia del mio amico. Per questo mo io, da già miracolato lì e pure sul lungomare di Genova poche settimane dopo, con la guardia di finanza che sgormava a sangue i viecchi della rete Lilliput a pochi metri da me, mi spiegate che cazzo mi sono venuto a infognare in questa piccola città di provincia di merda, piena di fascisti che li vedo che fuori dal cordone della polizia che ridono e incitano i celerini a caricare. Guarda quel vecchio di merda cosa cazzo si ride. Allora guardo attraverso la fila di polizia e vedo un parco alle loro spalle, guarda caso si chiama Giovanni Paolo II proprio come a quello che io mai in vita mia ho potuto sopportare. Eppure se parte la carica, penso, me ne corro in avanti verso il parco. L’unica salvezza quel cazzo di papa polacco. Non ne sono certo eh. Guardo le compagne dietro lo striscione steso per terra. Tengono una cazzimma abissale, io me la faccio sotto e loro stanno là a gridare gli slogan e a sfottere la polizia. A sfottere! Questi mo ci caricano e noi li sfottiamo pure. Ma cosa cazzo e quanto le amo però a ste soggette. Eh ritorniamo alla domanda iniziale. Perché sono finito qui? A prendermi la prima e a questo punto sicuramente l’ultima manganellata della mia vita? Io, fosse per me, me ne andrei dietro, ci stanno quelli del partito comunista che se ne sono andati, beati a loro, forse per loro è finita così sta manifestazione, hanno detto i loro slogan dietro al corteo e amen. E invece mi avvicino piano piano verso lo striscione. Non ce la faccio. Nel senso che sono venuto qui vabè per una serie di motivi, di conseguenze, di situazioni una dopo l’altra a cascata, ma vorrei starmene adesso dall’altro capo del pianeta. Ma io sto qua con loro, come fai ad andartene e voltargli le spalle. Mi avvicino piano piano ancora di più, ormai sono quasi davanti ai celerini. We need yes! Cantano i compagni, e sfottono ancora la polizia. Prego la madonna e pure a Giovanni Paolo Secondo vi prego dateci sto cristo di incontro in Prefettura e facciamola finita. Cerco di assumere un’aria tranquilla ma in realtà sto ancora allucinato. Cerco pure di scambiare due chiacchiere con qualche amico, ma la tensione mi fa fare una smorfia storta. Ci sono finito qui, dicevo, perché mano mano mi è venuta la malsana idea che non è possibile solo “avere” una posizione sulle cose terribili che ci accadono e che funestano la nostra società, dovrei pure “prendere” una posizione. Ma sulle piccole cose, fare un corteo, un’assemblea, preparare uno striscione. Non so se mi spiego, ma è una questione di riconoscere di avere un privilegio: questi qui che manifestano sotto la fila della celere sono persone che lottano per la sopravvivenza, per avere uno straccio di documento, loro che lavorano la terra per ore con un salario schifoso e rischiano la vita ogni giorno. Due di loro, tornando da una manifestazione come questa, erano stanchi e si sono addormentati nella tenda del campo: la polizia ha appiccato un incendio per far sgomberare tutta la tendopoli ma loro due non hanno fatto in tempo a scappare e sono morti tra le fiamme. Escluso il rogo doloso, dicono i giornali. Sì, come no. Si chiamavano Mamadou Konate e Nouhou Dombia. C’è qualcuno con un cartello con il loro nome. Io mi avvicino ancora, guardo gli altri e penso al mio privilegio, il privilegio di uno che è venuto qui ma se volesse la madonna che questi non caricano se ne torna a casa sano e salvo e domani non tiene tante preoccupazioni se non quella di riposarsi dopo una giornata così faticosa. Questi qui invece rischiano la vita pure domani. Ho sempre avuto un’incredibile ammirazione per chi come loro attraversa decine di stati per cercare di campare, ci vuole un coraggio immenso. Per poi arrivare qua tra caporali, polizia e quel vecchio di merda che inzulfiava i celerini a caricare. Sono nel gruppo ormai, certo un poco poco ancora più defilato dallo striscione steso per terra ma ormai li posso vedere meglio in faccia. Ci sta una che ammiro in maniera assurda per quello che fa assieme ai migranti. Loro si seguono tutta la vertenza, da solidali, e non è che finito il corteo se ne tornano a casa, continuano a seguire come va a finire sta storia, che sicuro il Prefetto non riceve nessuno stasera. Figuriamoci, mo si tratta solo di uscire da sta cazzo di piazza. E infatti, deo gratia, partiamo in corteo verso la stazione. Appena vedo che la polizia ci fa passare, lancio un’occhiata di sdegno pure al parco di Giovanni Paolo Secondo, quello stronzo. Andiamo avanti, partono i cori, incredibile ma vero, pure se ancora guardo sospettoso intorno ai palazzi, riesco a urlare anche io “siamo tutti antifascisti!”. Mo faccio pure il tipo tosto. Ancora pochi metri e siamo in stazione, l’ultimo sforzo e quanto odio la polizia sti maledetti. Finalmente in piazza davanti la stazione, mi sgonfio di tensione, mo si tratta solo di andare a pigliare la macchina. Comunque, che schifo di militante che sono, non ho fatto altro che pensare a come non mi dovevo pigliare sta manganellata. Che poi dai, sicuro pure se piglio le mazzate qualche cosa poi la riesco e mi sento di fare, magari non subito ad un altro corteo, per carità. Vabè mo non esageriamo, qualche riunione al limite. Mi rimetto in macchina e andiamo via da sta città passando per i campi dove domani i fratelli andranno a faticare. Io domani mi sveglierò a mezzogiorno poco ma sicuro. È quell’amore che ancora ti spinge a fare qualcosa in più, per chi come me è abituato a pensare a come arrivare al pub la sera senza che qualcuno mi smuova dallo stato di quiete in cui mi trovo è un passo formidabile. Non credete. Arrivato a casa, qualcosa ancora mi turba. Il pensiero di prendere posizione, di non stare fermo al privilegio, almeno considerarlo presente nella mia vita. Questo mi spinge un po’ più in là. Certamente non avrò la capacità di combattere il capitalismo, di partecipare alla rivoluzione, però. Non c’è niente da riformare in questo sistema né ci sta il soggetto il partito la classe che ci porta in un nuovo e migliore mondo possibile. Non lo credo onestamente, una volta coltivavo delle illusioni politiche ma ora penso che il problema sia ancora più alla base. Almeno a sapersi riconoscere, a guardarsi intorno e a scegliersi i fratelli e le sorelle, a stargli accanto. Magari senza pigliare le mazzate.
L.C.