Il 19 luglio in Nicaragua

Da http://www.alasbarricadas.org/noticias/node/40403

Oggi è il 19 luglio e nel mondo anarchico si celebra l’impresa della CNT a Barcellona avvenuta nel 1936. Ma visto che quel giorno stavo cercando funghi nella Loira (avevo intuito che stava per succedere qualcosa), preferisco ricordare come il 19 luglio 1979 il Fronte di liberazione nazionale sandinista abbia travolto la dittatura di Somoza in Nicaragua.

Sono stati degli anni, per me, pieni di ottimismo. L’anarchismo era in crisi, ovviamente. Quasi morto. Il marxismo trionfava ovunque. E vai! So che ora nei circoli di sinistra si dice che “quello non era il marxismo”, o che “il marxismo non era quello”. Però se vi immedesimate un attimo in quel periodo, dagli anni ‘70 ai successivi, il marxismo egemonizzava tantissimi movimenti di liberazione e guerriglieri, persino la Chiesa cattolica con la sua teologia della liberazione. Tantissimi sacerdoti hanno abbracciato la causa dei poveri e hanno mischiato Cristo a Marx, in un film che non ho capito bene, ma non fa niente (1).

Bisogna anche tenere a mente che a quel tempo non c’era internet né alcun sito di informazione di sinistra. Per scoprire cosa stava succedendo nel mondo, non c’era nient’altro da fare che leggere la stampa convenzionale o la stampa estera, o ascoltare le emittenti radio a onde corte che trasmettevano propaganda. Le riviste di sinistra, una volta caduta la dittatura di Franco, uscivano una volta al mese. E quando leggevi gli articoli, tra le poche cose scritte dai ben informati e la propaganda tossica che le persone ripetevano come pappagalli, puff. Dovevi immaginare tutto. Sto per dire, quindi, soltanto quello di cui mi sono fatto un’idea per come ho percepito i fatti.

L’anarchismo era un disastro nel ‘79, siamo d’accordo. Quattro gatti. I marxisti ti guardavano dall’alto verso il basso e se fossero entrati in un autobus con tutti i posti occupati, con assoluta sicumera si sarebbero seduti sopra di te, senza nemmeno chiedere il permesso. Hanno avuto l’Unione Sovietica, hanno avuto la Cina, il Vietnam, la Cambogia, una catena infinita di paesi governati da economie non di mercato. Gli anarchici non avevano nulla. Solo i vessilli del 1936. I marxisti avevano resistito agli Stati Uniti, e nella mappa del pianeta il posto occupato dai loro paesi stava diventando sempre più esteso. Il Nicaragua stava nella lista. Dal 1978, più o meno, erano notizie all’ordine del giorno “i colpi di mano del Fronte sandinista”, “gli omicidi commessi dal dittatore”, ecc. Eden Pastora, “il Comandante Zero”, organizzò un sorprendente assalto al congresso assieme ai suoi uomini e, cosa più importante, lo lasciarono vivo e accolsero tutte le loro richieste. E questo e quell’altro ancora…

Ed ecco, che cosa va a succedere? Una guerriglia povera, aiutata da varie circostanze, riesce a sconfiggere la Guardia Nazionale in Nicaragua. E il 19 luglio 1979, i sandinisti entrano vittoriosi a Managua. E dicono che faranno la rivoluzione: espropriazione delle famiglie di oligarchi e somozisti, riforma agraria, campagna di alfabetizzazione, diritti per i lavoratori. Il governo di transizione era composto da diverse tendenze, tutte con ottime intenzioni. Parte della Chiesa cattolica sosteneva la rivoluzione. In Spagna, la musica di Carlos Mejía Godoy veniva ascoltata ogni giorno nelle radio commerciali e le sue canzoni sulle masse contadine venivano vendute come ciambelle. Ne ho qualcuna conservata da qualche parte.

Per contestualizzare meglio le cose, quando i sandinisti hanno vinto, negli Stati Uniti governavano i democratici. Un tale Jimmy Carter. Certo, essere presidente degli Stati Uniti ti rende uno dei cattivi. Ma, più o meno, Carter ha gestito la questione sandinista cercando un compromesso. Poi succede tutto quello che accade dopo il 1979: nel 1980, fu eletto Ronald Reagan. E questo fatto ha scatenato tutte le peggiori forze provenienti dell’inferno, Satana e Attila, insieme a Papa Giovanni Paolo II.

Reagan, presidente dal novembre 1980, dichiarò guerra al Nicaragua. Non ci fu una dichiarazione formale, ma finanziò un esercito mercenario, i Contras, che armò fino ai denti offrendogli anche consulenti e operazioni segrete, armi, elicotteri. Gli Stati Uniti, la Patria dei Liberi, la più grande democrazia del pianeta, cominciarono una campagna terroristica contro il popolo del Nicaragua. Tutto dimostrato: gli USA hanno minato i porti del Nicaragua; compiuto operazioni di sterminio contro la popolazione, liquidando completamente le organizzazioni dei lavoratori agricoli; sabotato il trasporto, le comunicazioni, l’energia, tutte le forniture. Non vedendo altra possibilità, il governo sandinista firmò accordi con l’Unione Sovietica e Cuba, venendo così ascritto al mondo sovietico.

Come può essere sviluppata una rivoluzione, che dia terre ai contadini, diritti ai lavoratori, cibo, salute, cultura etc, mentre migliaia di uomini armati mettono bombe, sequestrano sindacalisti, assaltano le fabbriche, minano le strade, macellano i funzionari, lanciano missili da elicotteri, spiano con i satelliti? Non si può. Anche per dire una messa, dovevi mettere una scorta con le mitragliatrici.

Questa dinamica produce anche un altro effetto. I tipi ben intenzionati vengono messi da parte, perché tutto si concentra sulla difesa e sull’esercito: servizio militare, addestramento, logistica. E questo fa prevalere quella gente che, se non ha una cattiva disposizione, se la crea in un percorso accelerato. La discussione non è consentita, né lo scambio di opinioni, né la dissidenza, né la critica all’interno del Fronte, perché siamo in guerra e dobbiamo rimanere uniti. Inoltre, l’informazione è controllata, dosata, tutto diventa scuro, sinistro.

Aggiungiamo questo a quello che succede con qualsiasi nuovo governo: che i militanti diventano funzionari, che arrivano dozzine, centinaia, migliaia di individui il cui più grande desiderio è quello di mantenersi ben stretto il posto, fino all’arrivo della Fine del Mondo. E i dirigenti si corrompono, se non lo erano già. Daniel Ortega, che era un ragazzo per me sconosciuto, era Il Presidente. Pensavo che avrebbero messo Eden Pastora, invece no. Apparentemente il comandante Zero era un buon capo guerrigliero, ma per comandare il paese era necessario l’uomo della provvidenza, l’uomo forte: Ortega. In breve tempo si è scoperto che Eden Pastora era un nemico della rivoluzione, che era finita a pesci in faccia con Ortega. Non ricordo perché. Ci sono stati anche problemi con le comunità indigene dei miskito, che avrebbero ucciso dei sandinisti, o almeno così si diceva, e una serie di storie…che quando mi venivano raccontate dai sostenitori del governo, io non dicevo una parola, perché mi sembravano un così grande cumulo di bugie che non sapevo nemmeno da dove cominciare. Dico solo una cosa: i dirigenti, i leader, i capi e i “grandi uomini” sono cattivi. Ma intorno a loro c’è tutta una schiera di uomini grigi che si prendono cura di loro, li coccolano e li proteggono, perché è grazie alla loro esistenza, al loro benessere, al loro carisma indiscutibile e alle loro straordinarie qualità coltivate e protette con pazienza, che dipende lo stipendio che li fa arrivare a fine mese. Se i capi sono crudeli, quelli lo sono ancora di più. I grigi funzionari che fanno da attendenti al potere sono e saranno sempre la peste. E i sandinisti che andavano e venivano, nemmeno ti dicevano molto, magari qualche aneddoto, perché li mettevano in cooperative e comuni a occuparsi di qualsiasi cosa, ma non avevano una visione globale. In breve: non mi fidavo di nessuno. Lo stesso di adesso.

Risultato: nel 1990 il Fronte sandinista perde le elezioni. La gente era stufa della guerra, della corruzione, della violenza, della povertà, o qualunque cosa fosse, e fu eletta Violeta Chamorro che, siccome era neoliberista, ha messo il paese nicaraguense agli ultimi posti nella classifica della povertà mondiale. Amen. Tutto ciò è accaduto sotto il controllo dell’URSS. Siamo passati dall’arroganza marxista-leninista alla sconfitta assoluta. Il mondo dei due blocchi è passato alla storia. L’ho guardato stoicamente, perché sono un anarchico e sono abituato alla sconfitta. I leninisti, invece, fecero finta di niente. Come se non fosse successo nulla. Cercando di darsi un tono. E intanto il tempo passava.

Nel 1998 accadde qualcosa che mi colpì davvero: Daniel Ortega, il ragazzo del ’79, il comandante della rivoluzione, fu denunciato dalla figliastra Zoilamérica Narváez Murillo. In quel periodo ricordo Zoilamerica da una foto, come una ragazza sulla trentina. Bene, la ragazza testimonia davanti ai tribunali e alla stampa che il suo patrigno, Daniel Ortega, l’aveva stuprata ripetutamente tra il 1978 e il 1982, più o meno. Lei aveva 12 anni. La denuncia che ho letto faceva rizzare i capelli (2). Ma la cosa peggiore era la difesa di Ortega. Affermò che aveva l’immunità essendo un deputato, che tutto era caduto in prescrizione e che negava i fatti. La causa non è andata in giudizio “perché è prescritta”. E i fan di Ortega con cui ho parlato, mi risposero che la ragazza era pazza, che aveva del risentimento contro il patrigno, che era una “contras” e cose simili e peggiori. Quando ho risposto che la testimonianza della giovane donna era simile a quella di molte altre donne maltrattate, mi hanno detto che era normale che sembrasse così, perché la ragazza aveva preparato una falsa testimonianza studiata ad arte, ecc. E che avrebbero voluto sapere chi e quanto la stesse pagando. Che schifo.

Caliamo un velo pietoso su questa vicenda e arriviamo al 2006, quando Daniel Ortega, messi da parte i suoi problemi di pedofilia, è di nuovo il candidato alle presidenziali del Fronte Sandinista, e vince le elezioni una dopo l’altra, fino ad oggi. E sua moglie, quella attuale, diventa vicepresidente. Che grande coincidenza. Ortega propose e riuscì a riformare la norma che impediva la rielezione dei presidenti, e ora può rimanere lì fino alla fine del mondo, come nella burocrazia sovietica. Il programma che il suo partito ha in questo momento è piuttosto socialdemocratico: rispetto per la proprietà privata, la sanità pubblica, l’istruzione e tutto il resto. Continuano a invocare Dio ogni tanto, ma penso che abbiano completamente mollato la presa e parlano solo di Dio come una scusa per continuare ad averne beneficio, senza la teologia della liberazione o altro, perché la gente alla fin fine è cattolica(3). E ora Daniel sta manipolando il budget statale, che sembra essere piuttosto scarso, e propone una riforma della previdenza sociale e delle pensioni dannosa per le tasche dei poveri…

E così scoppia una rivolta della popolazione (4). Sono cose che capitano e qui mi fermo. Questa volta non sono i Contras, ma gli studenti, i pensionati, le casalinghe. Qual è la risposta del signor rivoluzionario? La repressione. Oltre 300 morti per mano delle forze di sicurezza e delle milizie irregolari. E qual è la risposta della sinistra? Come quando i sovietici schiacciarono le rivolte di Kronstad, Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia: che la destra golpista istiga le masse e che le masse realmente popolari stanno coi sandinisti. Che i morti nelle manifestazioni sono prodotti dagli stessi manifestanti, molti dei quali terroristi. Che ci sono rivendicazioni di cui si può discutere, ma non così, istigando la popolazione, costruendo barricate e altro ben di Dio. Queste cose vanno bene, quando il governo è di destra. Ma non quando c’è uno “stato sociale”, per chiamarlo così.

Ad ogni modo, io, come regola, sono dalla parte dei manifestanti che muoiono, anche se provengono dalla Fratellanza Musulmana. Non per fede: come regola.

I governanti, anche se hanno la bandiera rossa e nera, non li sopporto.
Il 19 luglio 1979, i sandinisti entrarono a Managua e formarono un governo…perché gli eroi inciampano sempre, sulla stessa pietra.

Note:

(1) Nelle parole dell’arcivescovo di El Salvador, Óscar Arnulfo Romero (per niente marxista tra l’altro), assassinato dai paramilitari nel 1980, proclamato beato dalla Chiesa cattolica, una spiegazione del perché il sostegno della Chiesa per i poveri: “Las mayorías pobres de nuestro país son oprimidas y reprimidas cotidianamente por las estructuras económicas y políticas de nuestro país. Entre nosotros siguen siendo verdad las terribles palabras de los profetas de Israel. Existen entre nosotros los que venden el justo por dinero y al pobre por un par de sandalias; los que amontonan violencia y despojo en sus palacios; los que aplastan a los pobres; los que hacen que se acerque un reino de violencia, acostados en camas de marfil; los que juntan casa con casa y anexionan campo a campo hasta ocupar todo el sitio y quedarse solos en el país. […] Es, pues, un hecho claro que nuestra Iglesia ha sido perseguida en los tres últimos años. Pero lo más importante es observar por qué ha sido perseguida. No se ha perseguido a cualquier sacerdote ni atacado a cualquier institución. Se ha perseguido y atacado aquella parte de la Iglesia que se ha puesto del lado del pueblo pobre y ha salido en su defensa. Y de nuevo encontramos aquí la clave para comprender la persecución a la Iglesia: los pobres. De nuevo son los pobres lo que nos hacen comprender lo que realmente ha ocurrido. Y por ello la Iglesia ha entendido la persecución desde los pobres. La persecución ha sido ocasionada por la defensa de los pobres y no es otra cosa que cargar con el destino de los pobres. […] El mundo de los pobres con características sociales y políticas bien concretas, nos enseña dónde debe encarnarse la Iglesia para evitar la falsa universalización que termina siempre en connivencia con los poderosos. El mundo de los pobres nos enseña cómo ha de ser el amor cristiano, que busca ciertamente la paz, pero desenmascara el falso pacifismo, la resignación y la inactividad; que debe ser ciertamente gratuito pero debe buscar la eficacia histórica. El mundo de los pobres nos enseña que la sublimidad del amor cristiano debe pasar por la imperante necesidad de la justicia para las mayorías y no debe rehuir la lucha honrada. El mundo de los pobres nos enseña que la liberación llegará no sólo cuando los pobres sean puros destinatarios de los beneficios de gobiernos o de la misma Iglesia, sino actores y protagonistas ellos mismos de su lucha y de su liberación desenmascarando así la raíz última de falsos paternalismos aun eclesiales. Y también el mundo real de los pobres nos enseña de qué se trata en la esperanza cristiana”

(2) Testimonianza di Zoilamérica in: http://www.latinamericanstudies.org/nicaragua/zoilamerica-testimonio.htm

(3) Più o meno al 20° minuto del video, si può ascoltare il discorso della Vice Presidente, moglie del Presidente, e dirmi se le cose che accadono nella testa della gente sono normali o cosa https://www.youtube.com/watch?v=t60mABJIHk4&t=1383s

(4) Il governo del Nicaragua lancia un attacco su larga scala contro la città di Masaya, la roccaforte dei manifestanti https://www.eldiario.es/internacional/Gobierno-fuerte-comunidad-indigena-Nicaragua_0_793721450.html

La Siria e l’imperialismo

Tradotto da http://m1aa.org/?p=1527

di KS of M1 Michigan Collective

Una rivoluzione contro il neoliberismo

Quando Bashar Al-Assad salì al potere in Siria nel 2000, qualsiasi illusione che il regime autoritario dinastico baathista fosse “socialista” in qualche modo avrebbe dovuto essere dissipata, se non fosse già accaduto quando Hafez Al-Assad prese il potere in un colpo di stato controrivoluzionario negli anni ’70. Il giovane Assad iniziò vigorosamente a liberalizzare i mercati siriani, in particolare il cibo e l’agricoltura, e ad aprire la Siria ai capitali stranieri. Nei successivi undici anni, insieme agli effetti dei cambiamenti climatici causati dal capitalismo globale, il programma neoliberista di Assad ha prodotto risultati devastanti: l’occupazione agricola è stata dimezzata, il costo delle merci è aumentato in modo significativo, i servizi pubblici sono stati tagliati, il reddito pro capite è diminuito drasticamente e la povertà crebbe dilagante. Mentre i centri urbani hanno lottato per assorbire il massiccio esodo rurale, le città rurali di piccole e medie dimensioni sono state decimate e si sono così poste le basi di classe della rivoluzione siriana. (1) (2).

Se il neoliberismo e decenni di violenta repressione furono il carburante per la rivoluzione siriana, la scintilla fu la primavera araba. L’ondata di rivolte rivoluzionarie pro-democratiche e anti-austerità iniziate in Tunisia e diffusesi in tutta la regione (che hanno colpito indiscriminatamente paesi allineati e contrari agli Stati Uniti) ha catturato l’immaginazione degli operai e degli studenti siriani, e nel 2011 il popolo siriano ha iniziato prendendosi le strade in segno di protesta contro il regime di Assad. Il regime di Assad ha “accolto” le richieste pacifiche dei manifestanti con proiettili e diversivi, similmente a come altri regimi mediorientali hanno risposto alle persone che resistevano all’austerità, all’autoritarismo e alla violenza di stato. Mentre i proiettili di Assad piovevano sulla sua opposizione, le proteste si trasformarono in una rivoluzione; rivolte spontanee e informali si sono trasformate in organizzazione rivoluzionaria. Influenzati dal lavoro dell’anarchico siriano Omar Aziz, oltre un centinaio di consigli di commissioni rivoluzionarie locali di diverse federazioni furono organizzati in tutta la Siria, a cominciare da Damasco e proliferando verso l’esterno. (3)

Mentre i giovani riempivano le strade chiedendo la fine del governo neoliberista e autoritario, lo stato baathista iniziò a perdere il suo decennale controllo del paese. La conseguente instabilità divenne un invito per l’intervento delle potenze imperiali e un’occasione di sviluppo delle correnti reazionarie. Mentre Assad rilasciava i jihadisti dalle carceri siriane (4) e uccideva i rivoluzionari di sinistra (5), Stati Uniti, Russia, Iran, Turchia e le altre potenze regionali che circondano la Siria iniziarono i loro tentativi di sviluppare approcci e strategie per approfittare dell’instabilità. Gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali offrirono assistenza limitata a una parte dell’opposizione siriana fin dall’inizio nel conflitto, allo scopo di proteggere la loro egemonia nella regione – ma presto concentrarono tutte le loro risorse sulla strategia di “combattere il terrore”. Russia e Iran intervennero militarmente, nel momento di maggiore difficoltà del regime di Assad, con la pretesa di “combattere il terrore” e di contrastare le manovre degli Stati Uniti. Mentre la rivoluzione offriva un’apertura alla lotta curda per l’autodeterminazione, lo stato turco intensificò la sua campagna di violenza per contrastare il progresso curdo*. All’interno di questo conflitto multiforme e multidimensionale, è emerso un tema comune tra gli interessi degli attori imperiali intervenienti: la priorità è “combattere il terrore”. Questo tema unificante in realtà non rende la situazione più facile da capire, ma espone strati di contraddizione e complessità nel modo in cui ciascun attore in questo conflitto si relaziona con gli altri. Il regime di Assad e le potenze del golfo hanno aiutato la nascita dell’ISIS e di altri gruppi jihadisti in Siria (6) (7) per ragioni opposte: per Assad era un capro espiatorio per screditare la rivoluzione; per gli stati del golfo, era quello di ottenere un punto d’appoggio in Siria. Gli Stati Uniti hanno armato i curdi (che erano soliti chiamare terroristi) per combattere l’ISIS e si sono messi in contrasto con la loro storica alleata Turchia. Il conflitto dei curdi con la Turchia e l’ISIS li ha messi in una posizione di collaborazione con il governo di Assad. Gli Stati Uniti, che chiedevano apertamente la fine del dominio di Assad, dichiararono una linea rossa invalicabile sull’uso di armi chimiche da parte del regime mentre eseguivano migliaia di attacchi aerei contro i nemici di Assad – e, a fini strategici e propagandistici, un paio di attacchi aerei contro obiettivi del regime mezzi vuoti (depositi di armi, capannoni, basi militari evacuate, Ndt), dopo essersi accordati con la Russia su quali fossero gli obiettivi accettabili e dando comunque un discreto preavviso prima delle incursioni (8) (9). Le complessità di come il conflitto si riproduce ogni giorno, con tutte le sue contraddizioni, sono travolgenti. Tuttavia, chiaramente, implicito in questa decisione di dare la priorità al “combattere il terrore” c’è un solido consenso attorno al sostegno al regime di Assad, anche se questa posizione non è esplicitamente articolata. Sebbene non vi sia una sola tematica in grado di riassumere il conflitto, questo è un punto importante e una base per la discussione.

Più avanti in questo pezzo, vorrei collocare la discussione sulla geopolitica al suo posto precipuo, data la centralità di altre considerazioni: la tendenza a ridurre i conflitti e le rivoluzioni alle manovre degli Stati è orribilmente riduttiva, come lo è ridurre ogni causalità a considerazioni esclusivamente economiche – entrambe le tendenze sono espressione della (di una varietà di) analisi marxista-leninista dell’imperialismo e sono qualcosa che dobbiamo contrastare nell’ottica di un discorso finalmente umano sull’antimperialismo e sulla rivoluzione. Tuttavia, in primo luogo voglio criticare la concezione teorica esposta da molti marxisti-leninisti nei confronti dell’imperialismo e della Siria, per evidenziarne i suoi limiti. Sebbene le considerazioni economiche, geopolitiche e politiche non siano esclusivamente determinanti, sono comunque importanti e meritano qualche interrogativo.

Il Monopolio e il Mito del Capitalismo Multipolare

La complessità della presenza imperiale in Siria ha colto l’occidente alla sprovvista; è stato un momento in cui molti hanno finalmente realizzato che il mondo unipolare che sorgeva sulla scia del crollo dell’Unione Sovietica dovesse essere messo in discussione, se non addirittura da considerare sulla via del tramonto. Direi che il mondo è ancora unipolare sotto diversi punti di vista, ma questo ordine sta effettivamente affrontando delle sfide. La politica post-seconda guerra mondiale di unire i rivali inter-capitalisti in tutto il mondo è diventata insostenibile, poiché l’emergere di Cina, Russia e altri mercati emergenti ha alterato il campo geopolitico. Gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, l’Iran e anche la Siria sono tutti imperi di dimensioni e portata diverse, ma non si distinguono nella forma. Man mano che questi paesi si integrano ulteriormente nell’ordine capitalista globale, le loro tendenze verso l’espansione e l’ulteriore sfruttamento diventano più potenti. Lo stato imperiale nel capitalismo svolge il ruolo di facilitare la conquista e anche la difesa (proteggendo gli investimenti e gli interessi ad essi collegati). Il capitalismo non è storicamente l’unico motore dell’imperialismo, ma l’imperialismo è stato parte integrante del capitalismo sin dal suo inizio. (10)

L’idea che l’espansionismo imperiale sia inerente al capitalismo è un importante punto teorico, e non è una cosa che viene misconosciuta dai marxisti-leninisti. Tuttavia, c’è forse una strategia di elusione quando si parla di questo fatto. Una contraddizione all’interno della teoria marxista-leninista dell’imperialismo e del capitalismo monopolistico è che l’autodeterminazione capitalista ha come risultato l’impero. Il capitalismo è sostenuto solo dalla sua espansione. Riconoscere questo non implica che si sia contrari alla liberazione nazionale, ma piuttosto ci fornisce una lente anticapitalista critica per comprendere la liberazione nazionale. Con questa comprensione, possiamo andare avanti con il riconoscimento che la Russia e l’Iran, per esempio, non sono stati anti-imperialisti per definizione; sono imperi capitalisti emergenti, i cui interessi nello sfruttamento e nel territorio possono o non possono essere in conflitto con gli Stati Uniti (e l’un l’altro), ma non hanno forme diverse. Pertanto, i loro interventi in Siria sono interventi imperiali; e dato che Assad non avrebbe potuto sopravvivere alla rivoluzione popolare senza il sostegno russo e iraniano, crediamo che sia una farsa riferirsi al regime di Assad come espressione dell’autodeterminazione nazionale (11).

A parte la comoda abitudine di seguire la semplicistica logica binaria della guerra fredda, il sostegno geopoliticamente motivato a Bashar Al-Assad da parte di alcuni è il segno della generica aspirazione ad una multipolarità capitalista. I fondamenti teorici di questa idea possono essere trovati in Lenin, nella scuola della “Monthly Review” e nei teorici della “dipendenza” come Samir Amin – ed è fondamentale dire che questa aspirazione alla multipolarità capitalista si rivela allo stesso tempo come un’illusione e come una teoria controrivoluzionaria. Secondo questa teoria dell’imperialismo, l’imperialismo è guidato dagli interessi del capitale monopolistico, i cui interessi e istituzioni si sono fusi con la finanza e lo stato (12). Quindi l’imperialismo è un’espressione monopolistica del potere nel mercato globale, e la posizione antimperialista è impegnarsi in lotte di liberazione nazionale contro i capitalisti monopolistici del nucleo imperiale. In particolare, ciò che viene enfatizzato in questo contesto è la lotta tra gli stati che rappresentano i capitalisti, mentre la lotta tra lavoro e capitale viene relegata in un angolo. Abbiamo visto storicamente come questo di solito si sia tradotto nel “Frontismo popolare” e nella giustificazione di allearsi con la borghesia nazionale in quella che è essenzialmente una versione esagerata di una posizione favorevole alla piccola impresa; se ciò che è più importante è espellere i capitalisti monopolisti stranieri, allora un’alleanza con i capitalisti nazionali è giustificata. In effetti, questa strategia è ciò che spinse il regime baathista siriano inizialmente negli anni ’60, proprio come fu per gli ayatollah in Iran negli anni ’70. In entrambi i casi, la strategia ha lasciato le forze progressiste vulnerabili alle forze reazionarie all’interno del fronte, e il capitalismo e il conservatorismo sono stati rafforzati. (13) (14).

L’idea che sia assolutamente necessario prendere le parti all’interno delle rivalità inter-capitaliste per resistere al monopolio è un vicolo cieco fondato su due cruciali assunzioni economico-politiche borghesi: che la competizione capitalista assegna le risorse in modo efficiente e ottimale, e che il monopolio è il contrario della concorrenza (rimando al mio ultimo saggio sulla teoria del capitale monopolistico http://m1aa.org/?p=1486). In realtà, non vi è alcuna prova che la concorrenza capitalista assegni risorse migliori del monopolio capitalista, e tutto il monopolio che esiste è in realtà un’intensa competizione oligopolistica. I prezzi non sono determinati dal potere di mercato o dalla sua mancanza (come affermano gli economisti borghesi), ma sono determinati dalla intensità dello sfruttamento del lavoro (15). In effetti, ciò che conta per i lavoratori non sono *principalmente* le relazioni di potere tra capitalisti o nazioni capitaliste, ma le relazioni di potere tra lavoro e capitale. In effetti, uno studio del 2010 mostra che la disuguaglianza di reddito negli Stati Uniti è cresciuta contemporaneamente a un calo delle grandi imprese; questo sviluppo contro-intuitivo comincia ad avere un senso quando consideriamo il fatto che questo aumento della disuguaglianza di reddito coincide con un declino del lavoro organizzato (16). La composizione di classe è ancora importante; i capitalisti nazionali tradiranno i lavoratori con la stessa rapidità dei capitalisti monopolistici e respingere i monopolisti senza rifiutare il capitalismo è un approccio limitato.

Ci opponiamo al monopolio e ai capitalisti monopolistici come chiunque altro, ma dobbiamo essere entrambi accurati su come il monopolio opera in relazione alla concorrenza capitalista, oltre che essere critici verso la strada che ha portato ripetutamente al Frontismo popolare e al capitalismo di stato. Un “mondo multipolare” di diversi imperi capitalisti concorrenti non può essere semplicemente assunto come “storicamente progressista”, poiché dice quasi nulla sulla relazione tra gli sfruttatori e gli sfruttati, non affronta i problemi di distribuzione delle risorse da solo, e in effetti, senza la componente di classe, può solo portare a maggiore sfruttamento e guerre a causa dell’aumentata concorrenza tra i capitali. L’egemonia degli Stati Uniti deve essere sfidata, ma sotto la direzione e nell’interesse dei lavoratori e dei popoli emarginati.

Nel caso del regime di Assad, le sembianze della multipolarità consentono all’intervento imperiale e al neoliberismo di essere equiparati all’anti-imperialismo e persino al socialismo. Trasformando il conflitto in un esercizio geopolitico ingannevole e borghese, la lotta di classe è lasciata sul versante della sinistra autoritaria. Il monopolio più grande e determinante che esiste è il monopolio che i capitalisti detengono sulle risorse produttive: sarebbe meglio se non lo ignorassimo.

Globalizzazione, inter-imperialismo e islamofobia

Sebbene l’era della tregua tra le potenze capitaliste sembri stia cadendo a pezzi in molti modi, ci sono relazioni significative e connessioni di reciproco interesse che legano insieme i rivali capitalisti. Queste relazioni sono generate dal sistema capitalista globale, in cui gli Stati Uniti sono in cima e pongono forti vincoli alla prospettiva dell’autodeterminazione. In un mondo in cui il profitto è definito dal grado di sfruttamento del lavoro e dall’estrazione delle risorse, l’integrazione nell’economia capitalista mondiale e l’adozione della forma merceologica occidentale pongono nuove domande e sfide per l’anti-imperialismo. Il modo in cui la sinistra autoritaria vuole definire potenze capitaliste come la Russia, l’Iran e la Siria come antimperialiste è inadeguato date le critiche qui fatte alla struttura del capitalismo monopolistico, ma ignora anche le implicazioni della globalizzazione neoliberista. Piuttosto che comprendere l’adozione della forma occidentale delle merci come propria forma di imperialismo occidentale – un risultato dell’egemonia mondiale occidentale, al servizio degli interessi capitalistici occidentali – molti a sinistra desiderano proteggere le élite neoliberiste nei paesi presumibilmente anti-imperialisti che stanno istituendo questa adozione. Putin, Assad, Khamenei non sono agenti insignificanti nella proliferazione del neoliberismo globale; e la loro supposta resistenza è sempre stata contraddetta dalla loro partecipazione al capitale globale. Le riforme neoliberali di Assad hanno scatenato la rivoluzione contro di lui, e sono stati Putin e Khamenei a venire in aiuto al neoliberismo in Siria.

Quando guardiamo al fatto che la Russia e la Cina hanno dei rilevanti investimenti negli Stati Uniti e quindi hanno un interesse per la crescita USA (17) (18), o che il giovane Assad ha aperto i mercati siriani all’occidente, vediamo che ci sono grandi aree di reciproco interesse tra le potenze capitaliste. Si potrebbe affermare che si tratta di rapporti di dipendenza dal nucleo imperiale occidentale: il mio interesse non è quello di esprimere giudizi su una situazione di dipendenza imperiale. Tuttavia, quando le classi emarginate che sono state impoverite da queste misure si innalzano in una rivoluzione contro il neoliberismo, non dovremmo avere esitazioni a scegliere da che parte stare. Quando le élite come Assad e la sua famiglia beneficiano di questo impoverimento, dovremmo sapere da che parte stiamo. Il regime di Assad e i suoi sostenitori non hanno schiacciato la rivoluzione per sconfiggere il capitalismo occidentale: in molti modi, lo hanno fatto per preservarlo.

Come accennato in precedenza, forse la più grande area di reciproco interesse tra le potenze capitaliste rivali in Siria e nel mondo si trova nella “guerra al terrore” islamofobica. Dagli Stati Uniti alla Russia, alla Cina, l’intera classe dirigente globale ha collaborato per anni alla campagna per sterminare i musulmani. Il jihadista è diventato il nemico archetipico dell’ordine e della stabilità per il sistema capitalista, e nessuna quantità di morti civili è considerata eccessiva in questa caccia portata avanti dagli imperialisti. Mentre la sinistra occidentale ha sollevato vigorosamente obiezioni a un paio di raid aerei contro obiettivi del regime di Assad (dei magazzini semivuoti) nel 2017 e nel 2018, non si è detto molto sui 273 civili siriani uccisi dalle forze di coalizione statunitensi nel maggio 2017 nella “lotta contro il terrore” (19) o delle migliaia di altri bombardamenti fatti dagli Stati Uniti in Siria. Il silenzio della sinistra occidentale quando gli imperialisti statunitensi uccidono i civili mentre cacciano i nemici di Assad ci aiuta a capire la natura totalizzante dell’egemonia culturale occidentale e dell’orientalismo: alcune cose sono diventate questioni risolte e quindi non più appartenenti al regno della politica – l’idea che le morti musulmane innocenti siano il sottoprodotto necessario della “Guerra al Terrore” è diventata così radicata che non vale più la pena parlarne per molti militanti di sinistra in occidente e altrove. Se invece dovessimo parlarne, la bancarotta intellettuale che sta nel sostegno ad Assad sarebbe evidente, poiché Assad sta usando il terrorismo come un comodo capro espiatorio e una giustificazione per la violenza nello stesso esatto modo in cui l’Occidente ha sempre fatto. E l’enorme quantità di civili innocenti che ha ucciso nel farlo è stata sbalorditiva. (20)

Un discorso eurocentrico e disumano

L’eurocentrismo dei sostenitori marxisti-leninisti di Assad è come una moneta dalle due facce. Privo di un sistema teorico che consenta chiaramente l’etica, la creatività e, in generale, la produzione del nuovo, si basa quasi esclusivamente su un calcolo storico riduttivo ed eurocentrico. Il materialismo storico ha un ruolo importante nella teoria sociale e rivoluzionaria, ma è limitato da standard eurocentrici di sviluppo e di potere; la vera autodeterminazione de-coloniale è elusa in questo quadro fintanto che ciò che è “storicamente progressista” è definito da criteri eurocentrici. Allo stesso tempo, i corpi delle persone dalla pelle scura sono reificati nella traiettoria rivoluzionaria marxista-leninista, con i Terzisti e altri che misurano il successo del marxismo da quanti corpi sono impegnati nella sua perpetuazione. Questa contraddizione in sostanza cerca di cancellare l’attività delle persone dalla pelle scura nella regione, con ogni atto di resistenza a un regime presuntamente “storicamente progressista” (nominalmente anti-americano) trasformato in un complotto della cospirazione della CIA. I sogni e le aspirazioni dei siriani che vivono nella povertà del neoliberismo sono meno importanti della posizione della Siria nello schema del capitale da monopolio difettoso, o delle presunte credenziali “laiche e secolari” del suo stato settario. Di fatto, ai siriani non è nemmeno permesso di sognare una vita migliore; sarebbe astorico. L’esistenza del regime è già giustificata come rivoluzionaria, e qualsiasi resistenza deve essere screditata come controrivoluzionaria, indipendentemente dallo scopo.

E quindi, quando dicono “storicamente progressista”, dovremmo chiedere “per chi?” – Il regime di Assad era “storicamente progressista” nei confronti degli innocenti musulmani detenuti nei siti segreti che la CIA ha costruito negli anni dopo l’11 settembre? (21) È “storicamente progressista” per le famiglie di coloro che furono uccisi quando assediò Aleppo? L’esercizio dell’universalizzazione di uno standard di progresso storico è un esercizio problematico che non si sposa bene con l’autodeterminazione – e ha sdoganato lo sviluppo capitalistico, le industrie estrattive, l’emarginazione di coloro che sono ai margini della società, così come l’imperialismo. È questa la rivoluzione che la sinistra autoritaria sostiene?

Crediamo che il popolo siriano, come tutte le persone, sia capace di una rivoluzione sociale; il disfattismo orientalista che ritrae il mondo al di fuori dell’Occidente come una massa monolitica di persone arretrate, che hanno bisogno di accontentarsi di ciò che hanno, deve essere respinto. La cancellazione di persone che hanno il sogno di vivere al di là della miseria neoliberista deve essere respinta. La presenza di manovre imperialiste e di elementi reazionari non esclude automaticamente ogni opposizione a regimi “storicamente progressisti”; questo è il mondo moderno, e l’impero e la reazione sono ovunque. Probabilmente, la totale sfiducia della sinistra occidentale nei confronti dei rivoluzionari siriani deriva da un’arroganza e un bigottismo profondamente radicati; perché non potevano fidarsi del fatto che i rivoluzionari siriani, che hanno vissuto con il jihadismo reazionario e l’imperialismo nelle loro stesse comunità per anni, sapessero meglio come affrontare questi elementi, in una sorta di paternalismo orientalista. (22) È legittimo criticare – è così che tutti miglioriamo – ma è tutt’altra cosa diffidare e screditare. Questo paternalismo parla dell’idea che il popolo siriano sia reificato agli occhi di alcuni della sinistra occidentale; non sono più esseri umani, ma ingranaggi in una macchina storica che hanno solo bisogno di svolgere il loro ruolo appropriato e utile nelle grandi narrazioni dell’imperialismo e della geopolitica.

Verso l’internazionalismo

Quindi, quali sono i modi in cui possiamo dimostrare la solidarietà internazionale ai nostri compagni in Siria e altrove? Come dovrebbe essere oggi un internazionalismo veramente antimperialista? In realtà, le risposte non sono ben definite; come con tutti gli sforzi organizzativi, dobbiamo imparare mentre andiamo avanti, mentre assorbiamo le critiche e le lezioni del passato. Tuttavia, la base minima che suggerirei di far passare è che gli internazionalisti e gli anti-imperialisti dovrebbero sostenere tutte le lotte per la giustizia sociale, la democrazia radicale e l’autodeterminazione in tutto il mondo. Ciò significa un rifiuto generale di tutti gli interventi imperialisti, che siano degli Stati Uniti o delle altre potenze imperiali. Ciò significa anche un rifiuto della globalizzazione neoliberista e il sostegno alle lotte contro l’austerità e la povertà.

Dobbiamo anche riconoscere che lo stato opera principalmente nell’interesse delle classi dominanti, siano essi capitalisti monopolistici o capitalisti nazionali o entrambi, e gli stati in generale sono istituzioni securitarie e di rapina, il cui interesse è distruggere i movimenti sociali o incanalare i movimenti sociali verso i propri fini. Uno stato non è un movimento, anche quando uno stato sostiene o è sostenuto da movimenti, e questa distinzione deve essere chiara quando si pensa alle lotte di liberazione nazionale. Come anarchici, dovremmo opporci a tutti gli stati, ma anche riconoscere i movimenti che stanno cercando di essere visti come legittimi e sostenerli nella misura in cui esigono giustizia sociale e autodeterminazione. Quindi, dobbiamo offrire un sostegno fondamentale alle lotte di liberazione nazionale contro l’impero, e riconoscere anche quando la facciata della liberazione nazionale e dell’anti-imperialismo vengono utilizzati esclusivamente per servire gli interessi imperialisti, capitalisti e statali – come nel caso di Assad.

Come antimperialisti, dobbiamo anche continuare a capire i problemi delle intersezioni. Le intersezioni di classe, razza, genere, orientamento sessuale e identità religiosa sono ancora importanti per le persone nella loro vita quotidiana, indipendentemente dal fatto che le oppressioni possano essere chiaramente rintracciate nell’impero o localmente. La nostra solidarietà ai popoli emarginati non deve essere limitata da stati apparentemente di sinistra o grandi narrazioni geopolitiche. Gli oppressi hanno il diritto di chiedere dignità a chiunque glielo neghi e abbiamo il dovere di sostenerli come compagni.

La tendenza degli attivisti a reificare le persone nella lotta rende ancora più chiaro che la cosa più importante che dobbiamo fare è costruire connessioni internazionali per la comunicazione e il supporto tangibile. In Occidente, l’anti-imperialismo non può rimanere entro i confini delle discussioni sui social network e dei meme di Stalin; le situazioni diventano astratte, gli argomenti diventano un mezzo per il capitale sociale. Le persone diventano semplici cose o dispositivi. È imperativo e urgente organizzare e agire in solidarietà con i nostri compagni oppressi e minacciati in Siria e in tutto il mondo. Come rivoluzionari e internazionalisti, abbiamo il dovere di rendere concreta la nostra solidarietà. Come può il movimento per la casa di Detroit riferirsi agli sfratti di massa in Cina? Come possono coloro che si trovano all’interno del movimento abolizionista carcerario degli Stati Uniti connettersi con coloro che vivono nella prigione a cielo aperto di Gaza? Come possono gli insegnanti iraniani e americani in sciopero lavorare insieme per la stessa causa? (23) Come può la nostra presenza nel cuore dell’impero contribuire a fermare le guerre di aggressione degli Stati Uniti? Queste sono le domande che dobbiamo porre e le connessioni che dobbiamo attivare, in dialogo con i nostri compagni nel mondo.

* Dato che questo pezzo doveva esporre il modo in cui dovremmo orientarci nei confronti della rivoluzione siriana, ho deciso di focalizzare la mia attenzione e non approfondire la lotta curda. Molto è stato scritto su Rojava dagli anarchici; non tanto è stato scritto in solidarietà con la rivoluzione siriana.

Note

(1)http://www.synaps.network/syria-trends#chapter-3699080

(2)https://syriafreedomforever.wordpress.com/2018/04/29/syria-is-not-exceptional-interview-with-joseph-daher-part-1/

(3)https://tahriricn.wordpress.com/2013/09/16/syria-the-struggle-continues-syrias-grass-roots-civil-opposition/

(4) https://syriafreedomforever.wordpress.com/2014/01/14/assad-and-isis-theyre-both-the-same

(5) https://isreview.org/issue/107/revolution-counterrevolution-and-imperialism-syria

(6) http://news.sky.com/story/is-files-reveal-assads-deals-with-militants-10267238

(7) https://www.thedailybeast.com/americas-allies-are-funding-isis

(8) https://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/syria-air-strikes-us-russia-warn-ahead-airbase-donald-trump-putin-missile-attack-tomohawk-cruise-a7671736.html

(9) http://www.newsweek.com/now-russia-says-it-told-us-where-syria-it-was-allowed-bomb-895204

(10) https://antidotezine.com/2018/04/19/the-specter-of-slavery-still-stalks-the-land/

(11) https://www.sbs.com.au/news/russia-saved-syria-as-a-state-says-putin-during-assad-meeting

(12) https://www.marxists.org/archive/lenin/works/1916/imp-hsc/ch07.htm

(13) http://www.marxist.com/in-defence-of-the-syrian-revolution-the-marxist-perspective-2.htm

(14) Moghadam, Valentine M. “Socialism or Anti-Imperialism? The Left and Revolution in Iran”

(15) Shaikh, Anwar. Capitalism: Competition, Crises, Conflict. 69

(16)https://thenextrecession.wordpress.com/2016/05/17/monopoly-or-competition-which-is-worse/

(17) http://money.cnn.com/2017/05/17/investing/russia-us-debt/index.html?iid=EL

(18) https://sputniknews.com/business/201608171044357006-russia-us-debt-investment/l

(19) http://sn4hr.org/wp-content/pdf/english/964_civilians_killed_in_May_2017_en.pdf

(20) https://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-syria-casualties/syrian-war-monitor-says-465000-killed-in-six-years-of-fighting-idUSKBN16K1Q1

(21) https://www.wired.com/2013/02/54-countries-rendition/

(22) https://socialistworker.org/better-off-red/12-save-kevin-cooper-the-crisis-in-syria-with-anand-gopal-and-yasser-munif @ 42:17

(23) https://www.allianceofmesocialists.org/what-can-u-s-teacher-protests-learn-from-iranian-teacher-protests/

Più imprese o meno imprese: il monopolio e la debole sinistra del Partito Democratico

Tradotto da http://m1aa.org/?p=1486

di K of First of May Anarchist Alliance Detroit Collective

Sulla scia della vittoria elettorale di Trump e dell’estrema destra, il Partito Democratico ha tentato di sfruttare strategicamente la crescente corrente populista del malcontento economico in questo paese. I democratici, da ferventi sostenitori del capitalismo quali sono, si sono trovati in cattive acque; l’ala clintoniana è stata efficace nel bloccare la maggior parte delle misure economiche progressiste, tra cui la legislazione in materia di assistenza sanitaria e legislazione contro il libero mercato. Allora, dove sono sono andati i democratici per ottenere il voto populista? Negli ultimi mesi, il partito ha lanciato una piattaforma economica chiamata “Un patto migliore” e tra tutte le agevolazioni fiscali per gli imprenditori e altre riforme insignificanti, nella loro proposta complessiva ce n’è una in particolare che attirerà sicuramente l’attenzione della gente: un nuovo orientamento contro il monopolio (1) (2). Questo orientamento è un tentativo superficiale di politica progressista di sinistra da parte di un partito politico storicamente favorevole agli affari, una diversione dalle reali questioni economiche che affrontiamo oggi, qui negli Stati Uniti o in tutto il mondo.

Sembra una questione semplice: i monopoli sono concentrazioni di potere economico nel mercato. L’idea convenzionale è che i monopoli sono in grado di ottenere profitti superiori alla media grazie alla loro posizione prevalente nel mercato; la loro capacità di aumentare i prezzi limitando la crescita dell’offerta, basata sui propri capricci e non sulla concorrenza, è considerata da molti economisti sia convenzionali che eterodossi come un segno di “imperfezione” del mercato e di “inefficienza”. Per arrivare al cuore di questo problema e spiegare perché l’attenzione al monopolio sia una diversione, dobbiamo capire cosa si intende per “imperfezione” e quale sia il ruolo del prezzo nell’economia neoclassica (la scuola di economia che è dominante in tutte le principali università di tutto il mondo ).

Nell’economia mainstream e nelle sue varianti (includo l’economia keynesiana e post-keynesiana qui, ma anche i marxisti come Hilferding, Lenin e la Monthly Review School), i prezzi dovrebbero essere segnali di informazione. All’interno di un prezzo vi è presumibilmente una misura della scarsità di un bene e della sua relazione con la domanda di quel bene. È importante sottolineare che in un mercato “perfettamente competitivo”, in cui le curve di domanda e offerta si incontrano, è considerato il prezzo di equilibrio – dove la quantità fornita e la quantità richiesta sono equivalenti. Dobbiamo comprendere l’economia neoclassica non come una scienza, ma come un progetto ideologico – e l’implicazione ideologica del prezzo di equilibrio è che è il punto in cui le scarse risorse sono allocate più “razionalmente” ed “efficientemente” si trova considerando la loro domanda. In particolare, si presume che questo fenomeno si verifichi solo quando il mercato è libero da “imperfezioni” che possono distorcere il prezzo, tra cui la regolamentazione governativa, l’attività dei sindacati e il potere di monopolio. Quest’ultimo aspetto è importante perché nell’economia tradizionale, le imprese in “concorrenza perfetta” sono considerate “acquirenti di prezzo” – cioè, nessuna singola impresa è abbastanza grande da influenzare il prezzo di mercato; i monopoli, invece, sono in grado di essere “regolatori dei prezzi” e possono quindi ridurre il prezzo di mercato al fine di escludere dal mercato altre imprese e aumentare la quota di mercato del monopolio e, quando il mercato viene completamente catturato, limitare l’offerta in ordine di aumentare i prezzi. Tuttavia, l’idea che le imprese in condizioni competitive siano “acquirenti di prezzo” è ridicola; il mito della concorrenza perfetta oscura in realtà il fatto che la concorrenza è in atto e che prezzi e riduzioni di costo competitivi sono parte integrante dell’esistenza di qualsiasi impresa sul mercato (7).

Le aziende più grandi, in scala, sono in grado di avere un vantaggio assoluto essendo in grado di mantenere bassi i costi. Ciò produce un ostacolo maggiore sulla capacità di altre imprese di entrare e competere sul mercato – ma ciò non significa che le grandi aziende non siano in competizione intensamente tra loro, né significa che le risorse vengano allocate in modi meno “socialmente ottimali” come se ci fossero solo tante piccole imprese. Tali conclusioni si susseguono solo se si accetta il quadro ideologico dell’economia borghese, dove la competizione viene esaltata come razionale piuttosto che condannata come distruttiva. Ci sono anche tutta una serie di ipotesi che fondano la possibilità del modello della “concorrenza perfetta”: assunzioni come la perfetta simmetria dell’informazione (il consumatore sa tanto di un bene quanto il venditore) e il comportamento iper-razionale di “massimizzare l’utilità” da parte di consumatori e imprese – tutte cose non solo imprecise, ma impossibili. Infine, non è chiaro cosa si intenda per allocazione “razionale” delle risorse quando la maggior parte della storia capitalista ha portato a un aumento della disuguaglianza (3) e quando esiti socialmente rilevanti come i cambiamenti climatici sono considerati “esternalità di mercato”.

Molti economisti di sinistra, progressisti, sostengono che il modello di competizione perfetta non ha rilevanza per la vita reale a causa del suo fondamento di false assunzioni, e quindi aggiungono modifiche al modello ortodosso come “concorrenza imperfetta” (prezzi fissati da istituzioni / monopoli). All’inizio, questo sembra essere un passo nella giusta direzione, in quanto chiunque può vedere che la concorrenza perfetta è una farsa assoluta e che studiare l’economia come se si comportasse in quel modo sarebbe irresponsabile. Tuttavia, introducendo imperfezioni nel modello, gli economisti di sinistra sono ancora intrappolati nel paradigma della perfezione. Sostenere che la concorrenza sia imperfetta presuppone che la concorrenza perfetta sia ancora lo standard con cui misuriamo la “razionalità” e l ‘”efficienza” dell’assegnazione delle risorse. L’azienda ideale è ancora considerata come un “acquirente di prezzi” e l’implicazione è ancora che meno imprese equivalgono ad un’allocazione meno razionale delle risorse – che una maggiore competizione porterebbe risultati più “socialmente ottimali” e una società più equa. L’eterodossia di sinistra sostiene in modo arretrato le conclusioni ideologiche della destra su come il capitalismo dovrebbe operare: più imprese hanno un mercato, meglio sarà. L’assunto sottintende che tale implicazione è duplice: che la concorrenza è vantaggiosa e che più imprese vi sono e più mercato hanno, più c’è competizione. Questo è inaccurato su tutti i fronti. Persino i marxisti come Hilferding e Lenin cadono in questa trappola assumendo che una volta ci fosse un’età d’oro del capitalismo competitivo – in realtà i monopoli sono sempre esistiti, il capitalismo ha sempre oscillato tra periodi di concentrazione relativamente alta e bassa (4) e i monopoli sono sempre stati competitivi.

Questo non significa certo che il capitalismo non abbia la tendenza a concentrare e centralizzare il capitale, ma la teoria spesso utilizzata per spiegare ciò che questo significa è radicata nell’ideologia borghese. La dicotomia che deve essere sfidata è l’idea che il monopolio e la competizione capitalistica sono opposti, quando in realtà si collocano nella stessa area. Non ci sono quasi mai monopoli puri, ma piuttosto c’è competizione monopolistica. I monopoli non sono stabili, entità statiche in grado di controllare i mercati senza concorrenza; la concentrazione di capitale intensifica solo la concorrenza. Se una massiccia impresa assume un settore, competerà con altri settori dell’economia per gli investimenti e si sposterà in altri settori per espandere il proprio mercato. La pressione del taglio dei costi è ancora imperativa, e quindi le leggi del movimento del capitale sono ancora le stesse di quelle del diciannovesimo secolo; contrariamente a quanto afferma Lenin, non siamo entrati in una nuova fase del capitalismo con nuove leggi di movimento. In termini empirici, le correlazioni tra “concentrazione di mercato” e categorie come rigidità dei prezzi, tassi di profitto e margini di profitto sono state del tutto nulle o inconcludenti (Shaikh, 370-379).

Politicamente, questo è motivo di perplessità e scetticismo riguardo alle campagne populiste contro il monopolio. Non è che il monopolio non sia una cosa negativa – intensifica la competizione – ma un monopolio reale e rilevante viene ignorato in tali campagne politiche: il monopolio del potere economico e della violenza della classe capitalista. Inquadrando i monopoli come nemici, ci ritroviamo a schierarci all’interno delle rivalità inter-capitaliste: grande impresa contro piccola impresa, grande capitalista contro piccolo capitalista. In realtà, e per i nostri scopi, le lotte che contano non sono tra i capitalisti, ma tra capitale e lavoro e tra mercato e popolo. La concorrenza perfetta è un mito potente e oscura l’esistenza di un conflitto di interessi tra padroni e lavoratori, con o senza monopolio, e non è un caso che il Partito Democratico abbia scelto questa campagna così poco compromettente e rischiosa come la base di un’importante piattaforma populista. Una tale mossa è in contraddizione rispetto all’affrontare le questioni economiche che hanno un impatto maggiore su di noi a livello globale, come la globalizzazione neoliberale, il razzismo istituzionale o la mancanza di beni pubblici. Il meglio che si può dire dei democratici è che sono degli opportunisti. Ma è la natura competitiva del capitalismo, e non la mancanza di competizione, ad essere distruttiva: la guerra quotidiana del taglio dei costi ci ha regalato salari stagnanti e disoccupazione attraverso l’automazione e lo sfruttamento accresciuto del mondo colonizzato. L’impatto sul nostro pianeta è stato grave e probabilmente irreversibile.

Il nemico, oggi, nell’era della globalizzazione neoliberista, è lo stesso di ieri: la competizione capitalista. Il monopolio è ed è sempre stato una parte della competizione capitalistica, quindi sorge la domanda: stiamo andando a combattere semplicemente contro il monopolio, o ci stiamo impegnando nella vera, significativa lotta contro il capitale? Onestamente, quando i democratici stanno parlando di livellare il campo di gioco, dobbiamo essere realistici su chi ha il permesso di stare sul campo e chi no.

Note:

[1]“Democratics are Finally Waking up to the Monopoly Problem” http://www.huffingtonpost.com/entry/democrats-antitrust_us_5976572fe4b0a8a40e817612

[2]“Chuck Schumer: A Better Deal for American Workers” https://www.nytimes.com/2017/07/24/opinion/chuck-schumer-employment-democrats.html

[3] Piketty’s Inequality Story in Six Charts https://www.newyorker.com/news/john-cassidy/pikettys-inequality-story-in-six-charts

[4]“Getting a Level Playing Field” https://thenextrecession.wordpress.com/2017/03/06/getting-a-level-playing-field/

[5]“Monopoly or Competition: Which is Worse?” https://thenextrecession.wordpress.com/2016/05/17/monopoly-or-competition-which-is-worse/

[6]“Productivity, Profit, and Market Power”

https://thenextrecession.wordpress.com/2017/09/05/productivity-profit-and-market-power/

[7]Shaikh, Anwar. “Capitalism: Competition, Conflict, and Crisis”

Oltre l’ironia. Nanette e la trasformazione della stand-up comedy

Non è facile per me parlare di cosa abbia significato vedere ed ascoltare l’ultima performance di Hannah Gadsby, Nanette; dopo diversi giorni e tre visioni ancora sento risuonare dentro l’emozione.

Non mi ha mai attirato la stand-up comedy: non sopporto l’umorismo delle grandi voci privilegiate tutto giocato sulle discriminazioni e gli stereotipi e quando voci emarginate prendono parola spesso –troppo spesso- il modo più rapido ed efficace per essere ascoltate si basa su un umorismo autoironico, in una realizzazione della propria marginalità sul palco che mi suona da sempre davvero terribile.

Non è mai stato così per Hannah Gadsby, che ho sempre ammirato per il suo restare fuori da un facile umorismo e non può davvero essere così per la graffiante comedy Nanette.

Molt* comic* prima di lei hanno raccontato la loro esperienza di vita, ma Hannah fa molto di più: attinge a piene mani dalla sua stessa identità con l’obiettivo di incriminare la commedia stessa per la sua incapacità strutturale di fare di più per sostenere tutte le voci che sono costrette ai margini.

La performance di Hannah in Nanette è fondamentalmente un atto in tre parti di un discorso transfemminista profondamente radicale costruito tutto attorno alla sua esistenza fisica: ci porta al confronto con la realtà della sua identità fisica; poi afferma la propria umanità; infine sfida il pubblico a vivere il disagio che deriva da quella affermazione, senza concedere più il rilascio della tensione dato dalla battuta.

Hannah passa quindi i primi minuti di Nanette a far familiarizzare il pubblico con la sua identità, a rendere evidente ciò che significa esistere come donna queer, butch, non binaria, in un sistema sociale che ti ha sempre reso la battuta finale. Descrive come sia crescere come lesbica nella Tasmania conservatrice, isola famosa per le sue patate e per lo “spaventosamente limitato patrimonio genetico”, dove l’omosessualità era illegale fino al 1997. E fin qui piovono risate.

Poi, facendo riferimento al commento di un membro del pubblico che aveva obiettato non ci fossero abbastanza “contenuti lesbici” nel suo ultimo spettacolo, lei risponde: “Sono stata sul palco per tutto il tempo”.

Con questa battuta Hannah affianca perfettamente due idee che formano un paradosso: da un lato la centralità della sua identità all’interno della sua commedia, e dall’altro l’incapacità della commedia stessa di saper affrontare la complessità di tale identità.

Infatti dopo poco annuncia: “Dovrei smettere di fare comicità”. E da questo punto in poi Nanette diviene una folgorante rivelazione. “Ho fatto dell’autoironia il mio cavallo di battaglia. Ci ho costruito una carriera. Ma non voglio più farlo. Perché vi rendete conto di cosa può voler dire l’ironia per qualcuno che già di suo è marginalizzato? Non è umiltà. È umiliazione. Ironizzo su me stessa allo scopo di parlare, allo scopo di chiedere il permesso di parlare. E ho deciso che non lo farò più, né a me stessa né a chiunque si identifichi con me.”

E continua, scendendo ancora più in profondità nella disamina del suo lavoro: “Una battuta è fatta di due cose che lavorano insieme: un inizio e una battuta forte. Essenzialmente è una domanda con una risposta sorprendente. Ma in questo contesto una battuta non è altro che una domanda che io ho inseminato artificialmente. Tensione. È il mio lavoro. Suscito tensione in voi per poi farvi ridere e dire: “Grazie. Mi sentivo un po’ teso.” Sono stata io a farvi sentire tesi! È un rapporto pieno di abusi.”.

E questo è il cuore di tutto. Nanette è una performance sull’abuso: su come * comic* abusano del pubblico, su come gli uomini abusano delle donne, su come la società abusa della vulnerabilità delle persone che vivono ai margini.

Hannah dice che nel diventare una comica è stata complice del suo stesso abuso e di quello delle persone che si identificano con lei, poiché ha coperto la sua storia di traumi con le risate invece di scavare in profondità.

A questo punto la performance diventa sempre più cruda, le battute sempre più rare fino a tutta la potenza dell’ultimo atto di Nanette, in cui Hannah deliberatamente smette di essere divertente e diventa invece brutalmente onesta e coraggiosa conducendoci in un breve viaggio nella storia dell’arte e della malattia mentale di cui l’arte è inevitabilmente intrisa, una malattia mentale terribile, la misoginia.

E soprattutto in un viaggio nella sua vera storia personale, fatta di abusi e violenze. E inevitabilmente in questo momento, che è il più toccante e il più devastante del suo intero racconto, il pensiero vola velocemente al movimento #metoo e alla sua furia: quel movimento ci ha cambiate, ci sta cambiando; così come spero Nanette cambierà la commedia e tutt* * comic* non riescano mai più a dimenticare l’orrore che celano le loro battute.

S.P.

Benefit per “La lima”

Sabato 21 luglio 2018 – presso Murotorto a Eboli (Sa)

Evento benefit per “La lima”, cassa di solidarietà

http://www.informa-azione.info/nasce_la_cassa_di_solidariet%C3%A0_la_lima

h.20.00
Discussione: situazione specifica del Cpr di Roma, contro frontiere e oppressioni multiple, approccio intersezionale alla lotta
h.22.00
Cena vegan di autofinanziamento
h.22.30
Concerti: Maybe i’m…(afro/punk – Salerno), Monobanda71 (onemanband garage/blues – Napoli), Amphist (Death-Crust, Campania)

Dj set a seguire

Per un’estate di lotta, a fianco di chi vive nelle campagne foggiane

Giriamo e condividiamo l’appello del Comitato dei lavoratori delle campagne:

Appello a Volontarie e Volontari:
PER UN’ESTATE DI #LOTTA, A FIANCO DI CHI VIVE NELLE #CAMPAGNE FOGGIANE

In Capitanata, la vasta pianura attorno a #Foggia, vivono migliaia di #migranti. Abitano in casolari abbandonati, in accampamenti auto-costruiti senza acqua né luce, o in veri e propri campi di lavoro, voluti e controllati dalle istituzioni. Tra queste, molte sono le persone espulse o fuoriuscite dal sistema dell’accoglienza, che non hanno altre alternative. Lavorano nei campi di pomodoro e non solo, pagati-e a cottimo o comunque a giornata, per 20 o 30 euro di schiena spaccata.
Lo sfruttamento lavorativo e le condizioni di vita sono legate a doppio filo al loro status giuridico: non tutti e tutte hanno i documenti, molti e molte hanno #permessidisoggiorno precari, e la questura compie su di loro abusi costanti.
Tutto ciò li e le rende ancora più ricattabili, per il solo profitto della grande distribuzione organizzata che fa utili milionari con la produzione agricola.

Ricattabili, ma non vinti-e. I lavoratori e le lavoratrici delle campagne infatti lottano da anni, con cortei, scioperi e blocchi, chiedendo a gran voce Documenti, Case e Contratti di lavoro. È una lotta auto-organizzata, contro lo sfruttamento e contro il razzismo, una lotta difficile di fronte alla quale non possiamo stare a guardare. La Rete Campagne in Lotta nasce proprio per questo: dare solidarietà concreta a queste esperienze, essere al fianco dei e delle diretti-e interessati-e nelle loro rivendicazioni.

Il periodo estivo è quello della stagione del #pomodoro, quando è massimo l’afflusso di lavoratori e lavoratrici e le condizioni di sfruttamento toccano l’apice. È per questo che anche quest’anno daremo una presenza costante sul territorio e facciamo appello a chi vuole unirsi a questa lotta.
In particolare, invitiamo chiunque sia interessato-a a impegnarsi al fianco di chi vive nelle campagne a raggiungerci a Foggia per contribuire con varie modalità:

• supporto alle assemblee auto-organizzate negli accampamenti
• sportello legale e contro lo sfruttamento
• lavoro di inchiesta sulla filiera agro-industriale e il governo della mobilità
• scuola di italiano

L’intervento estivo comincerà a inizio luglio e terminerà a settembre (ma l’attività della Rete e la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici prosegue tutto l’anno).

Per informazioni e contatti:

Sito: www.campagneinlotta.org
Mail: campagneinlotta@gmail.com
Telefono: 3511033277; 3511960376
Facebook: Comitato Lavoratori delle Campagne
Twitter: @campagneinlotta

Vi aspettiamo in tanti e tante! Meglio se automuniti-e!

Fonte: https://www.facebook.com/comitatolavoratoridellecampagne/posts/1983605781705537

Vuoto di potere

La figura dell’attuale presidente del consiglio italiano, il carneade professor Giuseppe Conte, balzato improvvisamente agli onori delle cronache politiche mondiali e collocato a Palazzo Chigi per fornire un equilibrio al nascente governo giallo-verde, è emblematica e riassume plasticamente lo svuotamento effettuale della funzione rappresentativa nelle moderne democrazie capitalistiche. Paradossalmente, proprio mentre si rafforza una visione muscolare, populista e nazionalista della gestione del capitalismo italiano, in una deriva verso la ricerca di leadership forti e di partiti verticisti sempre meno democratici al loro interno, il nuovo potere si affida a questo personaggio semi-sconosciuto, utile al nuovo governo proprio per la sua mancanza di personalità. Si dirà che il professor Giuseppe Conte deve bilanciare la forza e gli eventuali contrasti che emergeranno tra i due veri leader del governo, i vice primo ministro Luigi Di Maio e Matteo Salvini, per cui questa evanescenza della prima carica dell’esecutivo è una finzione utile a una rappresentazione meramente amministrativa: dovrà pur servire qualcuno, meglio se un avvocato studioso di diritto privato, a coprire quella casella e fare quel necessario lavoro burocratico di esecuzione di decisioni prese altrove. Il punto però è proprio questo: dov’è questo altrove? Chi decide, chi comanda qui? Per rispondere a questa domanda dovremmo allargare la visuale e giudicare i primi giorni di questo nuovo governo un attimo al di là della rappresentazione giornalistica delle vicende che hanno visto Lega e Cinque Stelle guidare questa nuova fase della politica nazionale. Un primo elemento di contestualizzazione può essere offerto dal ruolo che svolge il ministro dell’economia nell’esecutivo: mentre i due leader Di Maio e Salvini continuano a promettere la realizzazione delle costose riforme sbandierate in campagna elettorale, il professor Giovanni Tria ridimensiona i capitoli di spesa e tiene fermo il governo populista sulla linea di continuità con l’austerity di Monti, Letta, Ciampi etc. Se però questi limiti economici possono anche apparire comprensibili per ragioni di prudenza almeno in questa prima fase, altri limiti di natura giuridica e politica emergono nel confronto con gli altri governanti degli stati europei e con gli stessi poteri della UE. La questione della riforma del trattato di Dublino fa capire quanto, al di là degli interessi dei singoli governi e della rappresentazione nazionalista di Salvini o di Macron, nella gestione dei migranti tutta l’Europa sia unita nell’intenzione di continuare a blindare le frontiere, proseguire nel disegno stragista in atto da anni nel mediterraneo, affermare la propria potenza colonialista nei confronti dei paesi africani, etc. Di fronte alla costruzione condivisa da tutti di nuovi lager, in Europa come in Africa, all’aumento di respingimenti e deportazioni, appare davvero poca cosa la polemica tra Francia e Italia per la gestione degli “hotspot”. Mentre il professor Conte passava la nottata con gli altri leader europei per limare i termini del nuovo accordo tra paesi europei sulla non-riforma del trattato di Dublino, nelle stesse ore più di cento persone morivano nelle acque antistanti la costa libica, uccise da quel sistema che nessun governo può o vuole mettere in discussione. La gestione delle migrazioni è talmente intrinseca al controllo delle persone e allo sfruttamento che nessun governo potrebbe affrontare diversamente la questione, a meno che non intendesse tendere a politiche anticapitaliste e rivoluzionarie, cosa che farebbe cadere questo ipotetico governo nel giro di due secondi. Qui arriviamo dunque alla vera questione di fondo e cioè che la diffusione del potere, la sua articolazione oltre e attraverso i centri nazionali e comunitari, la compenetrazione con i soggetti economici (non con la generica “casta” o le varie lobby ma imprese, finanza, il cuore del potere nel capitalismo) e lo svuotamento della funzione rappresentativa democratica sono tutte caratteristiche che possiamo difficilmente aggirare con richiami retorici che restano vuoti e fini a se stessi. Parallelamente al dilagare delle pulsioni fasciste (le vediamo esplodere minacciose ogni giorno nelle nostre città) ritorna l’illusione che una socialdemocrazia, magari più collocata verso sinistra rispetto al passato (pensiamo a leader come Sanders, Corbyn, Iglesias, Melanchon e…Viola Carofalo) possa impadronirsi delle leve del governo e gestire un capitalismo dal volto umano. Tutti i fenomeni di populismo di sinistra, di rinascita socialdemocratica, di rinnovamento dei partiti comunisti aspirano a cogliere al volo la stessa (impossibile) occasione storica, ovvero l’occupazione di uno spazio di potere all’interno delle istituzioni nazionali, istituzioni da modificare e poi eventualmente da rovesciare in direzione di un “potere popolare” che abbiamo ben visto come funziona, ad esempio nel disastro del regime chavista in Venezuela. Va detto chiaramente che questa prospettiva non è solo inutile perché fa perdere risorse e tempo ai movimenti di opposizione, ma che è profondamente sbagliata e viziata nelle sue stesse fondamenta teoriche e pratiche. Assistiamo dunque a uno strano paradosso: mentre il potere dimostra la sostanziale interscambiabilità delle sue figure rappresentative, che possono essere dei meri gestori burocratici come un Conte o un Junker, in un processo specchio della perdita di rilevanza delle istituzioni rappresentative democratiche, nel contempo i movimenti di sinistra puntano ancora sulla leadership forte, sulle figure carismatiche, sul leader che trascina le masse, in un rovesciamento simbolico che trasfigura la famosa “cuoca di Lenin”, che avrebbe potuto gestire il socialismo realizzato premendo solo un bottone, nella ricerca di famosi e premiati chef a cinque stelle. Eppure, se il potere ci mostra il suo terribile vuoto, anche le istituzioni alternative allo Stato potrebbero essere immaginate similmente, con l’abbandono della macchina statale e la federazione di consigli esclusivamente amministrativi. Un po’ come immaginavano, per riprendere un paragone storico a ridosso della rivoluzione sovietica, gli operai e contadini “machnovisti”, movimento represso e sconfitto nei primi anni ‘20 del secolo scorso, che scrivevano nel loro manifesto: “Come consideriamo il sistema dei soviet? I lavoratori devono scegliersi da soli i propri soviet, che soddisferanno i desideri dei lavoratori – cioè, soviet amministrativi, non soviet di stato. La terra, le fabbriche, gli stabilimenti, le miniere, le ferrovie e le altre ricchezze popolari devono appartenere a coloro che vi lavorano, ovvero devono essere socializzate”.

l.c.

La storia di Edmondo Peluso, dalla rivoluzione al gulag

Krasnojarsk, Siberia, 19 febbraio 1942. Un colpo di pistola alla tempia pone fine alla vita di Edmondo Peluso, rivoluzionario nato a Napoli nel 1882, uno dei fondatori del Pci, libertario e giramondo. Nel libro di Didi Gnocchi “Odissea rossa. Storia di un fondatore del Pci” viene ricostruita la vita avventurosa di Peluso: compagno degli spartachisti in Germania nel 1918, delegato a Mosca assieme a Bordiga nel IV Congresso dell’Internazionale, poi corrispondente per l’Unità e quindi trasferitosi in URSS, dove viene infine arrestato nel mezzo delle purghe staliniane del 1938. Gli interrogatori fatti dalla polizia russa a Peluso ricalcano quelli rivolti ai grandi dirigenti sovietici travolti dalla furia di Stalin: come Zinov’ev e Kamenev, Peluso è indotto in tutti i modi a confessare i propri crimini di spia o di contro-rivoluzionario, sacrificando sull’altare dell’edificazione del socialismo la propria dignità di uomo e la verità dei fatti. Dopo un’iniziale confessione estorta al rivoluzionario napoletano dagli inquisitori della Nkvd, però, Peluso riprende in mano con grande coraggio il filo della sua coerenza di militante e decide di reagire alle torture psicologiche della polizia, iniziando un percorso sempre più duro di carcere e deportazione che lo condurrà alla fine ad essere ucciso nel gulag siberiano di Krasnojarsk. Nel libro di Gnocchi (un testo tanto poco conosciuto quanto prezioso) si ipotizza che lo stesso Palmiro Togliatti sia intervenuto inviando ai vertici di Mosca una lettera in difesa del suo connazionale e compagno di partito, cercando in questo modo di salvargli la vita: un tentativo, quello che avrebbe fatto il “Migliore”, piuttosto inconsueto, vista la quantità di comunisti e rivoluzionari che venivano condotti al patibolo senza che i vertici del Pci volessero o potessero fare nulla. La richiesta di clemenza di Togliatti, comunque sia, viene ignorata e Peluso viene condannato in qualità di “contro-rivoluzionario”, salvo poi essere “riabilitato”, secondo il costume sovietico dell’epoca, solo nel 1956 nella fase della destalinizzazione promossa da Kruscev: non più spia del fascismo e nemico del popolo, alla memoria di Peluso viene concessa una postuma e sicuramente molto parziale giustizia. La figura del militante comunista resta comunque poco conosciuta nel suo paese di origine, per cui è interessante leggere alcune sue parole attribuitegli dai suoi carcerieri in Siberia. Rinchiuso nel gulag staliniano, secondo un dossier ritrovato negli archivi di Mosca dopo la caduta dell’Urss, nel giugno del 1941 Peluso pronuncia queste parole ad un suo compagno di detenzione:

«Io che sono stato fino a poco tempo fa nemico del fascismo, non desidero più essere cittadino dell’Urss. Non mi rimane più niente da fare in Urss. Il cosiddetto comunismo e socialismo di Stalin boicottano tutti i partiti socialisti e i partiti comunisti, una volta fratelli. In Urss non c’è alcun socialismo, ma esistono degli esperimenti folli, che sbalordiscono tutto il mondo, su un popolo che ha perso il buon senso. Questo non appare vicino nel suo risultato finale al socialismo, bensì ad un rozzo dispotismo, che può fiorire soltanto nelle condizioni della dittatura più crudele. In una situazione imperialistica come noi oggi possiamo osservare, il socialismo, questo bellissimo e seducente fenomeno politico, che da migliaia di anni vive nei sogni più rosei dell’umanità, è presentato al mondo nel modo più deturpato dai dirigenti del partito dell’Urss. Il popolo sovietico è circondato da un mare di lacrime, di dolori, di privazioni, da file interminabili per il pane, questo prodotto principale dell’alimentazione, file per un metro di stoffa per coprire la sua nudità, e da una fatica veramente da galera, un vero pesante lavoro forzato. Insomma su tutti costoro grava il marchio della burocrazia che li opprime appiattendoli tutti allo stesso livello. Tutti i giornali riguardo al contenuto, e non parlo già di indirizzo politico, sono simili l’uno all’altro come due gocce d’acqua. La gente in Urss pensa come le viene ordinato. Il socialismo in Urss rappresenta il trono dell’Nkvd, un trono lordato dal sangue degli uomini migliori. Ma io vi dico che questo potere si regge sulle baionette, sulle camere di tortura, sulle repressioni e questo potere, che mantiene il popolo con razioni da fame, non può essere durevole, sarà sufficiente una sola debole spinta perché questo potere si riduca in polvere. Non appena avrò la possibilità di lasciare il villaggio di Suchobusimo, aprirò gli occhi ai miei compagni»[D.Gnocchi, Odissea rossa. Storia di un fondatore del Pci, Einaudi, 2001, pag. 225].

In queste profetiche righe c’è tutto il coraggio di un uomo che non volle piegarsi al terrore della dittatura staliniana e alla degenerazione di un sistema poliziesco che non aveva più nulla di quel socialismo sognato in gioventù da Peluso e per cui tanto si era speso nella sua vita di militante rivoluzionario. Il giudizio sull’Urss che ci consegnano queste parole risulta quindi essere una testimonianza storica di grandissimo valore, anche perché riporta attuale e viva la coscienza politica di un grande rivoluzionario del novecento.

l.c.

Perché il Rif marocchino si è rivoltato?

di Reda Zaireg

Il 28 ottobre 2016, nella località di al-Hoceima, Mohcine Fikri moriva pressato da una trituratrice di spazzatura mentre tentava di recuperare la merce che gli era stata confiscata dalle autorità. L’uomo, di 31 anni, era un commerciante di pesce. Era stato accusato di essere in possesso di quasi 500kg di pesce spada in questo periodo. È morto mentre cercava di opporsi alla distruzione del suo carico in un camion della spazzatura.

Una forte identità regionale.

La morte di Mohcine è diventato il punto di partenza della contestazione nel Rif, una regione del Nord del Marocco la cui storia è segnata dalla repressione e la marginalizzazione di cui ha sofferto durante il regno di Hassan II, padre di Muhammad VI. Il Rif gode di una forte identità regionale e ha storicamente avuto un certo grado di indipendenza rispetto al potere centrale. Nel 1921, quando ancora il Marocco era colonizzato dalla Francia e dalla Spagna, il resistente AbdelKrim El-Khattabi vi stabilì una Repubblica effimera dopo aver sconfitto l’esercito spagnolo. Nonostante la “Repubblica del Rif” sia stata sciolta solo cinque anni più tardi, nel 1926, ha segnato profondamente la memoria collettiva locale. Nel 1959 e nel 1984, delle rivolte sono scoppiate nel Rif e sono state brutalmente represse dal re Hassan II. Le circostanze della morte di Mohcine Fikri hanno suscitato un impeto di indignazione nella regione e al di fuori di essa. La sera del 28 ottobre le foto e i video che mostravano le sue spoglie hanno cominciato a circolare sui social ntework. Vari sit-in sono stati organizzati in differenti città del Marocco nei giorni seguenti.

Molteplici rivendicazioni

Le Hirak (“movimento”) è un movimento sociale nato a al-Hoceima in seguito al decesso di Mohcine Fikri. Le sue rivendicazioni sono molteplici: creazione di fabbriche, estensione della linea ferroviaria fino a al-Hoceima, costruzione di una università pluridisciplinare. Altre rivendicazioni sono la creazione di posti di lavoro e la riduzione della disoccupazione nella regione; la lotta contro la corruzione, in particolare della pesca marittima, e l’istituzione di una protezione sociale a favore delle/dei lavoratori.ci del settore. Il movimento reclama ugualmente la costruzione di una università pluridisciplinare, di un ospedale universitario e l’istallazione di un centro di oncologia a al-Hoceima. In effetti, il Rif conosce un alto tasso di tumori, e il Hirak rivendica un riconoscimento ufficiale del legame con l’utilizzo di iprite avvenuto durante la guerra del Rif (1921 – 1926) da parte della Spagna, nonché il tasso elevato di mortalità a causa del cancro nella regione.

Dopo la passività, la repressione

Una prima fase di scontro è stata caratterizzata da una sconvolgente passività del palazzo e da tentativi di negoziazione poco efficaci da parte dei rappresentanti dello Stato a livello locale. Poi, nel maggio 2017, il potere marocchino ha scelto di reprimere il movimento, dopo sette mesi di contestazione. Venerdì 26 maggio, Nasser Zefzafi, leader carismatico del Hirak ha interrotto un sermone che paragonava il movimento sociale a una fitna, ossia a una lotta fratricida, ossia una guerra civile in seno all’Islam. Il potere marocchino vi ha trovato il pretesto per reprimere il movimento sociale. Numerosi attivisti sono stati arrestati – una quarantina, entro il 26 e il 28 maggio; più di 200 fino a ora – e le manifestazioni sono state sistematicamente disperse. Nasser Zefzafi è stato arrestato il 29 maggio, dopo 3 mesi di latitanza. Attualmente è sotto processo a Casablanca e rischia una pena pesantissima (il 27 giugno 2018 è stato condannato a 20 anni. Con lui altri 51 attivisti hanno preso pene per 333 anni di carcere N.d.T.) Parallelamente all’ondata di arresti che ha toccato gli attivisti del Hirak, il re del Marocco ha promosso un’inchiesta sui ritardi della realizzazione del programma “al-Hoceima, faro del Mediterraneo” (Al-Hoceima Manarat al-Moutawassit); ha ricevuto i risultati a ottobre. Lanciato nel 2015, questo programma mobilizza un budget di circa 700 milioni di dollari, e mira ad accompagnare lo sviluppo della provincia d’al-Hoceima e a migliorarne la posizione economica, ma la sua realizzazione ha conosciuto dei ritardi notevoli. Se l’inchiesta effettuata dal Ministro degli interni e delle finanze ha messo l’accento sui “ritardi, ossia sulla non esecuzione di molteplici parti di questo programma di sviluppo”, ha escluso “qualsiasi atto di concussione e di frode”. Ciononostante il re ha ordinato alla Corte dei conti, giurisdizione finanziaria del regno, di realizzare una seconda inchiesta. In ottobre, il re ha ricevuto le conclusioni della seconda inchiesta sul progetto di al-Hoceima Manarat al-Moutawassit, che ha confermato “l’esistenza di molteplici disfunzioni registrate durante il precedente governo”, differenti settori ministeriali e istituzioni pubbliche che non hanno “onorato i loro impegni nella messa in opera dei progetti e le spiegazioni che hanno fornito non giustificano il ritardo che ha conosciuto la realizzazione di questo programma di sviluppo”. Ma d’altro canto l’inchiesta effettuata dalla Corte dei conti non ha rilevato l’esistenza di frodi, né deviazione dei fondi. Lo stesso giorno, Muhammad VI ha licenziato quattro ministri come conseguenza del ritardo nella realizzazione del progetto al-Hoceima Manarat al-Moutawassit. Il re del Marocco ha espresso ugualmente non “non soddisfazione” rispetto al lavoro dei cinque precedenti ministri, ai quali “nessuna funzione ufficiale sarà affidata in futuro”, secondo un comunicato del gabinetto reale.

Un movimento che dura

Il Hirak è attualmente in fase di latenza a causa dell’arresto dei suoi leader. Tuttavia, il movimento ha preso una forma stabile riemergendo in maniera più o meno ricorrente per più di dieci mesi. Con l’aumento della repressione e la divisione in zone della città da parte della polizia, i/le manifestanti hanno riadattato le loro pratiche e le loro strategie d’occupazione dello spazio pubblico: ai sit-in e manifestazioni programmate giorni prima sono state sostituite delle azioni fulminee. Delle forme di protesta spontanee cominciano appena un gruppo di manifestanti sceglie un luogo – una strada molto frequentata, un giardino o una piazza pubblica – e scandisce degli slogan del Hirak. Allora sono subito raggiunte dalle/dagli attivistx e i/le simpatizzanti presenti sul luogo. Quando poi le forze dell’ordine intervengono, la manifestazione è dispersa, ma “un altro gruppo di manifestanti prende la staffetta e rilancia la mobilitazione in un altro posto della città”, scrivono i ricercatori Hamza Essmili e Montasser Sakhi in una serie di osservazioni sul Hirak. http://taharour.org/?observations-autour-du-hirak-n-rif-%E2%B5%83%E2%B5%89%E2%B5%94%E2%B4%B0%E2%B4%BD-%E2%B5%8F-%E2%B5%94%E2%B5%94%E2%B5%89%E2%B4%BC-6

Las moras delle fragole contro il razzismo e il sessismo

Di Fatiha El Mouali e Salma Amzian

In questi giorni, il livello di vittimizzazione e paternalismo che abbiamo potuto osservare, ascoltare e leggere sulle proteste e le denunce delle donne marocchine, lavoratrici stagionali delle fragole nella provincia di Huelva, ha raggiunto livelli insopportabili. La Spagna sembra essere sorpresa da situazioni che vanno avanti da anni e che denunciamo da un decennio. Nadia Messaoudi aveva già denunciato, nel 2008, la situazione delle donne marocchine nei campi di Huelva pubblicando su un sito internet francese un articolo intitolato: “12000 donne marocchine per le fragole spagnole”. Anche Jaouad Midech faceva la stessa denuncia nello stesso anno. In seguito a una vasta indagine nei campi spagnoli, francesi e italiani, Chadia Arab pubblicava “Le marocchine a Huelva con il ‘contratto in origine’. Partire per tornare meglio”, un lavoro che attraverso delle interviste con delle lavoratrici stagionali e attraverso un ampio lavoro sul campo riportava in luce la stessa situazione nel 2009. Il lavoro è diventato un libro lo scorso febbraio con il titolo “Signore delle Fragole, dita fatate, le invisibili della migrazione stagionale marocchina in Spagna”. In Marocco, la rivista Bladi.net parlava di questa realtà nel 2010. Nel 2016, Fatiha el Mouali, coautrice di questo articolo, faceva la stessa denuncia in una giornata su femminismo e violenza a Barcellona. Prima di tutto, bisogna mettere in chiaro quello che alla maggior parte delle persone sembra non essere molto importate. Chi sono queste donne? Si tratta di donne lavoratrici migranti in situazione di sfruttamento e sotto molteplici violenze nei campi andalusi; donne marocchine provenienti da una ex colonia spagnola. Tutte loro provengono da zone impoverite del Marocco, terre abbandonate dai governi locali e saccheggiate dai poteri coloniali. Molti marocchini, soprattutto uomini giovani, venivano a lavorare nei campi andalusi prima della chiusura delle frontiere. Venivano a fare il lavoro stagionale e se ne andavano, senza nessuna intenzione o necessità di fermarsi in Spagna. Tutto è cambiato quando il Fondo Monetario Internazionale ha obbligato il Marocco, nel 1984, ad applicare un piano di austerità che forzava il Governo ad abbassare gli investimenti in educazione, sanità, infrastrutture e servizi sociali. Questo piano toccò in maniera molto acuta il nord del Marocco. Non è una casualità che, un anno dopo, lo Stato spagnolo chiuderà le frontiere con l’approvazione della Legge sull’Immigrazione. Tutto faceva parte dello stesso piano: impoverire il Marocco creando nel suo territorio la necessità di migrare mentre si sviluppava tutto il macchinario conforme ai dispositivi di controllo ed espulsione dei migranti che risulta essere tanto redditizio per l’Europa.

Capitalismo e patriarcato razziale: l’orrore nei campi di Huelva

Dobbiamo comprendere la forma attraverso cui alcuni lavori si razzializzano e si genderizzano. Le donne marocchine fanno il lavoro che la popolazione bianca spagnola non vuole fare. Sono loro che raccolgono le fragole, non gli uomini, dal momento che l’immaginario coloniale spagnolo ci ha costruito come esseri sottomessi e obbedienti. È necessario tenere conto che, per questi lavori, si assumano principalmente donne che non hanno ricevuto un’educazione formale, provenienti dalle aree rurali e impoverite, donne con meno di 45 anni che lasciano figli/e minori in Marocco. Questa è la cruda realtà. Tutto questo per poterle sottomettere, sfruttarle e abusarne con maggior facilità e assicurarsi che non fuggano quando le rimandano indietro. Ma non è tutto. Cosa sta veramente succedendo a Heulva? Teresa Palomo, fotogiornalista che si è trasferita nella provincia di Huelva, racconta delle condizioni nelle quali le donne marocchine lavorano, da anni, nei campi andalusi. Molte di queste donne non conoscono nemmeno il nome dell’azienda che le ingaggia e nemmeno come formalizzare un reclamo. Non si permette che lavoratrici sociali o attivistx entrino nelle aziende agricole e se, per casualità, una di queste lavoratrici riesce a mettersi in contatto con questx, succede quanto segue. I capisquadra godono del favore di alcune delle donne – le più anziane nelle campagne stagionali – che sono usate come “spie”. Quando i rappresentati politici, per esempio, stanno per scoprire quello che sta succedendo, queste “spie”, alleate dei capisquadra, sono utilizzate per negare tutte le denunce e confermare la posizione degli imprenditori. Se questi scoprono che esiste la possibilità di una denuncia pubblica, i proprietari delle imprese puniscono le responsabili. Come? Con una o due settimane senza lavoro e raccolta, o inviandole direttamente indietro in Marocco. Inoltre sono da aggiungere le difficoltà linguistiche. La stragrande maggioranza di loro non legge lo spagnolo, quindi avrebbero anche bisogno di interpreti per formalizzare i reclami. Molte delle donne che sono arrivate a Huelga hanno dovuto fare un enorme investimento per pagare i propri visti e viaggiare anche se, secondo gli accordi, i viaggi dovrebbero essere pagati dalle imprese. In tanti casi, non arrivano nemmeno a guadagnare soldi sufficienti per recuperare tali spese, dal momento che in nessun momento è garantito che lavoreranno per i tre mesi che dura la stagione. Inoltre, devono pagare il loro mantenimento e in alcuni casi anche pagare l’affitto della casa. Nella busta paga che hanno firmato non viene pagato quanto stipulato per il lavoro per il quale furono contattate. I capisquadra le assicurano che il resto sarà inviato loro quando torneranno in Marocco, però si tratta di accordi sulla parola che non compaiono in nessuno dei documenti legali. In molte occasioni, il denaro che manca, senza alcun consenso, è usato per pagare il prezzo del viaggio di ritorno. A causa del fatto che la maggior parte delle donne non sa leggere è impossibile per loro rendersi conto di essere state ingannate. Molte di loro non sono a conoscenza di quanto debbano riscuotere, quindi vengono pagate meno o direttamente vengono derubate senza alcun lamento. Teresa riferisce che in caso di malattia o di qualsiasi disturbo non vengono portate dal medico. Se non sanno come muoversi o non hanno alcuna persona che le aiuta, la situazione diventa dura, e se fanno domande, le puniscono non facendole lavorare. Inoltre, vivono in cortijos o baracche che sono a chilometri di distanza dal centro urbano, mal collegate, così che se devono comprare da mangiare o andare dal medico debbono camminare per delle ore. Il numero degli aborti in questa zona è estremamente alto, specialmente tra le donne migranti. Gli abusi sessuali e gli stupri sono costanti e rimangono impuniti nelle aziende che si perdono in mezzo ai campi. In effetti a molte delle lavoratrici succede quanto segue. Quando arrivano in Spagna, i capisquadra prendono i loro passaporti fino a quando non vengono espulse in Marocco. Per restituire i passaporti, i capisquadra chiedono enormi somme di denaro o favori sessuali. Il visto delle lavoratrici dura fino alla fine della stagione. Tuttavia, a causa delle denunce pubbliche, i capisquadra hanno deciso che la stagione è finita. Il fine è di rimandarle tutte in Marocco, anche se i campi sono pieni di fragole. Ad Almonte, dove lavorano le donne che hanno cominciato a denunciare – il giorno 16 del mese di Ramadan – non è rimasta nessuna donna, sono state tutte rimpatriate in Marocco.

L’eredità coloniale e la raccolta della fragola

Non si tratta di un tema astratto. Solo la comprensione della maniera in cui razza, classe e genere si intrecciano nell’ordine coloniale moderno ci aiuterà a capire le violenze strutturali che si verificano nei campi andalusi, esercitate dallo Stato e dalle sue istituzioni. Quando le donne marocchine si trasferiscono (o vengono trasferite) dal Marocco alla Spagna sono ancora intrappolate, bloccate in queste relazioni coloniali di dominazione. Pertanto, è sufficiente denunciare l’impresa Doñana 1998 o i membri de la Manada diventati capisquadra delle piantagioni? No, non lo è. È sufficiente denunciare gli abusi sessuali e le violazioni degli accordi? No, non lo è. È necessario sottolineare cosa si intende per “razzismo, sessismo, pratiche del capitalismo razziale e imperialista dello Stato in quanto gerarchie collegate tra loro (come abbiamo già detto prima)”. L’eredità coloniale spagnola non può essere compresa senza tener conto della realtà del prelievo economico praticato da secoli dalle imprese spagnole in Marocco per sfruttare le materie prime e arricchire le casse della potenza straniera. Attualmente, oltre a quanto detto, si estraggono persone, attraverso diverse strategie, per fare i lavori che gli/le spagnolx non sono disposti a fare. I territori dello Stato spagnolo sono teatro di molteplici crociate contro “il moro” e, anche, sono gli incaricati del controllo dei confini dell’Europa. La legge sull’immigrazione è stata creata in modo che lo Stato spagnolo potesse disporre dei corpi delle popolazioni delle ex colonie mentre si riservava il diritto a disporre di loro quando non fossero più necessari, un obiettivo che è stato raggiunto. La cosiddetta legge sugli stranieri è stata promulgata, tra gli altri motivi, per “stranierizzare” la popolazione marocchina delle attuali colonie africane spagnole, Ceuta e Melilla, obbligandole a sottomettersi a un processo di “regolarizzazione o espulsione”. È attraverso questa legge che si inizia a costruire la categoria del migrante lavoratore (sempre) stagionale. Che le esperienze dei/delle morx sotto questa legge razzista e coloniale non abbiano alcun impatto mediatico e discorsivo, ha a che fare, appunto, con la forma specifica di razzismo che colpisce la popolazione marocchina. Non possiamo capire la situazione dei/delle lavoratrici stagionali marocchine a Huelva senza prestare attenzione alle relazioni di potere che sono state inaugurate con il colonialismo. Queste relazioni di potere continuano oggi e, soprattutto, attraverso i processi di disumanizzazione vissuti dalle persone provenienti dai territori colonizzati, adesso convertiti in “territori di origine migratoria”. Lo ripetiamo perché sembra che non sia stato ancora ben assunto: è il sistema razzista, sessista e coloniale che converte le donne marocchine lavoratrici stagionali a Huelva in soggetti superflui che possono essere sfruttate, lavorativamente e sessualmente. Il discorso coloniale sulle donne marocchine, che le costringe a essere sottomesse, oppresse e prive di mezzi politici, è diventato ancora più sofisticato nel tempo. Durante l’epoca coloniale, le storie di viaggiatori, antropologi e cronisti coloniali hanno costruito impunemente “la donna marocchina”. Attualmente, in un mondo globalizzato che continua a produrre gli stessi discorsi e schemi, sono necessari dispositivi di controllo più sofisticati. Questa immagine cade a pezzi nel momento in cui noi diventiamo carne in questi territori e soprattutto quando diventiamo una voce. Pertanto, bisognava disegnare nuove e migliori forme per renderci invisibili e renderci mute. La forma più efficace per realizzare ciò fu la Legge sull’emigrazione, dispositivo disumanizzante, razzista e patriarcale. Da una parte si vieta alle donne marocchine emigrate nello stato spagnolo, attraverso il ricongiungimento familiare di lavorare, relegandole così ad un ruolo eterno di cura non retribuita. Così allo stesso tempo l’unica maniera che permette a una donna marocchina di lavorare è nell’ambito domestico. Ossia, occupando sempre lo stesso ruolo di cura, questa volta pagato, ma senza alcun diritto. Infine, ci sono le lavoratrici dei campi di Huelva, che hanno un permesso di lavoro. Di fatto la sola cosa che possiedono. Le ONG della zona, come Cruz Roja o Cepaim, sostengono di non avere prove di quello che sta accadendo. È importante notare che nessuna delle due è presente nei campi e cortijos in cui lavorano e vivono le donne per provare le denunce. Non avere la prova di un segreto di Pulcinella significa solo che si è complici. Non chiederemo a queste istituzioni una radicalità antirazzista che non fa parte, né mai farà parte, dei loro programmi. Però, se sono interessate a occuparsi dell’assistenza primaria, bisogna dire che, nel caso della situazione delle lavoratrici migranti nel campi andalusi, stanno evitando di occuparsi di questo compito in maniera allarmante. Dall’altra parte, vengono prodotte delle narrazioni e strategie femministe che non sono capaci di percepire la loro bianchezza e superare i limiti insiti nelle loro denunce e analisi ben intenzionate. Ignorare costantemente le questioni razziali e coloniali ha un prezzo che va ben oltre la teoria. Queste strategie non sono sufficienti e, quando queste omissioni si ripetono, diventano complici del capitalismo razziale e del patriarcato, oltre che dell’imperialismo. Questo è il motivo per cui è così necessario e urgente fare appello alle femministe, in modo che possano distaccarsi dalle loro esperienze particolari e locali, al fine di unirsi alla lotta delle donne marocchine senza imporre delle letture e strategie che lungi dall’aiutarle a liberarle finiscono per legittimare e radicare la violenza strutturale che le opprime. Dobbiamo anche allargare l’appello alle organizzazioni che combattono in questo territorio per i diritti umani e chiedere loro lo stesso esercizio di decentramento al fine di sviluppare strumenti efficaci tra tutti.

La donna marocchina esprime dignità e resistenza

I popoli marocchini manifestano resistenza e dignità. Il Rif, Yerada e il boicottaggio di Danone, Sidi Ali e Afriquia lo stanno ricordando. Le donne marocchine esprimono resistenza e dignità. Noi lo sappiamo, le nostre nonne e le nostre madri ce l’hanno insegnato. Le stagionali della fragola di Heulva ce lo stanno ricordando. Per noi, le denunce e le proteste a Huelva fanno parte di un momento politico della popolazione marocchina che non sta avendo l’attenzione che merita e che non è riducibile alla retorica che tiene come unico soggetto politico la classe operaia e “le donne”. Questo momento politico ci porta a farci illusioni con il risveglio di una consapevolezza che non è altro che quella che motivò Abdel Krim contro il colonialismo spagnolo. Le donne marocchine che oggi protestano contro il potere coloniale e razzista spagnolo sono mosse dallo stesso spirito di dignità. Quando ci uniremo ai/alle marocchinx della diaspora in Spagna? E le/gli altrx? Non dimentichiamo le centinaia di uomini razzializzati, soprattutto mori e neri, che lavorano nella stessa situazione e ricevono le stesse violenze nelle serre andaluse. Fratelli, anche a voi crediamo.

Tradotto da: https://www.elsaltodiario.com/explotacion-laboral/las-moras-de-la-fresa-contra-el-racismo-y-el-sexismo