Il flop della sinistra sovranista

Contrariamente a quanto stava da tempo strombazzando tutto il mainstream politico mediatico globale, le ultime elezioni europee non hanno visto l’atteso trionfo delle forze politiche sovraniste, populiste e razziste, che hanno subito in alcuni casi pesanti sconfitte elettorali. L’Fpö austriaca, travolta dagli scandali, passa dal 26 al 17%. In Spagna a solo un mese dalle elezioni politiche, i fascisti di Vox scendono dal 10,2 al 6,2%. Lo stesso avviene con Veri, in Finlandia che si attesta al 13,8% (contro il 17,5% dello scorso 14 aprile), l’Afd tedesca perde due punti rispetto alle politiche del 2017 (dal 12,6 al 10,8%), così come Alba Dorata in Grecia (al 4,9% contro il 7%). Il Partito del popolo danese dimezza addirittura i suoi voti (dal 21,2 al 10,7%). Questo al netto del successo di Salvini (che raccoglie l’eredità dei voti del centrodestra in un quadro segnato da un’astensione che raggiunge quasi il 50%) e del sorpasso del nuovo partito di Le Pen rispetto a Macron.

Non va meglio quella parte di sinistra populista o sovranista che aveva strizzato l’occhio all’ascesa delle destre razziste sperando di raccogliere parte del consenso popolare che si immaginava dovesse comunque “sgocciolare” anche verso sinistra: questo spregiudicato azzardo si è risolto fortunatamente in un clamoroso flop. Vediamo le punte più evidenti di questo tracollo, che spazza finalmente dal campo tutte le inutili discussioni sul pensiero di Laclau, sull’interpretazione di Game of Thrones di Pablo Iglesias e sul colonialismo celodurista di Jean-Luc Mélenchon.

Partendo proprio dal partito rosso-marrone dell’ex senatore socialista francese, la “France Insoumise” passa dal 18% della candidatura del suo leader alle ultime presidenziali ad un modesto 6,3% alle europee. Non sono serviti gli appelli contro l’immigrazione che “abbasserebbe i salari” dei lavoratori francesi Doc, né la mancata adesione di Mélenchon al manifesto contro la xenofobia firmato da tutta la sinistra francese, PCF compreso. Anche in Spagna le ultime elezioni sono andate male per i populisti di sinistra: Podemos raggiunge il 10% dei consensi dimezzandosi rispetto alle politiche del 2016 e scendendo ulteriormente dal 14% delle recenti elezioni politiche. Hanno pesato in questo caso il ritorno dei voti verso il Partito Socialista e la posizione fermamente contraria all’indipendenza della Catalunya.

Anche altrove non va bene per le sinistre, che perdono consensi pure in Germania con la Linke che si ferma al 5,4%. In Italia fallisce la solita coalizione raffazzonata all’ultimo momento utile, con la lista de “La Sinistra” che arriva ad un misero 1,7% e con Potere al Popolo (formazione politica gemellata con Mélenchon per quanto riguarda il programma anti-europeista) che non riesce nemmeno a presentarsi alle urne.

Quale morale trarre di fronte a questi dati impietosi? Sicuramente il progetto del populismo di sinistra di sfruttare a suo vantaggio i movimenti di protesta nati dopo la crisi del 2008 subisce un forte ridimensionamento sul campo prescelto, ovvero quello meramente elettoralistico. Il ritorno in grande stile dell’autonomia del politico rispetto al sociale, spinto da una lettura interclassista (il “popolo” che si unisce contro i poteri forti, finanziari e globali) e nazionalista, si esaurisce quando viene meno la funzione parassitaria nei movimenti sociali che si contrappongono o si sono contrapposti agli stati nazione in questi ultimi anni.

Era troppo bella e facile l’idea di raccogliere consenso e diventare la voce istituzionale di lotte nelle quali le dirigenze di sinistra hanno avuto la solita funzione di pompieraggio e di delazione. D’altro lato, pur abbandonando la tradizione internazionalista che era propria del movimento operaio, strizzando l’occhio al nazionalismo razzista, questi partiti hanno comunque avuto il tempo di sostenere direttamente o indirettamente tutte le dittature che rientravano ancora nel vecchio schema campista dei blocchi contrapposti.

Il regime militare in Venezuela, il genocidio di Assad in Siria, quello di Afewerki in Eritrea, le milizie rossobrune del Donbass: i compagni non si sono fatti mancare nulla, qualsiasi crimine è stato occultato, difeso, sostenuto in ragione di un triste Risiko geopolitico fermo al 1989. Coerentemente con questo atteggiamento, le persone migranti che spesso approdavano in Europa perché fuggivano da questi paesi in fiamme, sono state viste come potenziali nemici, causa di “degrado” e di instabilità sociale, numeri da controllare, respingere o accogliere pietisticamente: mai compagni da affiancare nel loro percorso, nella loro fuga o nella loro lotta contro dittature spietate spesso appoggiate dalle stesse potenze imperialiste.

Non poteva che uscirne, dunque, che una caricatura della stessa idea di sinistra e di anti-imperialismo, declinata in uno spregiudicato gioco di ruolo in cui pur di avere dieci posti in più in parlamento si è accettato di tutto, dalla morte in carcere per tortura di centinaia di migliaia di persone fino al traffico di organi. Il flop di questa sinistra sovranista e, speriamo, la sua prossima scomparsa definitiva, non possono essere che una buona notizia per tutte le persone che hanno a cuore il bene prezioso della libertà.

lino caetani

I ghetti, le lotte autorganizzate e chi se ne appropria: cronistoria di fatti e misfatti dell’USB

Articolo tratto dal sito di Campagne in lotta: http://campagneinlotta.org/i-ghetti-le-lotte-autorganizzate-e-chi-se-ne-appropria-cronistoria-di-fatti-e-misfatti-dellusb/

Il 6 maggio 2019 circa 600 persone, residenti nella baraccopoli adiacente al CARA di Borgo Mezzanone (FG), insieme a decine di solidali hanno dato vita ad un corteo per dire no allo sgombero senza alternative che da mesi prosegue nel loro insediamento. Si tratta di uno sciopero dei braccianti, l’ultima di una lunga serie di mobilitazioni auto-organizzate che è iniziata nel settembre 2015. Da allora, sono sempre stati i braccianti africani (e più in generale chi vive nei ghetti) ad organizzare tutto, sono stati loro a portare le rivendicazioni davanti al prefetto, è con loro che le istituzioni e i rappresentanti degli agricoltori si sono dovuti confrontare.

Purtroppo però, come è già avvenuto in passato, questa mancanza di padrini politici non soltanto ha impedito alla loro lotta di trovare il sostegno che merita (a parte appunto i solidali che pur ci sono sempre stati). C’è anche chi ha cercato in tutti i modi di approfittare di questo ‘vuoto’, che in realtà è indice dell’unica possibile, reale forma di lotta, quella che vede protagonisti i diretti interessati. E così, come in passato, rendendosi conto dell’enorme potenziale che scaturisce dalla rabbia dei ghetti italiani, anche questa volta l’Unione Sindacale di Base (USB) ha indetto un corteo per il 6 giugno, usurpando le decisioni di un’assemblea autoconvocata in cui appunto si era deciso di fare un altro sciopero, prima che le ruspe tornassero a Borgo Mezzanone. Nessuno aveva chiesto l’intervento dell’USB, e in pochi erano d’accordo con la data del 6 giugno, ma questo all’USB e ai suoi dirigenti poco importa. Ciò che conta è incassare visibilità sulle spalle delle lotte faticosamente messe in piedi da altri.

Per noi che da anni seguiamo e sosteniamo le lotte autorganizzate di chi vive nei ghetti questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Siccome i fatti sono stati sistematicamente distorti nel rullo compressore della società dello spettacolo, sentiamo il bisogno di raccontare ancora una volta la nostra verità. Non si tratta di una guerra per il potere e la visibilità, ma semplicemente di pretendere che ciò che accade venga a galla, per evitare che le lotte vengano soffocate in uno squallido teatrino che le spoglia di tutta la loro potenza.

1. Tutto comincia in Basilicata: l’USB come meteora

Nel luglio 2015, a Venosa (PZ) apre uno ‘sportello migranti’ gestito da USB insieme alla Chiesa Evangelica Metodista. Nel corso del 2015 diverse compagne della rete Campagne in Lotta incontrano più volte Aboubakar Soumahoro, membro dell’esecutivo nazionale di USB e promotore dell’iniziativa a Venosa, per cercare un confronto. Aboubakar era un membro della mailing list che inizialmente faceva capo alla rete Campagne in Lotta, prima che, nel 2014, si verificasse una rottura riguardo all’accettabilità politica dei campi di lavoro progettati dalla Regione Puglia per la provincia di Foggia. Nonostante i tentativi di interlocuzione per arrivare a pratiche e lotte condivise, Soumahoro si dimostra sfuggente e il suo atteggiamento lascia intuire che non è intenzionato a collaborare.

Nell’aprile 2016, di concerto con la Regione Basilicata e il comune di Venosa, l’USB dice di voler attivare uno sportello anche a Boreano, un borgo abbandonato dove da anni sorge un insediamento informale di braccianti africani. Nel maggio dello stesso anno, un incendio distrugge parte dell’insediamento, già decimato da roghi precedenti. Sempre insieme alla Chiesa Metodista, dopo aver tenuto già un incontro in regione, l’USB organizza un corteo a Potenza che si conclude con un tavolo a cui partecipano la Regione stessa, il Comune di Venosa, la Questura e la Prefettura. Già in quella sede, i dirigenti USB (tra cui lo stesso Soumahoro) impediscono con uno stratagemma ad altri soggetti che negli anni si erano occupati della questione dei braccianti (Osservatorio Migranti Basilicata, Fuori dal Ghetto ed altri, con cui nell’estate del 2015 l’USB aveva fondato il coordinamento di associazioni) di partecipare al tavolo. Il 28 giugno, l’USB organizza un altro corteo, con relativo incontro, perché ritiene che gli accordi con la regione siano stati disattesi – è stato messo a disposizione un campo della Croce Rossa, ma non ci sono, a detta di USB, bagni e fornelli sufficienti, e sono vietate le visite. A fine luglio, le istituzioni procedono allo sgombero del ghetto di Boreano, a seguito della quale l’USB organizza un’altra protesta nel mese di agosto.

Dopo aver strappato al Comune di Venosa la promessa dell’iscrizione anagrafica per chi vive e lavora nelle campagne (ma solo a patto che viva nel centro di accoglienza), e dopo vari incontri senza nulla di fatto, una sedicente ‘assemblea nazionale dei lavoratori agricoli’ viene convocata proprio a Venosa. L’USB millanta la presenza di non meglio specificate delegazioni da tutta Italia. In quella sede, il verticismo ed il paternalismo del sindacato nei confronti dei braccianti migranti emergono chiaramente. L’ultimo atto dell’USB in questo territorio sarà l’ottenimento di una proroga di qualche mese della permanenza dei braccianti stagionali nel centro di accoglienza di Venosa, gestito dalla Croce Rossa, dove si erano verificati gravi abusi e carenze infrastrutturali (segnalate anche dall’USB). Dopodiché, Soumahoro e il suo sindacato scompaiono dalla scena, a parte un’unica assemblea ed un incontro al Comune di Palazzo San Gervasio nell’estate 2017, conclusosi con un nulla di fatto. In Basilicata ad oggi rimane aperto il solo campo di lavoro in stile carcerario di Palazzo San Gervasio, adiacente al CPR, nel silenzio generale. Nessun riferimento ovviamente alle donne che pur vivono nei ghetti, in Basilicata come in Puglia e in Calabria. Manco a dirlo, le promesse della Regione circa alloggio, trasporto e diritti contrattuali rimangono lettera morta, così come la possibilità per chi non ha un contratto di affitto di ottenere residenza fittizia.

2. Il silenzio di USB davanti alla protesta dei braccianti della provincia di Foggia e di Reggio Calabria

A partire da settembre 2015, in provincia di Foggia gli e le abitanti dei ghetti si organizzano e danno vita ad un importante ciclo di mobilitazioni, che include un blocco di 9 ore della più grande fabbrica di trasformazione del pomodoro in Europa. Era l’agosto 2016. Né l’USB né Aboubakar Soumahoro, che è anche una delle figure di punta della Coalizione Internazionale Sans Papiers e Migranti, mostreranno mai solidarietà con questa lotta auto-organizzata che ignorano sistematicamente nonostante ne siano palesemente a conoscenza, visti tutti i tentativi di interlocuzione portati avanti in quel periodo. Nell’ottobre 2016, dopo diversi cortei e presidi grazie ai quali sono state ottenute importanti vittorie riguardo l’iscrizione anagrafica e i permessi di soggiorno, gli e le abitanti dei ghetti della Puglia e della Calabria lanciano una mobilitazione nazionale contro confini e sfruttamento, che culminerà con un corteo auto-organizzato per le strade di Roma ed un incontro con il Capo del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Ministero dell’Interno. Nonostante ripetuti inviti, Aboubakar Soumahoro non parteciperà né alle assemblee né al corteo, a cui aderiscono diverse realtà da tutta Italia, né si esprimerà in alcun modo a riguardo. Egli organizzerà però, proprio in quel periodo, un incontro ‘personale’ al Ministero dell’Interno, con gli stessi soggetti incontrati dalla delegazione del corteo autorganizzato.

3. …e il tentativo di usurpare e depotenziare il dissenso, in Puglia come in Calabria e in Piemonte

Pochi mesi più tardi, nel gennaio 2017, Aboubakar Soumahoro fa il suo primo ingresso nella Tendopoli di San Ferdinando (RC). Dimenticati i braccianti della lucania, si concentra su quelli di Puglia e Calabria, e poi della provincia di Cuneo, sempre con le stesse modalità.

 

i. La Calabria

Sin dal principio, nella Piana di Gioia Tauro l’USB si appoggia al Comune di San Ferdinando, che è responsabile della gestione delle tendopoli erette nell’Area Industriale a partire dal 2012 – gestione da sempre criticata dagli abitanti auto-organizzati, che attraverso le proteste hanno ottenuto piccole ma significative vittorie a partire dai primi mesi del 2013, sostenute dalla rete Campagne in Lotta e da altr* solidali. Mentre l’USB inizia le sue manovre, la mobilitazione auto-organizzata prosegue: il 6 febbraio e il 22 marzo gli abitanti della Tendopoli di San Ferdinando danno vita ad altri momenti di protesta, anche in coordinamento con altri territori. Ancora una volta, tristemente e prevedibilmente, USB tace e lavora per accaparrarsi il potenziale del dissenso, mentre Soumahoro si afferma progressivamente come protagonista indiscusso dei salotti televisivi italiani in quanto presunto portavoce dei ghetti. Come emergerà chiaramente nel corso dei mesi e degli anni successivi, la sua presenza e la sua azione risulteranno innocue quando non dannose alla causa di chi vive in condizioni di grave sfruttamento, violenza e segregazione.

È solo grazie alla determinazione degli abitanti della Tendopoli che si aprono tavoli di trattativa con Comune di San Ferdinando, Prefettura e Questura di Reggio Calabria. Ed è proprio in questo contesto favorevole che arriva l’USB. Prima intercettando le persone più abili a parlare offrendo loro soldi e in alcuni casi un alloggio altrove, come alcuni di loro raccontano. Successivamente, sostenuti dalle forze dell’ordine e dalle istituzioni, i sindacalisti hanno iniziato a diffondere il ben noto teorema per cui fare le manifestazioni da soli è pericoloso poiché si rischia di perdere i documenti, i solidali sono dei criminali e quindi l’unica soluzione è farsi guidare da un sindacato. Da questo momento in poi inizierà un crudele gioco, per cui ai momenti di lotta autorganizzata degli abitanti della tendopoli seguiranno incursioni dell’USB volte a placare gli animi e spingere le persone dalla propria parte.

Ecco quello che è accaduto.

In seguito alla partecipatissima manifestazione del 6 febbraio, l’USB convoca un’assemblea domenica 26 febbraio nelle stanze del Comune di San Ferdinando. Scavalcando completamente la lotta autorganizzata degli abitanti della tendopoli, Aboubakar Soumahoro utilizza quello spazio per raccontare gli esiti del suo incontro “personale” avuto con il Ministero dell’Interno sulla condizione dei permessi di soggiorno delle persone che vivono nelle campagne. Saluta i presenti con la promessa di verificare insieme al sindaco di San Ferdinando la possibilità di soluzioni alternative a un ghetto. Sempre di domenica e nel Comune di San Ferdinando, il 19 marzo Soumahoro ripropone lo stesso format parlando di vaghe soluzioni abitative e permessi di soggiorno, e millantando di avere conquistato il rilascio della residenza per chi vive nelle tendopoli (quando questa in realtà era una conquista già assodata, ottenuta grazie alla tenacia degli abitanti e solidali). Viene dato ampio spazio al sindaco che promette case per tutti. Questa volta è sostenuto anche dai delegati della tendopoli che oltre a fare eco ai suoi discorsi hanno messo in piedi anche una rete di spie, pagate, pronte a riferire di ogni assemblea e incontro.

Tant’è che di lì a pochi giorni, il 22 marzo scendono di nuovo in strada per protestare contro i controlli, le identificazioni e le perquisizioni a tappeto eseguite nei giorni precedenti nella tendopoli e per le strade, e per continuare a chiedere documenti, case e contratti per tutti. Il giorno stesso ottengono un incontro con la Questura, presso il Commissariato di Gioia Tauro, per discutere nel dettaglio tutte le problematiche legate ai permessi di soggiorno. La lotta continua e il 13 aprile gli abitanti della tendopoli organizzano un altro corteo per i documenti, i contratti di lavoro e le case. Così come il 2 luglio, dopo che un grande incendio ha distrutto metà tendopoli, per fortuna senza vittime. Questa lotta rimane inascoltata dalle istituzioni e sedata dall’intervento congiunto delle forze dell’ordine e dall’USB.

In questo clima si arriva all’annunciato sgombero della tendopoli, rispetto a cui l’alternativa proposta è un’altra tendopoli per chi è regolare con i documenti, dotata di sistemi di riconoscimento biometrici, con regole severe circa ingressi, uscite, e autonomia personale – insomma un carcere per lavoratori, le cui condizioni l’USB ha il coraggio di definire ‘appena decenti’. Anche in questa occasione i diretti interessati sono molto chiari e determinati: se l’alternativa alla tendopoli è una prigione, loro da lì non si muovono. Il 18 agosto, il giorno dello sgombero, la posizione dell’USB, così come della CGIL, di SOS Rosarno e di altre associazioni accorse per l’occasione è altrettanto chiara: persone (italiane) che non si sono mai fatte vedere alla tendopoli, se non per qualche rara passerella, trascorreranno diverse ore a convincere le persone, con le promesse e con il ricatto (si minacciavano infatti gli abitanti che avrebbero perso il domicilio legale e quindi il permesso di soggiorno), a trasferirsi nella nuova tendopoli. Alla fine qualcuno andrà e qualcun altro rifiuterà, ma nessuno se la passerà meglio di prima, anzi le manovre delle istituzioni e delle sue braccia operative, come l’USB, hanno contributo a creare un clima di paura e diffidenza reciproche, a dividere le persone e distruggere le lotte e i percorsi di autorganizzazione. Aggiungendo a tutto questo il fatto che a tre solidali sono stati comminati altrettanti fogli di via e una ventina sono sotto processo per aver partecipato alle mobilitazioni. Ancora una volta, nessuna solidarietà per questi compagni e compagne – anzi, ci sarà chi gioisce (a mezzo stampa) dei fogli di via, calunniando le compagne, come alcuni esponenti di LasciateCIEntrare ed SOS Rosarno.

Il 2018 invece purtroppo verrà ricordato anche come l’anno dei morti negli incendi nella tendopoli e non solo. La prima è Becky Moses, il 27 gennaio. In quell’occasione l’USB, dopo un silenzio di mesi, convoca una manifestazione in sua memoria. Gli abitanti del ghetto intanto provano a riorganizzarsi, ma molti hanno paura, e chi non si arrende è sottoposto a diverse forme di intimidazione e ricatto. Il 2 giugno è Soumaila Sacko ad essere ucciso, questa volta da una fucilata, perché scoperto a “rubare delle lamiere”. Questa volta l’intervento dell’USB e in particolare di Soumahoro è una vera e propria operazione di marketing. Prima di tutto vengono immediatamente sedati e impediti i tentativi di rivolta degli abitanti del ghetto. In un attimo Soumaila diventa ‘il sindacalista dell’USB ucciso dalla malavita’ (cosa che si rivelerà essere falsa, per stessa ammissione di alcuni dirigenti dell’USB durante un incontro tenutosi qualche mese dopo con alcune compagne della rete Campagne in Lotta, per cercare di comprendere meglio ciò che sta accadendo nella Piana di Gioia Tauro e non solo) e la sua faccia, come un’icona, compare dovunque. In nome suo e per la sua famiglia viene attivata una raccolta fondi, e l’USB incontra il Presidente della Camera invitandolo a visitare le Tendopoli di San Ferdinando, cosa che farà l’11 giugno, accompagnato nella sua passerella dalla stessa USB. In quell’occasione, l’USB esulta per le promesse e le dichiarazioni di Fico, che, manco a dirlo, rimarranno lettera morta. Il 4 luglio sarà la volta di Luigi Di Maio, incontrato a Roma da Soumahoro ed altri, che lo definiscono un ‘incontro proficuo’. Anche qui, niente più che parole e accordi ambigui.

Nel frattempo, Soumahoro diventa il paladino dei diritti dei lavoratori e della sinistra italiana, e a quel punto tra la frenesia dei social e la lontananza, non solo geografica, di luoghi come il ghetto è facile il creare il mito. Ma se ci si ferma un attimo la farsa è evidente: il sindacalista “porta avanti la lotta” tra selfie, talk show, tweet, foto, strette di mano – dei lavoratori neanche l’ombra, nonostante questi continuino a scendere in strada. Il macabro teatrino non si ferma nemmeno con la morte di Suruwa Jaiteh, avvenuta il 2 dicembre perché anche la sua tenda è andata in fiamme. Anche questa volta l’USB non perde l’occasione di utilizzare l’ennesima tragedia per ribadire la sua presenza.

L’anno nuovo, il 2019, non vede cessare i tentativi di organizzarsi tra gli abitanti della tendopoli. La loro vera voce esce fuori, ma i controlli e i controllori sono tanti. Allo stesso tempo l’USB sta iniziando a perdere terreno, i lavoratori prendono le distanze perché non vedono nessun risultato e si sentono presi in giro anche rispetto ai soldi raccolti in seguito alla morte di Soumaila, che sembrano essere spariti nel nulla. Soltanto dopo le pressioni degli abitanti delle tendopoli la famiglia di Soumaila riceverà una parte (piuttosto esigua rispetto al totale) del denaro raccolto con il crowdfunding. Il 16 febbraio le fiamme si portano via Moussa Ba e l’USB condanna pubblicamente il sistema dei campi. Peccato che neanche sei mesi prima cercava di convincere le persone che era meglio vivere in una tendopoli nuova che in una vecchia. E per meglio ripulirsi la faccia si unisce al Comitato per il riutilizzo delle case nella Piana di Gioia Tauro, altro contenitore vuoto che si muoverà tra comizi ed eventi, che vedranno la partecipazione di altri ‘VIP’ della sinistra italiana, senza mai ascoltare e coinvolgere i diretti interessati che nel frattempo reclamano le case costruite per loro a Rosarno, completate e mai assegnate, su cui tutti tacciono.

Poche settimane dopo, il 6 marzo, avverrà il pluriannuciato sgombero della vecchia tendopoli. Il dispiegamento di forze dell’ordine è senza precedenti per un’operazione del genere, 1000 uomini, uno per ogni abitante, elicotteri, ruspe e altro ancora. In questo epilogo del ghetto quel che resta dell’USB sono le lacrime di coccodrillo insieme alle associazioni, la CGIL e il Comune: “non doveva andare così, poveri ragazzi”. Nei giorni e settimane precedenti lo sgombero, l’USB insieme ad altre associazioni aiutano le forze dell’ordine nelle operazioni di schedatura degli abitanti della vecchia tendopoli, propedeutiche alla loro deportazione (con tanto di numeri affissi ai loro indumenti). Ad oggi chi vive nell’unica tendopoli rimasta è ancor di più isolato e controllato. Chi ci ha guadagnato da tutto questo?

ii. La Puglia

Già nell’inverno del 2016 la locale sezione dell’USB di Foggia e provincia aveva contattato alcune compagne della rete Campagne in Lotta, chiedendo un confronto ed una collaborazione alla luce della loro esperienza sul campo, e stante la scarsa preparazione dei sindacalisti per loro stessa ammissione. Pur con le riserve del caso, un primo confronto era avvenuto nel mese di dicembre, e successivamente le compagne avevano fatto una serie di proposte al sindacato, senza trovare particolari sponde. Nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2017, durante le fasi finali dello sgombero del cosiddetto ‘Gran Ghetto’, a pochi chilometri da Foggia, un incendio uccide nelle loro baracche Mamadou Konate e Nouhou Doumbia. La mattina successiva, una protesta totalmente auto-organizzata porta diverse centinaia di persone dal ghetto fin davanti alla Prefettura del capoluogo. Da USB non una parola in solidarietà alla protesta. Pochi giorni dopo, però, i suoi dirigenti – tra cui ovviamente Soumahoro stesso – organizzano in quel che rimane del ghetto un’assemblea, e rilanciano una nuova data di mobilitazione per l’8 marzo, all’ombra delle bandiere dell’USB. Appresa la notizia, alcuni compagni della rete Campagne in Lotta tentano di persuadere i dirigenti locali del sindacato a non gettare all’aria un anno e mezzo di mobilitazioni e conquiste strappate da chi si è auto-organizzato, e a continuare su questa strada in maniera compatta. I dirigenti locali si mostrano favorevoli all’impostazione e alla proposta, e incoraggiati da questa apertura alcuni compagni e compagne (abitanti dei ghetti e solidali) partecipano al corteo dell’USB, dove però i dirigenti nazionali (Soumahoro e Guidarello) procedono ad ignorarli sistematicamente, escludendoli dal tavolo in prefettura nonostante gli accordi stretti in precedenza. Questo comportamento porterà il neo eletto responsabile agricoltura dell’USB Foggia alle dimissioni. Il corteo, peraltro, sfrutta la visibilità della mobilitazione internazionale delle donne esibendo in prima fila la compagine femminile del ghetto, di cui non si è mai curato né si curerà mai in futuro.

Da quel momento, in quel che rimane del Gran Ghetto comincia a circolare la voce secondo cui lo sgombero è responsabilità delle compagne e dei compagni della rete Campagne in Lotta, a cui verrà in questo modo negata l’agibilità in quello spazio, in cui erano presenti dall’estate del 2012 e dove avevano faticosamente costruito rapporti di fiducia e collaborazione, che vengono spazzati via dalle calunnie di alcuni, che sfruttano il comportamento di USB per togliere di mezzo persone a loro scomode e continuare a mantenere l’egemonia sul ghetto. Intanto, USB inizia un’aggressiva campagna di tesseramento nel ghetto stesso, ignorando chi dal ghetto è stato deportato verso i campi di lavoro di San Severo in cui persistono condizioni di precarietà estrema, anche relativamente all’ottenimento della residenza. Il 1 maggio, in contemporanea con Reggio Calabria, si terrà un corteo di braccianti anche a Foggia, ancora una volta guidato dall’USB e dalle sue bandiere. Ma le condizioni di vita degli abitanti dei ghetti rimangono drammatiche, e l’USB non sembra in grado di instaurare alcun tipo di trattativa efficace con le istituzioni, se non per rivendicazioni minime e decisamente al ribasso rispetto a quelle delle lotte auto-organizzate. Il 12 maggio l’USB partecipa ad un confronto con il sindaco di San Severo, comune su cui sorge il Gran Ghetto, senza che da questo scaturisca alcuna misura per sanare la condizione di chi vive in quel che resta della baraccopoli. Il 31 luglio, a seguito di un corteo tenutosi a Bari, l’USB strappa la concessione dell’acqua potabile da parte della Regione per chi ancora vive nel Gran Ghetto, la cui erogazione verrà interrotta già dal mese di settembre. Le contromisure di USB si fanno attendere fino ad ottobre inoltrato, quando viene annunciato che il caso verrà portato all’attenzione della FAO (sic!) e che verrà presentato un esposto contro il presidente della regione Puglia, Michele Emiliano. Soltanto il 10 novembre USB organizza uno ‘sciopero’ dei braccianti del ghetto che si concluderà con l’occupazione simbolica della cattedrale di Foggia e con un appello al Papa. Il giorno successivo l’erogazione di acqua verrà nuovamente ripristinata, ma le condizioni di chi vive nel ghetto rimarranno sostanzialmente immutate. Nei mesi seguenti, l’USB invita europarlamentari, candidati alle elezioni politiche ed altre figure pubbliche a passerelle all’interno del ghetto, esponendo i suoi abitanti all’ennesima operazione di mediatizzazione sulla loro pelle.

Il 16 dicembre, Aboubakar Soumahoro e la Coalizione Internazionale Sans Papiers e Migranti organizzano a Roma un corteo ‘Fight/Right, Diritti Senza Confini’, a cui porta una delegazione da Foggia e dalla Piana di Gioia Tauro. Ancora una volta, il corteo non entra nel merito delle reali questioni legate ai documenti, nell’ottica di un miglioramento delle loro condizioni, ma si limita ad una serie di proclami.

L’8 marzo 2018, l’USB dichiara che le donne braccianti del ghetto aderiscono allo sciopero globale delle donne. Ancora una volta, la condizione femminile viene strumentalizzata e distorta: quelle che l’USB vuol far passare per braccianti sono donne impegnate soprattutto nel lavoro di cura, in molti casi incluso il lavoro sessuale, le cui specificità non vengono minimamente considerate. In che cosa consisterebbe il ‘femminismo’ dell’USB?

Il 12 aprile USB organizza un nuovo corteo a Foggia, con annesso incontro istituzionale. Ancora una volta, USB rivendica di aver ottenuto l’iscrizione anagrafica per chi vive nei ghetti, vittoria che in realtà risale alle lotte auto-organizzate del 2015-16. L’agosto 2018 è un mese tragico per i braccianti del foggiano: due incidenti stradali si portano via un totale di 16 lavoratori e ne feriscono molti altri, tutti residenti nei ghetti della provincia. Un corteo auto-organizzato attraversa le strade del capoluogo il 7 agosto, ignorato da compagn* e media a parte i soliti solidali. L’8 agosto, prima del corteo organizzato dalla CGIL per il tardo pomeriggio, l’USB indice una ‘marcia dei berretti rossi’. Con un atto che definire paternalista ed irrispettoso ci pare eufemistico, nei giorni precedenti ai braccianti erano stati regalati cappellini rossi sponsorizzati da una onlus (‘Rete Iside’) come misura per la loro sicurezza sul lavoro. La marcia vede la partecipazione di Michele Emiliano, quello stesso che USB aveva minacciato di denuncia perché aveva ripetutamente disatteso gli accordi presi in sede di incontro. Al Presidente della Regione Puglia viene lasciato ampio spazio di parola, che egli si prende volentieri compiendo un’operazione manipolatoria in piena regola. Il corteo, dichiara, è in continuità con quello della CGIL. Da USB nessuna presa di distanza. Ancora una volta le morti di chi vive sfruttato e segregato vengono strumentalizzate senza scrupolo alcuno.

Il 3 settembre, in occasione della visita di Luigi Di Maio a Foggia, un nuovo presidio auto-organizzato viene convocato sotto alla Prefettura, pesantemente osteggiato e contenuto dalle forze dell’ordine, mentre Aboubakar Soumahoro siede al tavolo insieme al Ministro e ne appoggia il discorso e le proposte, di cui peraltro rivendica la paternità. Com’è ovvio, nessun riferimento alla protesta, le cui urla nonostante tutto raggiungono il palazzo. Il 22 settembre, si tiene a Foggia ‘l’assemblea nazionale USB sul lavoro agricolo’, in cui viene presentata una ‘piattaforma dei diritti e un codice etico’. Nelle settimane precedenti, l’USB ha più volte rivendicato e sbandierato l’invito al ministro dell’Agricoltura Centinaio (Lega) e al Presidente della Regione Puglia Emiliano. Nonostante i fieri proclami, però, nessuno dei due si presenterà, mentre manterranno fede all’invito, tra gli altri, l’assessore al Lavoro della Regione Calabria, Angela Robbe, e il giornalista Gad Lerner. Dopo questo inutile circo, sulla provincia di Foggia calerà il silenzio dell’USB, che si guarderà bene dal pronunciarsi sulle manovre di sgombero cui il governo dà inizio nell’insediamento di Borgo Mezzanone a partire dal mese di gennaio 2019. Fino a quando non si ripresenta un’altra ‘ghiotta’ occasione: la morte in un altro rogo dell’ennesimo bracciante, il 25 aprile. Anche in questa occasione, un triste video di Aboubakar Soumahoro capitalizza e incamera consensi social davanti alle macerie della baracca dove ha trovato la morte Samara Saho. È questo l’ultimo atto dell’USB prima dello scippo della lotta auto-organizzata degli e delle abitanti di Borgo Mezzanone lo scorso 6 giugno, in un contesto in cui la popolarità di USB al ghetto è andata progressivamente riducendosi, visti i risultati delle mobilitazioni e le promesse disattese circa i problemi individuali di documenti di cui USB, e Soumahoro in prima persona, avevano detto che si sarebbero fatti carico.

iii. Il Piemonte

Sempre nel corso del 2017 l’ambiguo operato dell’USB e di Abou Soumahoro nello specifico arriva anche nella provincia di Cuneo, altro importante luogo di raccolta della frutta. Anche qui da anni i lavoratori e le lavoratrici portano avanti, in totale autonomia e con il sostegno dei solidali, una lotta per migliorare le proprie condizioni di lavoro e abitative. Durante quella stagione di raccolta l’intervento dell’USB si limita ad una serie di proclami e comunicati che non trovano alcun tipo di riscontro nella vita delle persone che lì vivono e lavorano.

L’anno successivo, il 10 luglio del 2018, non avendo un posto dove dormire i braccianti decidono in totale autonomia di occupare un’ex fabbrica, sita in Via Lattanzi a Saluzzo, anche perché in molti non avevano trovato posto nel dormitorio allestito dal Comune per la stagione di raccolta (ex caserma Filippi in zona Foro Boario, gestita dalla Caritas). Puntuale come un predatore arriva l’USB con il suo sindacalista Abou Soumahoro per mettersi alla guida di un corteo, che si terrà il 21 luglio per le strade di Cuneo e che, anche in questo caso, si concluderà con un nulla di fatto: un incontro in Prefettura del quale non si è mai saputo nulla. Ad oggi, dopo questo episodio l’USB non ha proferito parola su quanto accade a Saluzzo.

Dentro e contro internet. Laboratorio di autodifesa digitale

Oggi ci troviamo di fronte a uno scenario molto complesso ma anche di progressiva centralizzazione monopolistica del cyberspazio, con le imprese che provano ad estrarre profitti utilizzando qualsiasi mezzo a loro disposizione attraverso il modello emergente del “capitalismo di sorveglianza” gestito da piattaforme transnazionali.

Queste grandi infrastrutture risultano sempre più centrali per gli individui, ma uno dei principali giochi di prestigio che esse fanno di fronte al loro pubblico è quello di presentarsi come neutre e manipolabili, quando invece sono dei software proprietari che sviluppano degli algoritmi sempre più sofisticati che hanno due obiettivi di fondo: fidelizzare quanto più possibile l’utente ed estrarre dalle sue attività online quanti più dati possibile in modo da poterli rivendere sul mercato pubblicitario.

Un social network commerciale diviene dunque un ecosistema dal quale è difficile disconnettersi, pena la perdita di relazioni e identità sociale. La base di questa dinamica è anche abbastanza vecchia, perché la storia del capitalismo ci insegna come la merce perfetta sia quella che crea dipendenza e costringe il consumatore ad un acquisto infinito: qui siamo di fronte a piattaforme che creano strumenti di dipendenza neurologica per estrarre dati privati dagli utenti a scopo di profitto.

Quanto è possibile partecipare a questo gioco salvaguardando i propri obiettivi politici di fondo senza essere travolti e modificati? Si possono proteggere i nostri dati dallo sfruttamento commerciale? Quali attività online sono sicure per le nostre attività politiche?

Martedì 11 giugno presso lo spazio sociale Murotorto -Eboli (Sa) ore 20.00
Capitalismo di sorveglianza e free software

Mercoledì 19 giugno sempre a Murotorto ore 20.00
Anonimato, privacy, strumenti di autodifesa per attivist*

Link
https://numerique.noblogs.org/
https://www.dinamopress.it/news/piu-grande-dellurss-conversazione-nick-srnicek/
https://switching.social/

Il cambiamento climatico è diventato importante. È in Tv in prima serata

Fonte: https://peopleandnature.wordpress.com/2019/04/23/climate-change-must-be-a-thing-its-on-prime-time-tv/#more-2445

Gli effetti chiave del riscaldamento globale sono stati riportati senza mezzi termini davanti a milioni di telespettatori nel documentario “Climate Change: The Facts”, trasmesso su BBC One giovedì 18 aprile. “Può sembrare spaventoso”, ha detto il super-popolare naturalista e personaggio televisivo David Attenborough, presentando lo spettacolo, “ma le prove scientifiche dicono che se non avremo intrapreso un’azione drastica entro il prossimo decennio, potremmo avere danni irreversibili per la natura e il collasso delle nostre società “. La stampa ha adorato il documentario della BBC. “Una chiamata alle armi”, ha scritto il quotidiano “The Guardian”. “Bisogna che filantropi, investitori e governi si sveglino per agire?” Si è domandata la rivista “Forbes”.

Il gruppo teatrale “Renew Rebels”, in scena a Waterloo Bridge venerdì 19 agosto durante le proteste di “Extinction Rebellion”. Il petrolio (in nero) affronta il potere delle onde (in blu), il vento (in bianco) e il sole (in arancione)

Io mi sono chiesto: perché proprio adesso?

La BBC non ha mai avuto fretta di raccontare il riscaldamento globale. Nel 2011, due decenni dopo che i colloqui internazionali sul clima erano iniziati a Rio, gli scienziati stavano contestando la BBC per aver dato spazio ai negazionisti dei cambiamenti climatici. Nel 2014, una nota della BBC ha detto ai giornalisti di smettere di fingere che fosse necessario mostrare una “equidistanza” tra la scienza del clima e i suoi negazionisti – ma la pratica è continuata, portando a un altro comunicato nel settembre dello scorso anno. In quel periodo, i ricercatori avevano iniziato a rifiutarsi di entrare negli studi della BBC per discutere con i negazionisti.

Ma giornalisti di alto profilo della BBC si sentivano ancora obbligati a intervistare quei cospirazionisti antiscientifici che sono pagati dall’industria dei combustibili fossili per consigliare Donald Trump. Nell’ottobre dello scorso anno, quando il rapporto “Intergovernmental Panel on Climate Change” ha delineato le misure utili per limitare il riscaldamento a 1,5 gradi al di sopra del livello preindustriale, Evan Davies di “Newsnight” ha dato a Myron Ebell lo spazio per sminuirlo.

Secondo certi standard, la BBC sta andando anche bene. Dopotutto, ci sono voluti 359 anni al Vaticano per scusarsi di aver costretto Galileo Galilei a negare la sua scoperta che la terra girasse attorno al sole. La BBC ha messo in dubbio i cambiamenti climatici: il documentario “Climate Change. The Facts” arriva dopo soli 30 anni da quando gli scienziati hanno dimostrato il nesso causale della combustione dei fossili e di altre attività economiche nel riscaldamento globale. Molto bene.

Quindi, perché proprio adesso? Secondo me per due motivi principali.

1. La realtà del riscaldamento globale sta diventando palesemente ovvia. Venti degli anni più caldi mai registrati nella storia sono stati negli ultimi ventidue. Effetti come le inondazioni e la devastazione dell’agricoltura sono stati avvertiti nel sud globale per molti anni. Adesso anche i paesi ricchi vengono colpiti. Il documentario “Climate Change. The Fact” affronta molto bene questo problema, mostrando la devastazione causata dagli incendi e l’innalzamento del livello del mare negli Stati Uniti.

2. È emerso un movimento di protesta completamente nuovo, diretto essenzialmente contro l’incapacità dei politici di agire sul riscaldamento globale, con scioperi degli studenti e azioni dirette non violente su larga scala da parte di Extinction Rebellion (XR).

Gli scioperi scolastici si sono diffusi in apparenza completamente al di fuori dell’influenza, per non dire del controllo, delle organizzazioni politiche o ambientaliste esistenti. XR sembra politicamente simile ai precedenti gruppi ambientalisti – ma, certamente qui nel Regno Unito, nessun gruppo di questo tipo ha mai portato così tante persone a un potenziale scontro con le forze dell’ordine.

L’istinto dell’establishment politico, penso, è di usare una combinazione di dialogo, concessioni, cooptazione e retorica per domare, limitare e controllare questi movimenti. Questo non vuol dire che la repressione non avrà alcun ruolo: la polizia potrebbe abbandonare, almeno in parte, il suo approccio morbido nei confronti di XR. Ma il controllo sociale nel capitalismo riguarda tanto l’ideologia e le opinioni quanto la violenza e la repressione (sto pensando al Regno Unito, anche se alcuni di questi punti si applicano più ampiamente).

Il potere (e la ricchezza che esso rappresenta) può convivere con un “movimento per il clima” che non minacci il suo controllo dell’economia e della società. Alle narrazioni che presumono che strutture e partiti politici esistenti possano e debbano “risolvere” il problema del riscaldamento globale sarà permesso di riecheggiare attraverso i media mainstream. Il potere ha interesse a convincere le persone che sta ascoltando – e, dal momento che sa che le persone non sono stupide, parte della sua strategia è farlo veramente.

Gli ultimi 20 minuti di “Climate Change: The Facts” hanno raccontato la solita storiella di come i governi si occupino del riscaldamento globale. Il documentario ha messo in evidenza l’accordo di Parigi del 2015 – ma non il fatto che esso abbia semplicemente prolungato un quarto di secolo di negoziati, durante i quali l’uso globale di combustibili fossili è aumentato della metà. Ha riconosciuto che le compagnie petrolifere e del carbone resistono ai cambiamenti, ma non ha menzionato come i governi li sostengono con centinaia di miliardi di dollari di sussidi.

Un vero dibattito su come affrontare il riscaldamento globale inizierà non con i colloqui internazionali sul clima ma con il riconoscimento del loro disastroso fallimento.

Non sono un folle teorico della cospirazione che pensa che David Attenborough sia uno strumento di alcuni oscuri manipolatori. Chiaramente, però, egli è un portavoce adatto a presentare “soluzioni” al riscaldamento globale, che sono state discusse per anni tra piccoli gruppi di diplomatici, politici e ONG durante i colloqui sul clima, ad un pubblico più ampio. Perché, come dice il Daily Telegraph, “tutti ci fidiamo di Attenborough”.

La discussione sui media mainstream, di cui fa parte “Climate Change: The Facts”, presuppone che non solo le strutture politiche esistenti, ma anche le strutture economiche e sociali, possano affrontare il problema.

La possibilità di maggiori trasformazioni sociali dirette a ribaltare le relazioni di potere e ricchezza – e il pensiero che queste possano essere il modo più efficace, o anche l’unico modo, in cui l’inarrestabile dominio del combustibile fossile possa essere fermato – viene preso poco o in nessuna considerazione. L’idea che, nel mondo ricco, la gente possa vivere più felicemente al di fuori dei sistemi tecnologici controllati dalle aziende e basati sui combustibili fossili, è quasi completamente assente. Così come sono assenti le ipotesi che il sud globale non sia condannato a seguire questo cosiddetto “percorso di sviluppo”.

Ammetto che l’appello di George Monbiot di “rovesciare questo sistema che sta mangiando il pianeta” sia arrivato fino allo show televisivo di Frankie Boyle. I media sanno come emarginarci o pubblicizzarci.

Spero che i nuovi movimenti climatici diventeranno forum aperti in cui verranno discusse le idee su cambiamenti sociali, politici e tecnologici radicali. Resistiamo alle pressioni che vogliono restringere il dibattito all’interno delle recinzioni ideologiche del mainstream.

Prendiamo ad esempio la principale richiesta politica di XR nel Regno Unito – che l’economia del paese dovrebbe essere “carbon neutral” entro il 2025. Facile da dire, difficile da raggiungere.

Una delle prime domande a cui XR dovrà rispondere è quella posta in Francia: che dire degli attacchi agli standard di vita dei lavoratori confezionati e presentati come misure per affrontare i cambiamenti climatici? Come la tassa sul diesel proposta che ha innescato la rivolta dei “gilet gialli” nel dicembre dello scorso anno.

Le persone appartenenti alla classe operaia in Francia hanno visto la tassa come una misura di austerità neoliberista, vestita con abiti “ambientalisti”, e si sono rivoltate contro di essa di conseguenza. “Le élite parlano della fine del mondo, mentre noi parliamo della fine del mese”, era (a quanto pare) un tema ricorrente.

Un “movimento per il clima” nel nord del mondo, separato dalla rabbia giustificata contro il neo-liberismo manifestata da molti “gilet gialli”, è destinato a fallire a livello sociale ed è fatalmente imperfetto a livello politico.

L’intento delle politiche di “austerità” neoliberale, praticate dal presidente Emmanuel Macron in Francia oggi e dai governi britannici dagli anni ’80, è quello di proteggere e sostenere l’economia capitalista in costante espansione – e il modo in cui è strutturata per beneficiare l’1% della popolazione mondiale – che, a sua volta, è la causa principale del riscaldamento globale.

I “gilet gialli”, gli altri movimenti anti-austerità, gli studenti in sciopero e i “ribelli” di XR sono tutti contro lo stesso sistema. Tutti abbiamo bisogno di un linguaggio comune e di una politica comune (per proposte pratiche, si vedano i link alla fine).

Le questioni su cui dovremmo concentrarci, credo, sono “come possiamo unire questi movimenti?” e “come possiamo sviluppare una vera democrazia, indipendente dallo stato, attraverso la quale elaborare misure adeguate per prevenire pericolosi cambiamenti climatici?”, piuttosto che “quale consiglio possiamo dare alle strutture politiche esistenti – a chi ha saputo per anni come il cambiamento climatico si sarebbe potuto evitare e si è rifiutato di agire?”.

Se pensate che stia esagerando sul pericolo che le proteste climatiche vengano cooptate e controllate, pensate alla lotta contro il razzismo.

Nei primi anni ’80, quando il consenso sociale del dopoguerra stava crollando e Margaret Thatcher divenne primo ministro, quella lotta fu caratterizzata dai riot del 1981. I britannici neri e altri nelle loro comunità hanno messo a soqquadro i quartieri popolari delle città e hanno chiesto un miglioramento delle loro condizioni di vita.

Negli anni ’90, quando il “New Labour” di Tony Blair prese il posto dei Tories, le narrazioni antirazziste furono sempre più cooptate e controllate. Il rapporto Macpherson del 1999 sull’uccisione di Stephen Lawrence, un adolescente nero, fu una svolta: mise in luce che l’inchiesta sull’omicidio (notoriamente pasticciata) mostrava che le forze di polizia erano “istituzionalmente razziste”.

L’adozione dell’antirazzismo da parte dell’establishment ha prodotto molti risultati positivi. Le vittime hanno affrontato meno frequentemente il muro di ostilità che la famiglia Lawrence si era trovata davanti. Nelle scuole, nelle strade e nei campi di calcio, sono state messe in discussione le espressioni aperte di razzismo. La stampa popolare cambiò, barcamenandosi tra forme sottili e subliminali di razzismo e una condanna ipocrita esclusivamente “morale” di singoli individui razzisti. Ma le strutture sociali ed economiche che moltiplicano e incoraggiano il razzismo non sono state toccate. Il governo Blair ha proseguito con le sanzioni e l’invasione del 2003 in Iraq con il risultato dell’omicidio di massa fondamentalmente razzista di centinaia di migliaia di civili. Le politiche di immigrazione intrinsecamente razziste furono rafforzate.

Studentx in Uganda durante lo sciopero per il clima. Foto di Fridays for Future Uganda

La conseguenza di questo processo è l’attuale rinascita del razzismo. Le basi strutturali sono il sostegno del Regno Unito a nuove guerre in Medio Oriente, in primis l’attacco genocida dei Sauditi allo Yemen e il preoccupante “ambiente ostile” per i migranti. I risultati ideologici sono la subdola islamofobia presente in tutta la società e il recente aumento di azioni razziste di strada.

Il cambiamento climatico, come il razzismo, è un problema grande e sfaccettato che sfida semplicistiche “soluzioni”. Occuparsene significa avere a che fare con il sistema sociale ed economico che l’ha prodotto. Non lasciamo che l’élite politica e i suoi media stabiliscano i termini del nostro dibattito su come farlo. GL, 23 April 2019.

Alcuni articoli pubblicati su “People & Nature” sulle misure necessarie per combattere i cambiamenti climatici:

Heathrow: “jobs vs climate action” is a false choice (June 2018)

The Red Green Study Group on social justice and ecological disaster (June 2018)

Memo to Labour: let’s have energy systems integration for the many (May 2018)

Will Labour’s climate policy rely on monstrous techno-fixes like BECCS? (March 2018)

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Eboli (SA) – I padroni sfruttano, lo stato sgombera

[Riceviamo e pubblichiamo]

Giovedì 4 aprile alle 5 di mattina, prima del sorgere dell’alba, su ordine della Procura di Salerno, è iniziata un’operazione di polizia in località Campolongo, nella zona litoranea del Comune di Eboli (Salerno). Con l’ormai consueto e sproporzionato dispiegamento di forze dell’ordine utilizzato in questi casi, circa 200 unità tra Polizia, Carabinieri, e Guardia di Finanza, affiancati da decine di mezzi, compreso un elicottero, hanno sgomberato un insediamento in cui vivevano un centinaio di persone immigrate, tra cui alcune famiglie con bambin*.

Gli agenti hanno prima circondato completamente l’insediamento e bloccato le strade adiacenti, deviando il traffico su strade interne. Hanno poi perquisito una per una tutte le strutture (casupole, roulotte, baracche, un vecchio bus) e identificato le persone che ci vivevano. L’operazione si è protratta fino al pomeriggio, per diverse ore: tutte le persone sono state cacciate via dai loro alloggi e buttate in strada, le strutture sono state sigillate e poste sotto sequestro. Il proprietario italiano dell’area è stato fermato con l’accusa di furto di corrente elettrica e sfruttamento della manodopera clandestina. Due bambin* sono stati sottratt* ai loro papà e, in assenza delle madri e di “verifiche”, affidat* ai servizi sociali.

I media locali riportano acriticamente la stessa velina (https://www.lacittadisalerno.it/cronaca/eboli-minori-nei-tuguri-scatta-il-blitz-all-alba-1.2192728) delle autorità, scrivendo del degrado in cui versavano gli alloggi, di presunti giri di prostituzione e spaccio che avvenivano nella zona, di 7/10 persone fermate sulle circa 100 presenti (quasi tutte africane) perché senza documenti in regola, le quali subiranno probabilmente l’espulsione. Difficile per ora trovare altre notizie sui media, e soprattutto difficile che siano riportate notizie veritiere. Soprattutto nessuno si è interrogato, nel pubblicare la notizia dello sgombero, sulla sorte delle persone sgomberate: cento persone rimaste all’improvviso senza un tetto è un evento che non merita riflessioni o domande (https://www.youtube.com/watch?v=cj0rsbtNHTg). Il perché è presto svelato potendo parlare, il giorno dopo lo sgombero, con alcune delle persone che lo hanno subito, a Campolongo, dove c’è ancora un via vai di braccianti che tornano dal lavoro e di auto dei Carabinieri a controllarle le casupole ormai vuote.

Sì, sono venuti in tanti e ci hanno controllato i documenti, noi ce li abbiamo tutti, siamo regolari, lavoriamo nelle campagne. Hanno controllato le nostre case, non so perché, ma non hanno trovato niente. Gli abbiamo dato anche i contratti di affitto, paghiamo ogni mese dai 200 ai 300 euro per vivere qui. Ma ci hanno mandato via lo stesso tutti, sotto la pioggia. Io ho potuto prendere solo un paio di borse, per fortuna sono riuscito a trovare un posto dove dormire qui vicino

Un’altra persona racconta: “Sono arrivati alle 5 di mattina, era buio, c’erano tutti, la polizia, i carabinieri, tutti. Ci hanno detto che il proprietario non pagava l’acqua e la luce, ma questo non dipende da noi, noi gli pagavamo l’affitto. Abbiamo avuto un’ora per lasciare le nostre case, solo un’ora, tutti sono dovuti andare via, abbiamo potuto prendere solo poche cose, siamo dovuti andare in strada. Ora ho paura che qualcuno rubi ciò che avevo lasciato, perciò sono ancora qui. Non so se hanno portato via altre persone senza documenti. Questo sgombero l’hanno fatto con noi perché siamo africani, con gli italiani non avrebbero fatto così. Nessuno ci aveva avvertiti prima, avremmo cercato un’altra casa. Adesso devo cercarmi una casa, qui è difficile trovarla, non vogliono affittarci le case. Qui sono tutti d’accordo, qui c’è la mafia e il razzismo.

Da queste parole emergono le testimonianze di uno sgombero quasi surreale: dopo aver controllato i contratti di affitto delle persone e dopo aver a lungo perquisito le loro abitazioni (evidentemente in cerca di elementi d’accusa), pur non avendo trovato nulla, hanno semplicemente apposto i sigilli alle case e costretto le persone ad allontanarsi. Nessun preavviso di sgombero, neppure la possibilità d’avere un po’ di tempo per trovare una nuova abitazione o di recuperare i propri oggetti personali all’interno delle case, in quella che sui giornali è stata definita come mini-baraccopoli; un centinaio di persone, bambin* compres*, sono stat* scacciat*, sotto una pioggia scrosciante e senza alcuna soluzione alternativa. Se pure sono stati scoperti allacci di energia elettrica ed acqua abusivi, ciò non implica nessuna responsabilità da parte delle persone che vi abitavano, che avevano un contratto e pagavano regolarmente l’esoso canone di affitto e che, però, hanno subito le durissime conseguenze di uno sgombero.

Un’altra cosa molto chiara sottolineata dai braccianti è che tutto quello che è accaduto è stato possibile solo perché le persone sgomberate sono africane e non italiane, dandoci così una spiegazione molto semplice del razzismo istituzionale che governa il territorio. Mentre le imprese fanno affari con lo sfruttamento lavorativo delle persone migranti e proprietari di alloggi si arricchiscono con gli affitti in nero c’è lo Stato che interviene nei fatti a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita delle persone immigrate e a perpetuare così ogni sorta di abuso e sopraffazione. Quando si parla di degrado pensiamo proprio a questo, alla costante repressione e alle varie forme che assume lo sfruttamento, alla estesa complicità delle istituzioni e delle varie forze politiche.

Qui sono tutti d’accordo, qui c’è la mafia e il razzismo” e viene da pensare alla recente inchiesta del mese scorso, partita dal 2015, su un giro di falsi permessi di soggiorno e sfruttamento lavorativo, e che vede gli indagati, tra gli altri, il capogruppo del PD al Comune di Eboli e il presidente di un comitato di quartiere e membro del direttivo della Lega Noi con Salvini a Eboli. (https://www.battipaglianews.it/cronaca/eboli-caporalato-lega-pd/)

A due giorni dallo sgombero, ancora non c’è nessuna dichiarazione o reazione della sinistra politica e sindacale ebolitana e salernitana, e ciò non sorprende. Non si vuole seriamente mettere in discussione il sistema di sfruttamento dell’agroindustria italiana, che tritura tante vite dalla piana di Gioia Tauro alla Piana del Sele: non è spendibile dal punto di vista elettorale o per far tessere.

 

Politica per tempi impossibili

di Peter Frase

Attenzione all’ambientalismo pragmatico sul clima

Nuovi studi pubblicati all’inizio del 2019 riportano che il continente dell’Antartide si sta sciogliendo più rapidamente e più estensivamente del previsto. Questo processo è in corso da decenni, ma recentemente ha preso velocità. Dal 2009 al 2017, la calotta antartica si è sciolta ad un ritmo sei volte superiore a quello osservato negli anni ’80. Dal momento che il Polo Sud contiene quasi il 90% dell’acqua dolce sulla Terra, una fusione più rapida porterà ad aumenti più rapidi nel livello del mare, con conseguenze distruttive per la civiltà umana. Allo stesso tempo, sembra che l’interesse sul tema sia improvvisamente esploso, anche negli arretrati Stati Uniti, nel tentativo di affrontare seriamente il cambiamento climatico con il tradizionale progetto egualitario della sinistra socialista. Negli Stati Uniti ciò assume la forma del cosiddetto Green New Deal, che coniuga il messaggio di investimenti e creazione di posti di lavoro (che riecheggia quello di Roosvelt degli anni ’30) ad un moderno programma di sistemi energetici a zero emissioni. La bandiera di questo Green New Deal è stata recentemente raccolta dalla figura politica emergente di Alexandria Ocasio-Cortez, che lo ha collegato ad altre idee un tempo radicali ma recentemente diventate accettabili, come le aliquote fiscali notevolmente aumentate per i più ricchi.

Si è tentato di seguire gli avvertimenti sul rapido cambiamento climatico con un appello pragmatico a proposte politiche realistiche sulla falsariga del Green New Deal. Dopo tutto, qual è l’alternativa, oltre a rinunciare? Come vedremo, tuttavia, questo modo di procedere ci presenta quello che sembra un divario spaventoso e demoralizzante tra la portata e l’immediatezza dei nostri problemi e la debolezza delle forze sociali e politiche attualmente disponibili ad affrontarli. Questo risulta chiaro quando esaminiamo il documento che, solo pochi mesi fa, ha influenzato il giornalismo climatico più diffuso: il rapporto dell’ottobre 2018 del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) delle Nazioni Unite, che descrive i potenziali impatti del riscaldamento globale in un scala di 1,5 gradi Celsius. Questa è una pubblicazione dettagliata e completa, e poche persone hanno la pazienza o le conoscenze per leggere a fatica pagine su pagine e grafici su grafici. Ma il messaggio di fondo del rapporto è tanto radicale quanto terrificante. Persino il titolo del rapporto, “Riscaldamento globale di 1,5°”, è fuorviante nel suo basso profilo. Il rapporto osserva che la Terra è già quasi un grado più calda rispetto ad un punto di partenza precedente al XX secolo. Inoltre, 1,5 gradi di riscaldamento rappresentano il livello inferiore ottimistico, ottenibile solo nel contesto di “azioni di mitigazione ambiziose”. Il punto della relazione, quindi, non è di sostenere che 1,5 gradi di riscaldamento sono possibili, ma che probabilmente sono inevitabili, e l’unica domanda è se davvero sperimenteremo un riscaldamento significativamente maggiore di quella base. Il capitolo di riferimento della relazione conclude minacciosamente che, in effetti, “non esiste una risposta unica alla domanda se sia possibile limitare il riscaldamento a 1,5° C e adattarsi alle conseguenze”, nonostante l’impegno formale dei firmatari degli accordi di Parigi sul clima su questa cifra.

Se il rapporto dell’IPCC è una sorta di punto di riferimento, è perché mette fine a un dibattito fondamentalmente fittizio sulla realtà empirica dei cambiamenti climatici prodotti dall’uomo e focalizza invece la discussione su risultati probabili e possibili strategie adattive. Il dibattito è fittizio perché una parte suppone, in modo poco comprensibile, di basare le proprie argomentazioni sull’incertezza riguardo alle scienze del clima, piuttosto che ammettersi partigiana di un progetto politico e di classe volto a garantire che i costi del caos ecologico siano sostenuti esclusivamente da chi è senza potere. In gran parte del mondo questo è ovvio da tempo, ma negli Stati Uniti la persistenza di una forte destra negazionista rende necessario chiarire brevemente questo punto. Utili idioti a parte, non è saggio presumere che coloro che negano la realtà dei cambiamenti climatici causati dall’uomo siano sinceramente preoccupatx per l’accuratezza scientifica dei dati.

È più utile esaminare le fantasie apocalittiche dei super-ricchi, che hanno iniziato a investire in vari progetti per ripararsi da ciò che vedono come l’incombente collasso della civiltà. Nel caso del miliardario della Silicon Valley Peter Thiel, questa idea si è incarnata nelle fantasie sul “seasteading”, una città galleggiante indipendente, e negli investimenti terrieri fatti al sicuro in Nuova Zelanda, insieme ai suoi colleghi super ricchi.

L’amministrazione Trump, con il suo fare tipicamente maldestro, ha chiarito la vera posta in gioco nel dibattito sui cambiamenti climatici nel corso della sua recente battaglia contro le rigorose restrizioni delle emissioni automobilistiche della California. Nell’ambito di queste manovre per restare in una posizione di vantaggio, la National Highway Traffic Safety Administration (NHTSA) ha pubblicato un rapporto con una scioccante rivelazione del punto di vista dell’amministrazione del futuro, prevedendo che non solo il riscaldamento sarebbe stato inevitabile, ma che probabilmente sarebbe stato dell’ordine di quattro gradi entro il 2100, non il relativamente modesto 1.5 del rapporto IPCC e degli accordi di Parigi. Lo scopo di questa dichiarazione allarmante, nel contesto del rapporto NHTSA, era di affermare che è improbabile che standard di emissione rigorosi come quelli della California abbiano un impatto notevole rispetto alla scala del riscaldamento globale e che tali standard siano quindi economicamente ingiustificabili. Ma nonostante sia enorme nella sua grossolanità, questo atteggiamento da “smoke ’em if you got ’em”[espressione americana che si può tradurre come “tanto vale che ti fumi una sigaretta” di fronte ad un evento inevitabile, NdT] è in linea con la prospettiva delle élite capitaliste, in particolare nelle industrie estrattive, il cui obiettivo principale è evitare di pagare il costo della mitigazione del clima sotto forma di nuovi regolamenti o tasse.

Qui il collegamento dell’amministrazione Trump con il prepararsi al giorno del giudizio come Thiel [Peter Thiel è un miliardario che sta preparando un piano di sopravvivenza alla catastrofe ambientale costruendosi un rifugio in Nuova Zelanda, NdR] diventa significativo, in quanto evidenzia la menzogna della confortante e anestetizzante narrazione eco-liberal che vuole che siamo tutti sulla stessa barca e abbiamo lo stesso interesse nel proteggere la Terra. È chiaro che non tuttx lo credono, e alcunx sono convintx invece che possono nascondersi nelle loro mura fortificate, protetti dai loro droni assassini, mentre il resto di noi lotta per ciò che resta di una Terra in rovina. Potrebbero rimanere illusi da questa idea che è prigioniera dell’ideologia borghese che vede i capitalisti come creatori di ricchezza piuttosto che come individui che sfruttano il lavoro di milioni di persone. Ma non possiamo aspettare che lo capiscano prima che ci trascinino tuttx a fondo assieme a loro. Questo ci riconduce al rapporto dell’IPCC e al suo catalogo di orrori ambientali. Il documento è una risorsa preziosa, se non altro per la sua ampiezza, che descrive una crisi che può essere solo sinteticamente definita come “riscaldamento”. Il collasso degli ecosistemi marini, delle barriere coralline e delle attività di pesca, l’inondazione di aree costiere densamente abitate, la caduta dei raccolti, compaiono tra le varie calamità. Altre ricerche hanno esaminato l’impatto delle temperature sostenute del “bulbo umido” (pensate al calore e all’umidità) che superano i 32 gradi Celsius (circa 90 gradi Fahrenheit). A tali temperature diventa impossibile svolgere attività ordinarie all’esterno, poiché il corpo umano diventa fisicamente incapace di raffreddarsi. Il risultato è la morte di massa causata dal surriscaldamento e, infine, il possibile abbandono di alcune regioni, comprese le zone densamente popolate del Sud America, dell’India e della Cina.

Si potrebbe continuare a lungo su questo e sugli altri disastri previsti nei modelli IPCC, ma per molti aspetti tutto ciò risulta ormai assodato. La lezione generale è trasmessa efficacemente da una serie di semplici grafici contenuti nella relazione dell’ottobre 2018. Si tratta di scale che mostrano l’effetto dei diversi gradi di riscaldamento su una varietà di sistemi che includono tra l’altro “inondazioni costiere”, “ecosistemi terrestri”, “raccolti”, “morbilità e mortalità legate al calore” e “capacità di raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile”. “La gravità degli impatti è mostrata per incrementi che vanno da uno a oltre due gradi. Per la maggior parte di queste aree, la scala colorata raggiunge rapidamente il rosso, per “impatti/rischi gravi e diffusi”, e verso il viola, con “rischi molto elevati di impatti gravi e la presenza di irreversibilità significativa…combinata con capacità limitata di adattarsi a causa della natura del pericolo”.

Ricordiamo che questi sono essenzialmente gli scenari migliori per ciò che potrebbe essere possibile se il rapido adattamento in linea con gli accordi di Parigi si rivelasse fattibile. Tocca a malapena i gravi livelli di riscaldamento immaginati dal NHTSA di Trump, per non parlare degli scenari ancora più estremi immaginati nell’eventualità che vari circuiti di feedback dell’ecosistema vengano attivati, come il rapido rilascio del metano del permafrost artico. Lo scenario più estremo ipotizzato dall’IPCC è quello di un riscaldamento che arriva fino a 3° C, che è abbastanza terrificante. Ci vengono dati terribili avvertimenti sulle foreste pluviali (“potenziale punto di svolta che porta al pronunciato declino della foresta”), calore (“notevole aumento di ondate di calore potenzialmente mortali molto probabili”) e agricoltura (“drastiche riduzioni del raccolto di mais a livello globale e in Africa”), tra gli altri.

Torniamo così, infine, al Green New Deal, o a qualunque altro pacchetto di plausibili riforme socialdemocratiche si preferisca. Siamo di nuovo nel regno di idee moderate come la rete elettrica “intelligente”, il rinnovamento degli edifici per l’efficienza energetica, e mulini a vento e pannelli solari per tutti. Tutti gli obiettivi sono leciti, eppure sono una pessima e deprimente pappa dopo il tempo trascorso a rimpinzare le vivide proiezioni degli scienziati. C’è anche il problema che tende a sorgere quando più obiettivi politici separati sono raggruppati in un unico grande disegno che è destinato a comprendere tutto. Nel caso del Green New Deal, questo problema deriva in particolare dal rapporto tra i compiti redistributivi e quelli ecologici che deve assumere. Come previsto da Ocasio-Cortez, ad esempio, il Green New Deal è pensato per essere un programma per la creazione di posti di lavoro, con il recentemente di moda “lavoro garantito” che assume un ruolo centrale.

È facile immaginare in anticipo che posti di lavoro per tuttx e investimenti infrastrutturali camminino di pari passo in armonia. Ma in pratica è impossibile garantire che la quantità del lavoro offerto e le particolari abilità necessarie richieste siano allineate con la richiesta di reddito che viene da parte delle masse. E ogni volta che tali progetti di “duplice mandato” entrano in conflitto con se stessi, uno dei mandati tenderà a prevalere sull’altro. Se la politica di “lavoro garantito” si riduce in gran parte ad un programma di lavori pubblici, è difficile capire come possa esserci anche l’aspetto ambientalista. Altre idee, non del tutto mainstream, come la riduzione dell’orario di lavoro e il Reddito Universale di Base, potrebbero aver bisogno di essere aggiunte quando l’idea di Green New Deal si avvicinerà alla realizzazione. Ma così sembra ancora di camminare sopra un filo. La Terra è in fiamme mentre litighiamo su che tipo di estintori comprare. L’assoluta urgenza della questione climatica richiama fortemente, per la mente pragmatica, una qualsivoglia forma di “fare qualcosa” che si getti a capofitto in qualunque progetto possa raggiungere la maggioranza delle persone, per quanto inadeguato possa essere. Ovviamente, non c’è nulla di veramente pragmatico nel trovare un compromesso che non risolva il problema che affronta. Ma l’alternativa altrettanto insoddisfacente è una specie di massimalismo intransigente, insurrezionale, che urla presagi di sventura dai tetti. Si è tentati di andare su Twitter, o sulle pagine di Commune, per deridere coloro che non riescono a vedere la necessità di un’azione immediata e di una rivoluzione, con ogni mezzo necessario.

Quindi torniamo alla vecchia domanda: che fare? Una risposta insoddisfacente, ma probabilmente l’unica possibile, ovviamente, è: tutto. Il Green New Deal va avanti, ma c’è qualcosa da dire a coloro che preferiscono il lavoro di costruzione di progetti locali di autosufficienza e aiuto reciproco. Sebbene non si possa sostituire la competizione nelle alte sfere dell’economia, questi progetti possono gradualmente costruire la fiducia e la capacità collettiva, per il tipo di azione di massa veramente militante che alla fine è richiesta. Poi, naturalmente, c’è la lenta costruzione di collegamenti transnazionali; il capitale e il clima sono implacabilmente globali, mentre la sinistra che gradualmente si rianima resta parrocchiale in modo deprimente, specialmente nei paesi ricchi.

Quindi, forse, l’unico modo per lavorare per un mondo post-carbonio sostenibile non è quello di focalizzarsi principalmente su di esso. Forse dobbiamo tatticamente guardare oltre questo abisso impossibile da colmare tra la nostra politica e i bisogni del nostro pianeta. Se la forza sociale necessaria per creare un mondo migliore non esiste ancora, possiamo solo provare a crearla. Ciò potrebbe significare raccogliersi dietro il Green New Deal, o costruire la nostra rete locale di comunità, o entrambe le cose. Significherà anche azioni drammatiche occasionali di azione diretta, attaccando direttamente le infrastrutture e le istituzioni del capitale fossile, dimostrando che i loro sogni di nascondersi dalle masse disperate nei palazzi fortificati sono condannati a fallire.

Questo non può essere compito di tuttx, né dovrebbe esserlo se vogliamo evitare di degenerare nell’avventurismo. Ma sarà compito di qualcunx. Se ci mettiamo tuttx dalla stessa parte della barricata in una sola fazione, qualcunx verrà ricordato come il Frederick Douglass [1818-1895, ex-schiavo afro-americano diventato un importante politico riformatore, NdR] dei cambiamenti climatici. Ma così qualcunx sarà anche il nuovo John Brown [1800-1859, sosteneva l’insurrezione armata come l’unico modo per rovesciare la schiavitù negli USA, NdR]. In questo senso, almeno, siamo davvero tuttx sulla stessa barca.

Fonte: https://communemag.com/politics-for-impossible-times/

 

Gamification e attivismo politico

Sono passati ormai più di dieci anni da quando i social network hanno fatto irruzione e si sono prima diffusi e poi radicati nelle società occidentali, Italia compresa, coinvolgendo di fatto tutte quelle realtà politiche antagoniste, singole e collettive, che avevano sperimentato percorsi alternativi al mainstream nei primi anni di Internet. Travolti dall’esigenza di non restare separati in un limbo militante sganciato dalle masse che creavano i primi profili social, i gruppi e i collettivi cominciarono a costruire una propria presenza sui social attraverso le pagine Facebook e gli account Twitter, creando nel corso degli anni una rete interna alle piattaforme commerciali. Senza voler esprimere necessariamente un giudizio di merito rispetto a quella che è stata una dinamica storicamente avvenuta e che ha spazzato via, ad esempio, reti come Indymedia o ridimensionato altri percorsi militanti sul web, mi sembra comunque interessante ragionare non solo sugli effetti di queste scelte, ma anche (alla luce di quanto nel frattempo si sia evoluto tutto il panorama online) fare delle riflessioni che possano servire da bilancio. Quando Facebook invase le case degli italiani il suo utilizzo era appunto diffuso principalmente su desktop, prima ancora del boom del mobile e degli smartphone a basso costo con Android. Sembra, dunque, un’era geologica fa. Oggi ci troviamo di fronte a uno scenario molto complesso ma anche di progressiva centralizzazione monopolistica del web, per cui abbozzerei una parziale e sintetica rappresentazione del contesto nel quale oggi una singola individualità che vuole svolgere in rete il suo attivismo politico è costretta ad affrontare. Innanzitutto, lo sviluppo del cyberspazio si è sempre di più legato a doppio filo con i mass media classici, radio e televisione in primis, per cui si può parlare di “infosfera” come un luogo sempre meno virtuale che racchiude entrambi, con al centro una prateria sconfinata nella quale le imprese provano ad estrarre profitti utilizzando qualsiasi mezzo a loro disposizione, basandosi sul modello del capitalismo di sorveglianza gestito da piattaforme transnazionali. Secondo Nick Srnicek, autore del libro Platform Capitalism: “La piattaforma è in realtà un modello di business piuttosto datato, ma è diventato molto più pervasivo con l’avvento della tecnologia digitale. Di fatto, una piattaforma è un intermediario tra due o più gruppi diversi. Possiamo pensare alle prime piazze dei mercati, ma la piattaforma come modello è decollata soprattutto con le tecnologie digitali negli ultimi 10 anni. Facebook, ad esempio, è un intermediario tra inserzionisti da un lato e utenti, sviluppatori di software e aziende che creano pagine e chatbot dall’altro. Facebook riunisce tutti questi diversi gruppi e da essi trae il suo valore, e questo è un fatto abbastanza nuovo rispetto alle aziende più tradizionali. Queste piattaforme stanno diventando centrali nel capitalismo contemporaneo: sono, sempre di più, le aziende più redditizie, ricche e potenti del mondo”. Queste grandi infrastrutture risultano dunque sempre più centrali per gli individui, ma uno dei principali giochi di prestigio che esse fanno di fronte al loro pubblico è quello di presentarsi come neutre e manipolabili, quando invece sono dei software proprietari che sviluppano degli algoritmi sempre più sofisticati che hanno due obiettivi di fondo: fidelizzare quanto più possibile l’utente ed estrarre dalle sue attività online quanti più dati possibile in modo da poterli rivendere sul mercato pubblicitario. Quando queste piattaforme si sono diffuse, hanno compiuto una serie di ricerche di psicologia comportamentale per creare un ecosistema dentro al quale l’utente si sentisse invogliato a rimanere e produrre contenuti: oggi possiamo leggere numerosi studi al riguardo che dimostrano gli effetti neurologici provocati dalle attività online, studi sulla gratificazione che si ottiene quando si hanno i like ai propri post fino al rilascio di cortisolo che il cervello fa ogni volta che sentiamo il suono di una notifica dello smartphone. Questo è uno degli effetti più fisici e meno virtuali dell’infosfera: i nostri corpi, a contatto con dispositivi tecnologici sempre più invasivi e perennemente accesi, si stanno velocemente trasformando. Un social network commerciale diviene dunque un ecosistema dal quale è difficile disconnettersi, pena la perdita di relazioni e identità sociale, con la conseguenza di problemi fisici per l’utente. La base di questa dinamica è anche abbastanza vecchia, perché la storia del capitalismo ci insegna che la merce perfetta è quella che crea dipendenza e costringe il consumatore ad un acquisto infinito: qui siamo di fronte a piattaforme che creano strumenti di dipendenza neurologica per estrarre dati privati dagli utenti a scopo di profitto. Altro aspetto relativo a questo sviluppo abnorme dell’infosfera riguarda la cosiddetta “gamification” presente nei social network commerciali. Le meccaniche base di un gioco o prodotto gamificato sono i punti, i livelli, i premi, i beni virtuali e le classifiche. Si intravedono qui alcuni aspetti centrali dei social, dalla competizione sul numero di amici o followers, ai like ottenuti da una pagina facebook, alla costruzione di un’identità che assomiglia sempre di più al percorso di un videogioco dal quale non possiamo più uscire. Senza voler moraleggiare su queste dinamiche, resta comunque un grande interrogativo aperto sul possibile uso politico dei social network in questo dato contesto: quanto è possibile partecipare a questo gioco salvaguardando i propri obiettivi politici di fondo senza venirne travolti e modificati? Oggi assistiamo ad una progressiva professionalizzazione nei vari collettivi e gruppi politici di persone più esperte nell’uso dei social network, con militanti che devono saper aprire una pagina Facebook del proprio gruppo, creare un evento, invitare utenti etc. Chi detiene le password e i privilegi di amministrazione dei gruppi avrà un ruolo centrale nel percorso di soggettivazione delle identità politiche collettive (come insegna, su scala nazionale e di politica mainstream, il ruolo della Casaleggio Associati nello sviluppo del Movimento Cinque Stelle). In tutto ciò, uno degli aspetti da tenere in considerazione è anche il rapporto tra il proprio profilo personale di utente social e quello degli account collettivi, in quanto si creano dislivelli di potere interni ai gruppi tra chi sa gestire da influencer la sua immagine social e chi invece a stento sa esprimersi in una mailing-list. In definitiva, la costruzione di percorsi di democratizzazione e di partecipazione orizzontale nei gruppi politici risulta alquanto problematica in un contesto che nasce per l’estrazione di profitto dalla soggettivazione degli utenti. Allo stesso modo sarà complesso e contraddittorio un uso personale del proprio attivismo digitale in questo contesto di gamificazione, con il rischio di confondere i risultati di ricaduta politica del proprio impegno con le ricompense programmate dagli algoritmi dei social.

Lino Caetani

 

Da un lager all’altro


È ampiamente risaputo che la rotta che attraversa il mar Mediterraneo dalla Libia all’Italia sia diventata negli ultimi mesi sempre più chiusa e controllata militarmente e che sempre meno persone riescano ad approdare in Europa partendo dalle coste libiche. Dal 1° gennaio sono infatti riuscite a raggiungere l’Italia solo 398 persone, il 93,54% in meno rispetto allo stesso periodo del 2018. Tra queste, le nazionalità più numerose sono quelle tunisine e algerine, 128 persone alle quali come prassi italiana ormai consolidata e contrariamente a quanto previsto da qualsiasi normativa comunitaria viene negata la possibilità di presentare domanda di asilo unicamente in ragione del paese di origine. La maggior parte de* magrebin* sono reclus* nei CPR in attesa dell’espulsione, o vengono rilasciat* con in mano un decreto di espulsione entro 7 giorni. Le persone rimanenti dovranno invece cominciare il percorso a ostacoli nel sistema di accoglienza italiano, trasferite da hotspot a hub e centri di accoglienza in giro per il paese, con la quasi certezza di vedersi alla fine sbattute per strada con un diniego della domanda d’asilo: a inizio anno la percentuale di dinieghi in prima istanza ha raggiunto l’82%.

Nei fatti, come certificato dai dati ufficiali pubblicizzati con enfasi dal ministero degli interni, nei primi tre mesi dell’anno le deportazioni sono state per la prima volta maggiori rispetto a nuovi arrivi: 1.354 (aggiornati al 13 marzo), di cui 1.248 forzati e 106 volontari assistiti [fonte http://www.interno.gov.it/sites/default/files/cruscotto_statistico_giornaliero_21-03-2019.pdf].

Gli effetti delle politiche di Minniti e Salvini cominciano dunque a diventare statistiche da sventolare per le propagande incrociate di governo e opposizione. Allargando un attimo la visuale dallo zoom imposto dal mainstream politico-mediatico-militare ci sarebbero però anche altre questioni di non poco conto da affrontare. Innanzitutto, su quella rotta si continua a morire, a decine e continuamente; nel mediterraneo le persone annegano ancora nel tentativo di fuggire dai lager libici. L’ultima strage è avvenuta solo pochi giorni fa, nel silenzio complice dei media che puntavano i riflettori sullo sbarco della nave “Mare Jonio” a Lampedusa. Secondo problema, pare che a nessuno importi niente dell’enorme apparato concentrazionario messo su in Libia con il contributo del precedente governo italiano e sotto la supervisione dei governi europei e delle agenzie delle Nazioni Unite. Ogni tanto qualche esponente del Partito Democratico in vena di vis polemica contro Salvini ricorda soltanto come “già con Minniti” fossero diminuiti gli sbarchi e come il leader della Lega sia troppo lento nell’effettuare le deportazioni promesse in campagna elettorale (certo, più di mezzo milione di deportazioni sono troppe anche per lo sceriffo leghista, evidentemente il Pd sogna di avere Adolf Hitler al Ministero dell’Interno). Saltuariamente esce qualche reportage giornalistico sui vari lager esistenti oggi sul territorio libico, ma la cosa finisce lì.

Altro problema che interessa davvero poco tutto il panorama politico e giornalistico sembra essere poi quello della sorte delle poche persone che riescono ad approdare ancora sulle coste europee, soccorse dalle navi delle ONG che tanto fanno arrabbiare Salvini. Le cronache degli ultimi mesi sono piene, anzi strapiene, di ogni dettaglio su qualsiasi aspetto di quanto accaduto, dalla nave Diciotti al processo a Salvini stoppato in Senato, alla natura e legittimità delle ONG, al ruolo di mediazione del presidente del consiglio Conte sulla ripartizione de* poch* “profugh*” portati in Europa, alle tiepide dichiarazioni del presidente della Camera, ai contrasti tra Lega e Cinque Stelle, etc.

Facciamo solo alcuni esempi tra i più recenti. Le 177 persone fatte sbarcare dalla nave Diciotti, l’imbarcazione bloccata al centro del Mediterraneo per giorni l’estate scorsa e diventata un caso politico eclatante, erano state ricollocate per lo più in alcuni centri di accoglienza gestiti dalla Chiesa italiana in varie diocesi. Delle cento persone di nazionalità eritrea, 92 uomini e 8 donne, che arrivarono la sera del 28 agosto 2018 nel centro d’accoglienza «Mondo Migliore» di Rocca di Papa, vicino Roma, non è rimasto più nessuno, e lo stesso è avvenuto in altre situazioni in giro per il paese dove erano state distribuite le altre persone provenienti dalla Diciotti. Si potrebbe dire, in questo caso, “tanto rumore per nulla”: se le persone migranti possono decidere liberamente e se hanno libertà di movimento, cercano semplicemente di farsi una vita autodeterminandosi, e non accettano di rimanere nella tanto acclamata “accoglienza” in strutture che loro definiscono “campi” e considerano più o meno simili a carceri e lager.

Altri casi, infatti, sono stati purtroppo diversi. Lo scorso 9 gennaio, 49 persone soccorse in mare dalle navi “Sea Watch” e “Sea Eye” dopo mille polemiche furono fatte sbarcare sulla terraferma europea a Malta solo dopo estenuanti trattative che portarono alla promessa di una ripartizione de* migranti in diversi stati europei. L’Italia avrebbe dovuto “accoglierne” ben dieci, ma solo grazie all’intervento della Chiesa Valdese, che l* avrebbe ospitat* a sue spese, permettendo così al ministro dell’Interno di poter dire che aveva comunque vinto la sua politica dei “porti chiusi”. Ebbene oggi, dopo tre mesi, quasi tutte 49 le persone che scesero dalla “Sea Watch” si trovano (assieme ad altre provenienti da sbarchi precedenti e successivi) in stato di prigionia presso il centro di detenzione per migranti di Marsa, vicino La Valletta, un “hotspot” in cui sono rinchiuse. Per tre giorni, dal 5 all’8 marzo, queste persone hanno portato avanti uno sciopero della fame per protestare contro la detenzione e per conoscere al più presto il loro futuro [https://www.timesofmalta.com/articles/view/20190313/local/hunger-strike-as-migrants-frustration-over-relocation-grows.704407]. Il 12 marzo, 15 persone sono riuscite a fuggire: 13 direttamente dal centro di detenzione e altre due dagli uffici della commissione per i rifugiati, dove erano state condotte per dei controlli. Dopo la caccia organizzata dalla polizia maltese, 5 persone sono state rintracciate e riportate nel centro di detenzione di Marsa [https://lovinmalta.com/news/15-migrants-escape-from-marsa-reception-centre-and-refugee-commissioner]. Ma la questione della “Sea Watch” era già stata archiviata e aveva fatto tutti contenti.

Veniamo infine agli ultimi giorni, quando la nave “Mare Jonio” è sbarcata a Lampedusa dopo un altro forte (ma ben più rapido rispetto al passato) scontro politico, con Salvini che strepitava contro la “nave dei centri sociali” e la sinistra che invocava a gran voce l’apertura del porto dell’isola siciliana. Alla fine * migranti sono sbarcat*, ma la nave è stata sequestrata e il comandante indagato. Salvini è rimasto soddisfatto, mentre il movimento che ha dato vita alla “Mare Jonio” ha organizzato delle manifestazioni in tutto il paese per chiedere il dissequestro della nave. E le 49 persone che sono sbarcate a Lampedusa? Che fine hanno fatto? Anche qui pare che nessuno abbia voglia di mantenere accesi i riflettori. Il governo ha ottenuto lo scalpo dell’imbarcazione della ONG e questa ha portato le persone migranti al sicuro. Talmente al sicuro che adesso si trovano nel lager di Lampedusa, un “hotspot” come quello di Malta e come i tanti che affollano il vecchio continente. Molte di queste persone fuggivano da altri lager in Libia e ora si ritrovano rinchiuse in territorio italiano, mettendo così in evidenza la continuità del sistema concentrazionario creato dall’Europa: il loro grido di esultanza “libertà, libertà” una volta scese dalla “Mare Jonio” è stato spezzato subito, ma non c’erano più le telecamere a documentarlo.

 

Capitalismo globale, Impero, supremazia bianca: la strage delle moschee in prospettiva

 

Di Piper Tompkins

Tradotto da:

https://rageagainstcapital.blogspot.com/2019/03/global-capitalism-empire-white.html

Durante la scrittura di questo articolo, la notte scorsa, due moschee neozelandesi sono state attaccate da un commando nazionalista bianco formato da quattro persone equipaggiate con armi da fuoco e ordigni esplosivi. L’attacco è stato brutale, 49 persone sono state uccise e altre ferite [il bilancio delle vittime è salito a 50, NdR], un uomo che è stato intervistato da ABC News si era sporcato con schizzi di sangue mentre si nascondeva. Gli uomini armati hanno trasmesso in streaming su internet il loro attacco. Anche i media mainstream stanno inserendo questo attacco nel contesto più ampio delle azioni dei suprematisti bianchi, ABC riferisce che l’FBI (la stessa agenzia che partecipava alle campagne negli Stati Uniti per reprimere i movimenti di liberazione delle persone di colore) afferma che i crimini di odio sono saliti negli Stati Uniti del 17% solo nel 2017. L’agenzia riferisce anche che “gli esperti di antiterrorismo” sono a conoscenza che il 70% degli attacchi terroristici nel paese nell’ultimo decennio è stato effettuato da suprematisti bianchi, o dall’estrema destra (a Sam Harris [filosofo e saggista americano noto per le sue posizioni islamofobiche simili a quelle di Oriana Fallaci, NdR]gli deve girare la testa…). Sfortunatamente, la narrazione dei media mainstream non è innocente. Mentre ABC mostra chiaramente che l’affermazione del Presidente Trump che la supremazia bianca è solo un problema che riguarda pochi elementi sia evidentemente falsa, non riesce ad inquadrare il contesto più ampio. Nella narrazione dell’ABC la supremazia bianca è vista semplicemente come un crescendo di odio, piuttosto che come un evidente strumento utilizzato dal sistema politico-economico globale.

Il razzismo non è semplicemente un atteggiamento o un bigottismo. È nato come un sistema di controllo sociale e rimane tale. È una gerarchia sociale che conferisce potere sociale, politico ed economico a coloro che soddisfano uno standard socialmente costruito di “bianchezza” e distingue questo potere dalle persone di colore basate su criteri socialmente costruiti che li dipingono come “gli altri”. Il razzismo ha la sua genesi nel momento storico in cui l’economia capitalista, espandendosi fuori dall’Europa, ha visto coloro che oggi sono considerati “bianchi” conquistare le terre della gente di colore, riducendo queste società a colonie per lo sfruttamento economico e il completo controllo culturale e politico. Questo processo ha sempre comportato lo sterminio di vaste aree di popolazioni indigene e la schiavitù di persone di colore come fonte di lavoro. Per giustificare questo dominio i colonizzatori si sono inventati una pseudo-identità, la bianchezza, in cui erano classificati al di sopra della gente di colore in termini di valore umano. Il bianco era completamente umano, ma quelli di colore non lo erano, erano qualcos’altro, qualcosa di diverso, il che significava che trattarli in modo diverso era giustificato. Sebbene il colonialismo formale sia stato abolito dopo la seconda guerra mondiale, il colonialismo rimane un sistema di potere. I vecchi stati colonialisti sono ora paesi economicamente e geopoliticamente potenti, mentre le ex colonie, anche se ora hanno status di nazioni indipendenti, sono completamente subordinate geopoliticamente ed economicamente. Il colonialismo formale creò una situazione in cui i paesi “centrali” potevano diventare così economicamente e geopoliticamente potenti che la politica globale e l’economia globale avrebbero sempre messo in secondo piano le ex colonie “periferiche” o semi-periferiche.

Così come il colonialismo anche il razzismo permane nelle moderne società occidentali, questa volta sotto il velo dell’armonia post-razziale. È evidente che i bianchi controllano la grande quantità di ricchezza e potere, è conclamato che lo stato criminalizza le persone di colore, palese che le persone di colore sono ancora viste come essenzialmente diverse dai bianchi, ma è scortese esprimere apertamente opinioni razziste in pubblico. Quindi il velo ideologico del progresso (piuttosto che la sua effettiva esistenza in molti casi) sovrasta la realtà della supremazia bianca nel XXI secolo. Una delle forme più acute di razzismo oggi è l’islamofobia. Quando questa frase viene pronunciata molti rispondono che “l’Islam è una religione, non una razza, anche i non arabi possono essere musulmani!”. Tutto ciò significa ignorare la razzializzazione dell’Islam in Occidente. Dal’11 settembre 2001 l’immagine del “Musulmano terrorista arabo” è stata costruita dagli Stati Uniti e da molte altre società occidentali. Abbiamo persino interpretato gli arabi come personaggi ombrosi, senza scrupoli e pure stupidi nei nostri film molto prima degli eventi del 2001.

La ragione per cui il nazionalismo bianco è in aumento e il motivo per cui i suoi esponenti dirigono il loro odio verso i musulmani è perché il sistema in cui vivono è razzista. Senza volere discolpare individui che scelgono deliberatamente di danneggiare altri, è impossibile per un sistema razzista non produrre violenti razzisti. Gli Stati Uniti e l’impero occidentale hanno usato l’islamofobia per demolire i paesi del Medio Oriente, accumulare risorse e quindi mantenere il potere globale e la superiorità economica per oltre 20 anni. I crimini di odio contro i musulmani sono aumentati negli Stati Uniti dal’11 settembre 2001 e il governo ha persino arrestato, detenuto e deportato i musulmani su basi islamofobiche. Mentre i nazionalisti bianchi sono davvero nostri nemici, sono pure dei soldati semplici al servizio di un padrone più grande. Dovremmo ricordare che gli uomini armati delle recenti sparatorie hanno acclamato il Presidente Trump come un pilastro della “identità bianca”: il presidente degli Stati Uniti, la più potente agenzia politica del capitalismo. Il colonialismo, e la sua incarnazione moderna, il neocolonialismo, e quindi il razzismo stesso, sono meccanismi del sistema capitalista.

Il colonialismo formale diffuse il capitalismo in tutto il mondo, usando il razzismo come giustificazione ideologica, e il neocolonialismo tiene insieme l’ordine mondiale capitalista moderno, ancora una volta, usando il razzismo per raggiungere questo obiettivo. Finché non porremo fine al razzismo, al colonialismo e al capitalismo globale, ci saranno ancora orrende violenze come questa. Il capitalismo multiculturale è essenzialmente un ossimoro perché il capitalismo richiede che il lavoro venga sfruttato per produrre sempre più profitti, sarà sempre così, come ha sempre significato che alcuni gruppi dominino gli altri. Il mondo che dobbiamo creare è un mondo senza categorizzazioni razziali, senza “bianchezza”, senza colonialismo e senza capitalismo. Un mondo in cui le persone si incontrano come uguali per organizzare in modo cooperativo la produzione, la distribuzione e le questioni sociali. Un modo cruciale per lavorare verso un tale mondo è difendere gli emarginati qui e ora. Le comunità devono venire in difesa delle persone di colore, sviluppare una lotta sociale dove le persone di colore possono esercitare l’autonomia nell’affrontare le loro preoccupazioni, e un’organizzazione militante che può difendere le comunità di colore dalla violenza razzista. La rivoluzione sociale per una società giusta e la resistenza contro il nazionalismo bianco iniziano con te.

Bibliografia:

https://www.youtube.com/watch?v=Ho1VqjRKvso

Colonization and Decolonization, Zig Zag

Reel Bad Arabs, Sut Jhally, Jeremy Earp, Jack Shaheen, 2006

https://www.youtube.com/watch?v=4A3DQODh-oc

The Rise of the States-System: Sovereign Nation-States, Colonies, and the Interstate System, Immanuel Wallerstein

 

 

8 marzo, da una prospettiva decoloniale

La decolonialità non può essere l’ennesima retorica che ci dia una nicchia all’interno dei femminismi occidentalocentrici, un’identità che completi la ‘diversità’ di quel femminismo.

Di Salma Amzian e Natali Jesús

All’interno delle genealogie delle diverse comunità razzializzate esistono molte donne che hanno analizzato l’intreccio delle loro oppressioni, individuando come ostacolo la modernità occidentale e il suo falso universalismo. Quest’ultimo cerca costantemente e in forme sempre nuove di produrre astrazioni e essenzialismi per mantenere l’invisibilizzazione dei/delle disumanizzate della terra. Queste donne hanno riconosciuto rapidamente, in diversi linguaggi, la complessità delle oppressioni contro cui dovevano lottare; senza utilizzare i termini odierni la loro lotta era contro la colonizzazione dei propri corpi, delle loro menti, dei loro popoli e territori.

Violenza razzista istituzionale derivata dalla Ley de Extranjería

La ley de extranjería legittima il razzismo istituzionale e controlla i processi di regolarizzazione, ma soprattutto quelli di irregolarizzazione e di esclusione sociale delle comunità ‘altre’, non spagnole e bianche.

Nel contesto spagnolo Fatiha El Mouali, economista, ricercatrice e attivista antirazzista ha denunciato l’insieme di violenza istituzionale, economica e politica derivate dalla Ley de Extranjería che subiscono le donne marocchine migrate nello Stato spagnolo. Questa legge “subordina la situazione legale delle donne migranti marocchine (e tutte quelle provenienti dalle ex-colonie) alla situazione del marito, nel caso in cui per esempio una donna stia entrando nel paese per ricongiunzione familiare o abbia ottenuto i documenti sposandosi; ecco perché il sistema di controllo migratorio opera con una logica contemporaneamente razzista e patriarcale”.

Fatiha racconta che “veniamo in contatto con un numero molto alto di casi di ‘irregolarità sopraggiunta’, come la chiamano loro, che sarebbe il caso ad esempio di donne che non possono rinnovare i documenti perché il loro marito non l’ha potuto fare. E ciò generalmente succede perché sono disoccupati. Abbiamo anche casi di famiglie che non possono rinnovare perché hanno cambiato casa e la loro abitazione attuale non soddisfa le misure che lo Stato esige per regolarizzarti. La legge stessa crea queste violenze e la struttura che le riproduce e qui entrano in gioco tutte le politiche di immigrazione”.

Nel caso delle donne marocchine, Fatiha raccoglie molte storie, con questioni e posizioni molto diverse, e ciascuna ha a che vedere con la ley de estranjería e con le sue conseguenze dirette o indirette. La logica sottostante a tutte queste situazioni è collegata a ciò che chiamiamo colonialità, ovvero con il mantenere i soggetti provenienti dalle ex-colonie al di sotto della linea dell’umano; si creano vite usa e getta come quella del ‘moro disoccupato’. Tutto ciò si ripercuote nella costruzione della donna ‘mora’ alla quale concediamo documenti solo in qualità di “moglie di” un uomo usa e getta. Il sistema relega la donna marocchina a un ruolo esclusivamente di cura, mentre la costruisce come sottomessa e inutile proprio per il fatto di svolgere quel ruolo. L’apparato ideologico che mantiene quest’ordine perverso è stato e continua a essere analizzato anche nel nostro contesto, per chi lo voglia leggere/ascoltare.

Questa violenza razziale istituzionale fatta di effetti quotidiani, materiali, è prodotta in prima istanza dai/dalle lavoratrici delle istituzioni deputate a controllare, soccorrere, aiutare, integrare le donne razzializzate/migranti. L’intervento sociale è uno strumento dello stato razzista per controllare le popolazioni non bianche.

“Un femminismo per tutte le donne” e la questione del razzismo

“Non siamo noi a dividere i movimenti, è che i movimenti stessi sono nati divisi e frazionati per le nostre realtà e necessità. Questo ha ritardato soluzioni più radicali alla nostra problematica perché abbiamo perso molto tempo delegittimandoci l’un l’alto e facendo a gara per chi avesse la ragione storica”
Aura Cumes

La sinistra bianca inizia a parlare sempre più di razzismo, anche se fatica a comprendere gli effetti reali dell’esistenza delle razze sociali e la violenza strutturale del razzismo di stato nei confronti delle comunità razzializzate e immigrate. Con il femminismo bianco succede la stessa cosa. I femminismi bianchi perpetuano l’essenzializzazione della donna e depoliticizzano gli interessi specifici della liberazione delle donne razzializzate e immigrate.

La categoria di donna come genere è già di per sé un termine coloniale. Lo hanno fatto presente diverse pensatrici come Oyeronke Oyewumi, la quale ha mostrato che anche le femministe “hanno camminato su un sentiero imperiale, aperto dal colonialismo e dal razzismo. Invece di essere coscienti del proprio vantaggio razziale si comportano come se la questione riguardasse l’evoluzione della propria cultura e per questo pretendono di civilizzare e salvare le donne africane”.

Chela Sandoval segnala che le donne razzializzate, a causa dell’oppressione di classe, genere, per la loro cultura, ma soprattutto per la razza, percepiscono che si possa loro negare l’accesso a una categoria di genere legittimata come quella della donna. Queste riflessioni contraddicono l’unità che le femministe bianche cercano erroneamente, così come la costruzione costante dell’omogeneizzazione; si focalizzano in un’oppressione come donne e dissidenti sessuali ma ignorano la differenza di razza, spesso coprendola con termini come sorellanza. Su questo ci avvertiva Audre Lorde mettendo in evidenza come “ignorare le differenze di razza tra donne e le implicazioni di queste differenze rappresenta la minaccia più grave alla mobilitazione comune”. Ci sarebbe da chiedersi se basti riconoscere le differenze per impegnarsi in una lotta decoloniale di donne.

Anche se negli ultimi anni abbiamo osservato un interesse nell’individuare le differenze – anche facendo un uso ‘sbiancato’ dell’intersezionalità – le richieste delle donne razzializzate si sono trasformate in un insieme senza importanza, in qualcosa di secondario. Inoltre lo pseudo riconoscimento delle differenze, il discorso dell’inclusione di donne razzializzate e migranti e la strumentalizzazione dell’intersezionalità hanno generato una specie di legittimità della sinistra bianca, mentre le nostre rivendicazioni sembrano essere una costante interferenza per il movimento ‘unificato’ delle donne bianche.

Le donne provenienti dall’immigrazione post-coloniale e le donne razzializzate nello stato spagnolo si trovano in una situazione molto specifica dinanzi alla violenza strutturale del sistema razzista e patriarcale. Non possiamo dimenticare ciò dice che Aura Cumer, pensatrice maya Kaqchikel: “fu sempre la colonizzazione ad avvicinare le donne bianche agli uomini per mezzo di un patto razziale, perché sebbene li divide la differenza di genere, li unisce il privilegio di razza”. In questo contesto mettiamo perciò in discussione l’alleanza ‘naturalizzata’ con le donne bianche, mentre vogliamo imparare dai femminismi neri e terzomondisti, che si allearono per i propri posizionamenti politici affini in merito all’oppressione di razza e che hanno costruito la propria coalizione attraverso impegni continui.

La disparità coloniale e l’oppressione razziale insinuano che la nostra liberazione causerebbe anche la perdita di potere delle donne bianche. Invece sono loro che devono rompere quel patto tacito con un sistema coloniale e uno Stato razzista, dominato dagli interessi capitalisti e imperialisti di cui hanno storicamente beneficiato e farla finita con queste logiche coloniali di lotta all’interno dello stato nazione. E unirsi invece a un reale progetto antisistemico, perché questo sistema perpetua la distruzione di ogni vita, di altre forme di sapere e di stare al mondo.

Nello stato spagnolo il femminismo bianco eurocentrico non ha smesso di agire. Il razzismo esercitato anche dalle femministe ha associato le donne razzializzate e immigrate a un patriarcato meno civilizzato, più volgare: conseguentemente siamo state inferiorizzate da un immaginario coloniale e civilizzatore. In questo contesto le donne razzializzate hanno esperienze comuni e sono capaci di sfidare e comprendere l’intero sistema strutturale oppressivo dello Stato in una dialettica con i propri fratelli e padri. La nostra voce è vitale, nel senso più letterale possibile.

Una prassi femminista decoloniale dall’Europa?

Arrivate a questo punto serve domandarsi: quale approccio abbiamo, qui e ora, noi donne migranti/razzializzate?

In generale ci troviamo a chiedere quote di rappresentazione all’interno del femminismo bianco e delle sue organizzazioni. Stiamo cioè colorando le narrative di liberazione moderna, legittimando la colonialità; o meglio, sperando che i movimenti di donne bianche con le loro narrazioni vogliano inserire nella loro agenda le nostre esperienze e richieste; riproducendo e legittimando l’assistenzialismo, assumendo e invisibilizzando il razzismo; aspettando che la femminista bianca di turno ci dia il permesso di portare l’hijab, di vivere le nostre vite, che trovi un modo di modellare le nostre esperienze di oppressione ai suoi schemi. Quando ci dicono che c’è posto per noi, chi stanno lasciando fuori o in cosa ci hanno trasformato? Stiamo forse cercando un riconoscimento individuale, elemosinando l’approvazione del/della bianco/a? Coinvolte in questa dinamica continuiamo ad alimentare la fascinazione per il/la bianco/a pretendendo di apparire astrattamente nei discorsi e nei progetti di emancipazione costruiti senza di noi e quindi contro di noi. Chiedere quote di rappresentazione si è già dimostrato inutile.

La domanda per noi è: per cosa lottiamo nel contesto spagnolo? Come ci organizziamo politicamente e strategicamente contro le oppressioni sistemiche che ci riguardano? Sicuramente non ci aspettiamo di trasformarci in qualche versione della donna bianca, né ancor meno dell’uomo bianco dominante. Il femminismo bianco esige che lo rendiamo compatibile con le nostre lotte antirazziste, di genere misto o non misto. Ciò che non possiamo permetterci a questo punto è imitare i metodi di liberazione femminista occidentalocentrici.

Rompere col processo di integrazione come pratica politica antirazzista comporta anche che mettiamo in discussione le forme di liberazione che abbiamo interiorizzato.

Un altro aspetto importante è trovare una strategia politica per lottare come donne razzializzate e migranti. Houria Bouteldja sottolinea l’importanza di comprendere bene contro quale egemonia lottiamo, e da dove origina la violenza. Non possiamo agire dalla stessa posizione di enunciazione delle donne bianche. Attraverso un’analisi più materialista e tenendo presente che sebbene le donne bianche sono vittime di violenza sono anche loro a livello strutturale quelle che opprimono il resto del mondo, comprese altre donne.

Nella lotta per un antirazzismo politico dobbiamo intendere il razzismo, il sessismo, le pratiche del capitalismo razziale e quelle imperialiste dello Stato come gerarchie collegate tra loro. D’altro canto se la sinistra bianca non lo capisce non potrà nemmeno comprendere come si costruiscono i discorsi delle donne razzializzate – né delle loro comunità o popoli colonizzati – dai quali nascono i loro movimenti. Se realmente lottiamo per una liberazione dobbiamo finirla con la fascinazione per l’occidente, che ancora ci lega a quelle narrazioni eurocentriche, e per il sistema fondato dall’uomo bianco attraverso la colonizzazione. Non è questo ciò che ci insegnano le nostre genealogie?

Ripensare l’eurocentrismo che struttura molti dei nostri spazi di lotta, così come rompere il silenzio, sono atti decoloniali. Dobbiamo abbandonare, se la nostra azione vuole essere davvero decoloniale, le pratiche che ci conducono solo a colorare la modernità, e che hanno come risultato soltanto la sua legittimazione e radicazione. Non dimentichiamoci che non siamo soltanto donne razzializzate.

Viviamo in una geografia europea e pertanto beneficiamo di questa civiltà di morte, liberale e imperialista, che si fonda e si rigenera sulla dominazione e sullo sfruttamento dei popoli del Sud – delle sue donne, dei suoi uomini, dei suoi bambini e bambine – e abbiamo una responsabilità nei confronti dei nostri popoli di origine.

La nostra critica è più complessa perché è la colonialità a ucciderci. Un progetto decoloniale in relazione alla lotta delle donne deve sviluppare un’altra politica e un’altra metodologia di liberazione. Dobbiamo riconoscere quando la nostra pratica politica si rende funzionale ai movimenti nati in seno alla modernità occidentale, quando si rende funzionale insomma alla colonialità.

La decolonialità non può essere un’ulteriore retorica che ci conceda una nicchia all’interno dei femminismi occidentalocentrici, un’identità che completi la ‘diversità’ di quel femminismo. Se ci sentiamo a nostro agio con quelle posizioni, tanto vale essere sincere con noi stesse e coi movimenti di uomini e donne del Sud che stanno costruendo alternative reali a questa civiltà di morte e smetterla di ‘sbiancare’ le loro lotte, i loro discorsi, le loro epistemologie.

Abbiamo grossi dubbi che il fine della decolonialità nata in quei territori serva a che noi, donne razzializzate che viviamo a Nord, possiamo inserirci meglio negli spazi bianchi.

Frasi come “io sciopero per quelle che non possono, per le migranti precarie senza documenti” per le nostre madri che non hanno letto i manifesti dello sciopero perché non sanno leggere e scrivere, per le nostre sorelle che non scioperano perché nessuna le ha invitate né le aspetta. Andare noi, dalle nostre posizioni di privilegio nei loro confronti, significa celebrare quel privilegio. Ancora di più quando, come sappiamo, lo sciopero è una strategia di lotta di uno spazio politico che non pensa da (né pensa a) le esperienze di quelle (nostre) donne. Noi che per la maggior parte non siamo più in quella situazione (anche se le nostre famiglie e amiche si) decidiamo di andare a quello sciopero per loro in un esercizio di universalizzazione delle strategie femministe bianche reinventate e relegittimate sui nostri corpi e nelle nostre pratiche, stavolta col nostro beneplacito. Smettiamo di celebrare la colonialità?

Fonte: https://www.elsaltodiario.com/1492/8m-perspectiva-decolonial