Dopo aver passato qualche decina di minuti su Twitter mi sono reso conto di aver letto ancora una volta il solito profluvio incessante di: foto di raffinati piatti a base di carne e pesce pronti per essere mangiati, battutine simpatiche contro i vegani, battute più esplicite tipo gente in posa davanti alla grigliata con il meme “in culo ai vegani”, polemiche politiche contro la giunta comunale grillina che avrebbe “imposto” nel menù di una mensa scolastica nientedimeno che un pericoloso piatto vegano una volta al mese. Tutto ciò viene postato ogni giorno anche da gente di sinistra, colta e progressista, tutte persone con le quali si condividono molte cose riguardo altre questioni, principi o scelte politiche. Mi è venuta la curiosità, per staccare da questo petulante ritornello, di rileggere il celebre racconto di David Foster Wallace “Considera l’aragosta”. Faccio un breve riassunto del bellissimo scritto di DFW. Lo scrittore americano viene inviato dalla rivista culinaria “Gourmet” a scrivere un reportage sul Festival dell’aragosta del Maine nel 2003. Il risultato del report di Wallace, sebbene parta da una richiesta piuttosto semplice, ovvero indagare alcuni aspetti sociali e di costume nell’ambito di una manifestazione turistica tipicamente americana, esonda massicciamente dal compitino richiesto dal giornale e diventa un classico sia della letteratura che della riflessione animalista. Il punto di partenza di Wallace è molto aperto e dubitativo, infatti più volte nel racconto l’autore si smarca dall’attivismo animalista della PETA (People for Ethical treatment of Animals) e da posizioni già precostituite sull’argomento. Nonostante questo atteggiamento di partenza, espresso con un tono conciliante e ragionevole, Wallace scrive una requisitoria che a distanza di anni resta ancora intatta con tutte le domande conclusive aperte e le questioni di fondo irrisolte. “Nella pratica, sappiamo tutti cos’è un’aragosta. Come al solito, però, c’è molto più da sapere di quanto possa interessare alla maggior parte di noi – è solo una questione di quali sono i nostri interessi”. Le aragoste sono degli enormi insetti marini con cinque paia di zampe, fino all’Ottocento erano un cibo proteico rivolto al consumo dei ceti bassi e venivano cucinate morte e conservate sotto sale. Oggi l’aragosta viene ritenuta un cibo prelibato, simile al caviale, un cibo estivo: l’aragosta appena pescata ha una polpa molto nutriente e gustosa, il metodo comune per essere cucinata è dunque bollirla viva. “Un dettaglio così ovvio che le ricette quasi mai lo menzionano è che le aragoste devono essere vive quando le mettete in pentola”. Questo dettaglio apre la riflessione morale di Wallace, una riflessione tanto sui generis per essere stata scritta sulle colonne di una rivista gastronomica quanto penetrante, attuale e di rilievo etico generalizzabile. “Ed ecco allora una domanda quasi inevitabile di fronte alla Pentola per aragoste più grande del mondo, domanda che potrebbe sorgere in varie cucine degli Stati Uniti: è giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?”. La domanda rimane aperta, anche dopo quattordici anni da quando è stata posta da DFW. Il racconto continua descrivendo lo straziante tentativo degli animali di uscire dalla pentola, aggrappandosi disperatamente e vanamente con le chele sui bordi: l’aragosta agisce come se stesse provando un dolore terribile, ed è ragionevolmente vero che questo strazio sia una cosa molto seria e reale per il crostaceo, poiché esso possiede una quantità sufficiente di struttura neurologica necessaria all’esperienza del dolore (nocicettori, prostaglandine, recettori oppioidi neuronali etc.) e per di più si comporta proprio come se volesse evitare questo dolore. Le aragoste, inoltre, sono sprovviste degli analgesici in dotazione nei sistemi nervosi dei mammiferi, quindi dovrebbero essere soggette in maniera ancora più atroce al dolore conseguente alla morte per bollitura. Alla fine del reportage, David Foster Wallace si dichiara più che altro confuso e curioso e chiede ai lettori della rivista “Gourmet” quali siano le loro sensazioni a riguardo: “Pensate molto allo status morale (possibile) e alla sofferenza (probabile) degli animali coinvolti? Se sì, quali convinzioni etiche avete trovato che vi permettono non solo di mangiare ma di assaporare e godervi vivande a base di carne (dato che naturalmente è il godimento raffinato, e non la mera ingestione, il punto fondamentale della gastronomia)?”. Siamo arrivati al punto di domanda finale del ragionamento di DFW, quello riguardante le implicazioni etiche e morali del mangiare animali per il proprio godimento personale, se debba essere solo una questione sensoriale, di gusto e non anche di empatia ed etica. La stessa domanda, come dicevo in precedenza, si ripropone quando ci troviamo di fronte a tanti compagni che postano ogni giorno le foto di animali uccisi, bolliti, fritti, impanati, pronti per essere mangiati per il proprio godimento raffinato e per essere condivisi sulle tavole e sulle bacheche dei social network.
Lino Caetani