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Salerno – Un altro suicidio di stato

Riceviamo e pubblichiamo.

Aziz Alhini, trentasettenne marocchino, era agli arresti domiciliari presso la “Domus Misericordiae”, struttura gestita dalla Caritas e sita a Salerno nella frazione collinare di Brignano, quando si è tolto la vita.
La sua storia è stata segnata da un clamoroso errore giudiziario: il 14 febbraio del 2016 Alhini viene denunciato per il furto di un portafogli (in seguito ritrovato) e condannato alla pena di tre anni di carcere, che inizia a scontare presso la casa circondariale di Fuorni a Salerno per poi proseguirla agli arresti domiciliari a Brignano, essendo senza fissa dimora. Alhini avrebbe finito di scontare la pena il 13 gennaio 2019, ma gli viene comunicato che avrebbe dovuto presentarsi in Questura perché sarebbero state avviate le procedure di espulsione. Dopo una condanna che viveva come un’ingiustizia e il carcere, sarebbe stato quindi deportato in Marocco. Così arriviamo alla tragica decisione di Alhini di togliersi la vita la notte di Natale.

Decine di migliaia di persone sono etichettate dalle leggi italiane come “irregolari”, sono costrette a vivere ai margini e in modi considerati sempre “illegali”: trovarsi un tetto in un edificio abbandonato, costruirsi un riparo, chiedere l’elemosina, lavorare in nero, rubare per sopravvivere. A guardia della società che li ha resi irregolari per meglio dominare e sfruttare, c’è il carcere, il CPR e la minaccia della deportazione. E così nelle stesse 24 ore si viene arrestati come Jabre e Boundaung per aver preso della legna in un bosco per costruirsi una capanna nella baraccopoli di San Ferdinando, si muore suicidi come Aziz Alhini, si muore assiderati come il 36enne marocchino Nassid Fouad, sotto una tettoia all’ex scalo merci alla stazione di Montebelluna, o travolti da un tir al quale si era aggrappato, come il giovane afgano, del quale non si conosce il nome, nella zona del porto di Ancona.

Tutto questo ha dei responsabili ben precisi e noti, gli stessi che garantiscono lo sfruttamento e l’apartheid, incarcerano e costruiscono lager, deportano e rendono un inferno la vita di tante persone migranti, le stesse istituzioni responsabili delle stragi nel Mediterraneo e della chiusura delle frontiere. Per ricordare Aziz e tantx come lui che sono finitx in questo circuito repressivo rinnoviamo l’invito a costruire e rafforzare sempre di più la solidarietà con le lotte che le persone migranti portano avanti ogni giorno dentro i lager, nei centri di accoglienza, nelle nostre città e nelle campagne.

laboratoria no confini

Come possiamo conciliare l’abolizione delle galere con il #MeToo?

In Italia il movimento femminista ci sembra non abbia attualmente una forte connessione con la lotta anti-carceraria. Per questo motivo vorremmo iniziare una ricerca e un confronto a partire dalla traduzione di questo articolo che spiega quali sono legami e risultati dell’intersezione tra femminismo e movimento abolizionista negli USA e perché le due lotte siano inscindibili. Abbiamo mantenuto il termine “abolizionismo” anche se in italia esso è perlopiù associato a movimenti istituzionalizzati, singoli o associazioni che aspirano all’eliminazione del carcere promuovendo però riforme consistenti in misure alternative alla detenzione. In questo testo, invece, con abolizionismo s’intende il rifiuto del carcere e della società carceraria, dunque una critica radicale all’esistente, posizione affine a quella di noi compagnx.

Tradotto da: https://filtermag.org/2018/09/25/how-can-we-reconcile-prison-abolition-with-metoo/

di Victoria Law

“Chiediamo ai movimenti di giustizia sociale di sviluppare strategie e analisi che affrontino sia la violenza dello stato che quella interpersonale, in particolare la violenza contro le donne. Attualmente, gli attivisti / movimenti che lottano contro la violenza dello stato (come i gruppi anticarcerari e contro la brutalità della polizia) spesso agiscono in isolamento da attivisti / movimenti che si occupano di violenza domestica e sessuale”. Queste parole furono scritte nel 2001 dall’organizzazione per l’abolizione della prigione, Critical Resistance e INCITE! Women of Colour Against Violence. [1] Gli ultimi 17 anni hanno visto un aumento dei gruppi e coordinamenti per l’abolizione delle carceri. In netto contrasto con i sostenitori della riforma carceraria, che spingono per migliorare le condizioni carcerarie ma ritengono che le carceri siano in definitiva necessarie per la sicurezza sociale, gli abolizionisti accusano le carceri stesse di essere luoghi di violenza tali da non poter mai essere adeguatamente riformate. Invece, le prigioni devono essere eliminate; così anche le condizioni che mandano le persone in prigione, incluse il razzismo, la povertà e le cause alla radice della violenza. In molte analisi sull’abolizione del carcere, tuttavia, si fa notare per la sua assenza un discorso su come affrontare la violenza di genere senza fare affidamento sulla polizia e le carceri. Allo stesso tempo, molte delle più importanti organizzazioni e movimenti che combattono la violenza domestica e sessuale continuano a fare affidamento su polizia e prigioni. All’indomani della condanna a sei mesi di carcere inflitta a Brock Turner, lo studente bianco di Stanford condannato per aver aggredito sessualmente una donna incosciente, gruppi femministi e attiviste hanno espresso indignazione per la brevità della condanna e chiesto la rimozione del giudice. “Punizioni più severe e condanne più lunghe sono sempre cadute più duramente sulle persone e le comunità di colore -devastandole-, pur fornendo poca sicurezza o prevenzione dalla violenza di genere”. Questo fare affidamento sulla criminalizzazione rafforza la violenza di stato, che non è solo perpetrata in modo schiacciate su uomini neri e marroni e poveri, ma sostiene anche un sistema che punisce le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone dal genere non conforme e intersessuali, anche quando loro stesse sono vittime della violenza. Abbiamo visto questo nel caso di Marissa Alexander, la donna che in Florida era stata inizialmente condannata a 20 anni di carcere dopo aver sparato un colpo di avvertimento per fermare l’aggressione del marito violento. Lo abbiamo visto nel caso di Ky Peterson, un uomo trans nero che sta scontando una pena detentiva di 20 anni dopo aver ucciso a morte l’uomo che lo aveva violentato.

Come siamo arrivate a questa divisione?

Nel 1994, il Congresso approvò il Violence Against Women Act (VAWA), che spinse la polizia a rispondere alle denunce di violenza domestica, violenza sessuale e altre violenze di genere. L’atto fu il risultato di anni di cause legali e di organizzazione da parte di molte femministe per costringere le forze dell’ordine a rispondere alla violenza di genere piuttosto che liquidarla come una questione interpersonale. In molte giurisdizioni, VAWA ha portato a leggi di arresto obbligatorie e a condanne detentive più punitive. Ha inoltre portato a politiche come i doppi arresti, in cui la polizia ha arrestato entrambe le persone. Alcune giurisdizioni condannano le vittime come testimoni materiali o impongono multe e minacciano una sopravvissuta con l’arresto se non coopera con l’accusa. (La città di Columbus, in Georgia, ha cambiato la sua politica di multe e arresti per la mancata cooperazione dopo una causa intentata da una sopravvissuta a un abuso, Cleopatra Harrison, e dal Southern Centre for Human Rights.) Il femminismo carcerario è il termine usato spesso per descrivere questo affidamento su un rafforzamento del controllo poliziesco, del perseguimento e della reclusione come soluzione primaria alla violenza di genere. In linea di massima, il femminismo carcerario considera le soluzioni alla violenza di genere attraverso la lente della classe media bianca, che ignora i modi in cui identità intersecanti, come razza, classe, identità di genere e status di immigrazione, rendono certe donne più vulnerabili alla violenza, inclusa la violenza di stato. Allo stesso tempo, l’incarcerazione delle donne è salita alle stelle. Nel 1980, le carceri e le prigioni della nazione detenevano 25.450 donne; 10 anni dopo, quel numero era quasi triplicato a 77.762. Nel 2000, quel numero era raddoppiato di nuovo a 156.044 e continua a crescere. A partire dal 2017, le prigioni e le carceri detengono 209.000 donne. (Questi numeri non includono donne detenute nelle prigioni per immigrate o nelle carceri minorili, o donne trans carceri maschili). Almeno la metà delle donne incarcerate ha denunciato violenze ancora prima dell’arresto. È anche vero che quasi il 90% delle persone incarcerate sono uomini (o identificati come uomini). Ma non tutte le attiviste femministe e anti-violenza adottano una soluzione carceraria. Per anni, attivisti e organizzazioni anti-violenza, come Beth Richie e INCITE! hanno sostenuto che l’aumento della criminalizzazione sostituisce l’abuso di un individuo con l’abuso da parte di forze dell’ordine, tribunali e prigioni mentre non fa nulla per affrontare le cause alla radice della violenza contro le donne. Lo abbiamo visto con Marisa Alexander, Ky Peterson e innumerevoli altre donne e persone transessuali. Nessuno sa quante migliaia di sopravvissute siano finite dietro le sbarre dopo che le forze dell’ordine non sono riuscite a garantire la loro sicurezza. Questo perché nessuna agenzia tiene traccia di questi dati. Le statistiche più recenti hanno quasi 20 anni, da un rapporto del Dipartimento di Giustizia del 1999 che affermava che quasi la metà delle donne nelle prigioni locali e nelle prigioni di stato erano state vittime di abusi prima del loro arresto. Ma, poiché le donne costituiscono circa il 10% della popolazione carceraria della nazione, molte delle analisi sull’incarcerazione di massa e sull’abolizione della prigione continuano a concentrarsi sugli uomini, un obiettivo che porta a un falso binario in cui gli uomini sono incarcerati e le donne sono vittime. È una divisione che esclude le persone (di qualsiasi genere) colpite sia dalla violenza interpersonale che da quella statale, e quindi non riesce a soddisfare i loro bisogni. Ho intervistato numerose sopravvissute alla violenza domestica imprigionate per essersi difese. Ancora e ancora, mi hanno detto che si sono rivolte alla polizia e al sistema legale, ed entrambi non sono riusciti a proteggerle. Forse la polizia ha portato via il loro aggressore per alcuni giorni, ma ciò non ha fermato la violenza. Forse i tribunali hanno emesso un ordine di protezione, un pezzo di carta che il loro abusatore ignorava in modo flagrante. Forse la polizia non ha fatto nulla. Forse il loro aggressore era la polizia. Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggerle le ha poi punite per essere sopravvissute. In carcere, molte donne sono soggette a violenza, per mano di altre persone detenute, membri dello staff o per la stessa quotidianità carceraria. Allo stesso tempo, le organizzazioni per l’abolizione delle carceri continuano a riflettere l’incapacità della intera società di considerare i cambiamenti sociali e culturali come necessari per porre fine alla violenza di genere o sviluppare modi concreti per prevenire e affrontare la violenza domestica e sessuale nella vita quotidiana. “I due (piani, violenza di genere e violenza di stato ndr) non parlano davvero insieme”, dice Hyejin Shim. Shim lavora alle intersezioni tra violenza di genere e dello stato, sia come membro dello staff dell’Asian Women’s Shelter che come organizzatrice di Survived and Punished, un gruppo di base che sostiene sopravvissute alla violenza di genere criminalizzate e incarcerate. Sebbene gli sforzi per porre fine alla violenza di genere e all’abolizione del carcere siano spesso considerati incompatibili, Shim nota che “entrambi si concentrano sul porre fine alla violenza”, sia che la violenza provenga da un individuo, dallo stato o da entrambi.

Giustizia trasformativa

Un modo per affrontare la violenza interpersonale senza fare affidamento sulla violenza di stato è attraverso la giustizia trasformativa. La giustizia trasformativa si riferisce a un processo comunitario che affronta non solo i bisogni della persona che l’ha subita, ma anche le condizioni che hanno permesso questa violenza. In altre parole, invece di guardare l’atto (gli atti) di violenza in un contesto vuoto, i processi di giustizia trasformativa chiedono: “Cos’altro deve cambiare in modo che ciò non accada mai più? Che cosa deve accadere perché la sopravvissuta possa guarire?”. Non c’è una serie giusta o errata di passi da seguire nella giustizia trasformativa; invece, ogni processo dipende dalle persone e dalle circostanze. Shim osserva che le persone spesso si impegnano in processi di giustizia trasformativa, anche se non usano quel termine. Si uniscono per sostenere le persone sopravvissute nei loro ambienti, aiutandole a identificare ciò di cui hanno bisogno e come accedervi. Allo stesso tempo, Shim sottolinea che questi tipi di abilità sono spesso sottovalutate nelle cerchie organizzate. “Negli spazi di movimento, potresti avere una preparazione all’azione diretta o un corso di formazione per facilitatori, ma non uno per le capacità di lavorare attraverso i conflitti o sostenere le sopravvissute”, ha osservato. In questo momento #MeToo in cui più persone si fanno avanti con le loro esperienze di violenza sessuale e domestica, “il supporto necessario non c’è realmente o non è stato sviluppato”. Le organizzatrici anti-violenza hanno sviluppato risorse per contribuire a colmare queste lacune. Creative Interventions, un’organizzazione dedicata a fornire “risorse per le persone comuni per porre fine alla violenza”, ha sviluppato una guida online di 608 pagine sulle strategie per fermare la violenza interpersonale. Organizzatrici e sopravvissute agli abusi Ching-In Chen, Jai Dulani e Leah Lakshmi Piepnza-Samarasinha hanno compilato una zine di 111 pagine intitolata “The Revolution Starts at Home” (che più tardi è diventata un libro), che documenta i modi in cui le organizzatrici della giustizia sociale hanno affrontato i responsabili degli abusi. La guida di Creative Interventions, ad esempio, racconta come un centro di comunità culturale coreana di Oakland, in California, ha gestito un assalto sessuale, reso ancora più complicato da fattori interculturali. Nell’estate del 2006, il centro di Oakland ha invitato un insegnante di percussioni dalla Corea del Sud a insegnare in un laboratorio di batteria per una settimana. Una notte, ha aggredito sessualmente una degli studenti. Il centro di Oakland ha gestito il processo attraverso una serie di azioni, iniziando con una telefonata immediata al capo del centro di percussioni in Corea. Anche se “è stato culturalmente difficile per il gruppo coreano-americano fare richieste ai loro maggiori in Corea, tutti hanno deciso che era quello che doveva essere fatto”. Dopo che l’istituto coreano si è assunto la responsabilità e si è scusato, il centro di Oakland ha inviato una lista di richieste, tra cui l’impartizione di corsi di sensibilizzazione sull’assalto sessuale per tutti suoi membri, un impegno a mandare almeno una donna insegnante nei loro futuri scambi negli Stati Uniti, e una richiesta che l’insegnante scenda dalla sua posizione di comando per un periodo iniziale di sei mesi e partecipi alle sessioni di terapia femministe rivolte direttamente all’abuso. L’organizzazione di Oakland ha anche intrapreso azioni da parte sua, tra cui la fornitura di una serie di workshop sulla sensibilizzazione contro gli assalti sessuali per i membri del centro e membri di altri gruppi locali di percussioni, e dedicando il suo prossimo festival al tema della fuoriuscita dalla violenza sessuale. Con il consenso della vittima, i fatti relativi all’incidente sono stati stampati nel programma “come una sfida per la comunità ad assumersi la responsabilità collettiva per porre fine alle condizioni che perpetuano la violenza inclusa la collusione attraverso il silenzio”. La storia è lontana da un finale perfetto; la vittima (come preferiva essere chiamata, piuttosto che “sopravvissuta”) non è più ritornata nel centro culturale; il lungo processo sia di riflessione e di impegno istituzionale “ha indebolito l’energia e lo spirito dell’organizzazione e le amicizie che l’hanno tenuto insieme” e, quando l’insegnante di percussioni è tornato a partecipare ai festival in Corea del Sud, è stato visto con risentimento e sospetto dai visitatori americani coreani. Ma quando Liz, il presidente del centro, ha riflettuto in seguito sulla serie di eventi, ha detto: “Alcune persone ci hanno chiesto in seguito perché non abbiamo chiamato la polizia. Non era nemmeno un pensiero nella mente di nessuno. “Un altro capitolo di “The Revolution Starts at Home” (la fanzine) chiamato “assunzione di rischi: implementare strategie di responsabilità sociale di base” fornisce un altro esempio. Le autrici, un collettivo di donne di colore di Communities Against Rape and Abuse (CARA) – Alisa Bierria, Onion Carrillo, Eboni Colbert, Xandra Ibarra, Theryn Kigvamasud’Vashti e Shale Maulanaauthor – descrivono una serie di azioni intraprese da membri di un’alternativa comunità punk per affrontare le aggressioni sessuali di Lou, un uomo impiegato da un club popolare. Le autrici riportano che Lou “spingeva […] le donne a ubriacarsi e poi le costringeva a fare sesso contro la loro volontà”. Nelle loro discussioni su cosa fare, i membri della comunità “non riflettevano solo sulle esperienze dei sopravvissuti, ma anche su come la cultura locale abbia sostenuto un cattivo comportamento. “Ad esempio, il popolare settimanale alternativo spesso ha reso glamour la massiccia quantità di alcolici prevalenti nelle feste di Lou. Con il consenso delle sopravvissute, il gruppo ha progettato volantini che identificavano l’uomo e i suoi comportamenti, ha chiesto l’assunzione di responsabilità, ha criticato il giornale locale e suggerito di boicottare il club. In risposta, il giornale ha pubblicato un articolo in difesa dell’uomo, sottintendendo che, dal momento che le sopravvissute non avevano depositato accuse penali, le loro storie non erano credibili. Lou ha anche minacciato di denunciarle per diffamazione. Ma il gruppo ha continuato, lavorando con le sopravvissute a creare un documento che non solo condividesse le loro esperienze, ma articolasse anche un’analisi critica della violenza sessuale e della cultura dello stupro nella loro comunità e cosa intendessero per responsabilità della comunità. Hanno rilasciato la dichiarazione completa alla stampa e l’hanno pubblicata sul loro sito web, scatenando discussioni nella comunità musicale più ampia sulla violenza sessuale e la responsabilità. Lou ha smesso di essere invitato a feste ed eventi, i locali hanno iniziato a boicottare il club e le band fuori città evitato di suonare lì, spingendo Lou ad accettare di impegnarsi con il gruppo e negoziare un incontro faccia a faccia. Alla fine, comunque, non si è mai preso la responsabilità delle sue azioni. Il gruppo ha inoltre avviato un percorso per saperne di più sulla violenza sessuale, la sicurezza e la responsabilità, imparando a facilitare i propri seminari sulla sicurezza e la responsabilità e supportando il CARA e altre organizzazioni anti-violenza. “È un cambiamento fondamentale decidere di utilizzare le risorse per costruire la comunità che desideri [piuttosto] che spendere tutte le tue risorse combattendo il problema che vuoi eliminare”, hanno scritto gli organizzatori del CARA. Riflettendo di recente su questo scenario, Bierria, ora organizzatrce di Survived and Punished, ha osservato che “si è trattato di una potente contro-risposta a qualcosa di cui di solito non si parla”. Allo stesso tempo, ha sottolineato, “la responsabilità della comunità non è solo un processo di responsabilità. Sta creando condizioni all’interno della comunità che prevengono danni. “Può essere frustrante, ha riconosciuto. “Vogliamo [spesso] una soluzione più diretta. Ma le violenze sessuali e domestiche sono più complicate di così”. Negli ultimi due decenni, lei e altre hanno lavorato alle intersezioni della violenza di genere, della responsabilità della comunità e dell’abolizione del carcere, hanno documentato i loro processi, creando progetti e mappe stradali che lei e altre organizzatrici non avevano 20 anni fa. Questi esempi mostrano che i processi di responsabilità della comunità sono disordinati e raramente seguono un percorso uniforme. Spesso, tuttavia, mescolano e abbinano una serie diversa di strumenti alternativi che includono azioni sia per le organizzazioni che per gli individui. Consulenza per la persona che ha causato danni, rimozione dalle posizioni di comando, ammissione di colpa, scuse pubbliche e / o private, workshop e corsi di formazione e cambiamenti comportamentali specifici sono solo alcune delle richieste che le comunità possono fare. Indipendentemente dalle forme che assumono, continuare a esplorare alternative alla violenza di stato in risposta alla violenza di genere è un elemento essenziale dei movimenti per porre fine a entrambi.

[1] INCITE! has since changed its name to INCITE! Women, Gender Non-Conforming, and Trans people of Color Against Violence

Sulla nostra pelle

Riceviamo e pubblichiamo:

SULLA NOSTRA PELLE: Basta repressione, basta carcere!

Dopo anni di insabbiamenti e depistaggi, la morte di Stefano Cucchi ci ha rivelato, in tutta la sua tragica durezza, una verità che spesso viene sottaciuta: lo Stato uccide, le forze dell’ordine sono responsabili di vari crimini e la struttura repressiva statale, fatta di leggi, tribunali, chiese, psichiatria, carceri e CIE, è la causa di morte e sofferenza. Non solo Stefano, ma anche Aldo Bianzino, Serena Mollicone, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Francesco Mastrogiovanni e tante altre persone sono morte tra caserme, commissariati, ospedali o per la strada. Le carceri sono un vero e proprio inferno: oggi in Italia abbiamo circa 60.000 detenuti stipati in luoghi pericolosi e sovraffollati. Mai così tanti suicidi da cinque anni ad oggi. Il numero dei suicidi in carcere nel 2018 è un ulteriore segnale d’allarme che non va sottovalutato. Dall’inizio dell’anno, infatti, sono 55 le persone che si sono tolte la vita in diversi penitenziari. Ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza: lo Stato sta costruendo nel nostro paese un sistema repressivo sempre più spietato e capillare. I lager per migranti, chiusi nel corso degli anni in seguito alle lotte delle persone recluse, sono di nuovo al centro del progetto di controllo e gestione della vita di chi approda in Italia e si prevede a breve l’apertura di altri centri per la deportazione. I vari governi che si succedono, di destra e di sinistra, procedono sempre nella stessa direzione: sempre meno libertà, sempre più controllo e repressione. Anche nella nostra città, a Salerno, la situazione è allarmante: nel carcere di Fuorni si ripetono episodi tragici. Qualche giorno fa una detenuta dell’ala femminile del carcere si è suicidata, mentre negli ultimi mesi sono stati segnalati vari pestaggi, con detenuti condotti a processo apparsi davanti al giudice pieni di lividi e con evidenti segni di percosse. Proprio come è accaduto a Stefano Cucchi. Il carcere e il lavoro di magistratura e polizia fanno parte di un unico progetto rispetto al quale non chiediamo riforme e monitoraggio di meri “abusi”episodici: vogliamo invece lottare contro l’esistenza stessa di questi strumenti che servono solo a perfezionare il potere dello Stato sulle persone. Anche nella nostra città abbiamo bisogno di una maggiore solidarietà verso chi subisce la repressione e si trova suo malgrado costretto tra le maglie di questo sistema.

Collettiva contro il carcere

Scarica il volantino: retro2

Il ritorno del partito e i prossimi fallimenti della sinistra

Viviamo in tempi sicuramente difficili, tempi in cui la distruzione dell’ecosistema prodotta dal capitalismo avanza a ritmi così incalzanti che ad ogni stagione gli effetti di tale devastazione ambientale si evidenziano nel numero crescente di catastrofi che hanno ben poco di naturale. Assieme a questo collasso programmato, per il quale gli scienziati che studiano gli effetti del riscaldamento globale parlano di una situazione ormai praticamente irrecuperabile, nelle nostre città siamo assalite da una reazione aggressiva, che si manifesta nei femminicidi quotidiani come nelle sparate naziste del ministro dell’Interno che si fa un selfie sorridente mentre interi paesi sprofondano tra le acque di torrenti e fiumi in piena. La situazione, per richiamare il celebre detto maoista, non è però affatto confusa e non può essere nemmeno eccellente: appare invece molto chiara, perché chiare sono le cause che l’hanno generata e gli effetti provocati dal dominio capitalista. Deboli e confuse, queste sì, troppo deboli e confuse appaiono invece le risposte a questa onda di reazione globale che punta a mettere a profitto per pochi pure la catastrofe ambientale in corso. La sinistra internazionale, erede della sconfitta del movimento operaio, sembra decisa a ripercorrere strade già battute, fallimentari quando non criminali: da un lato abbiamo il riemergere del richiamo alla costruzione di grandi partiti socialdemocratici di massa, dall’altro (e spesso in linea di contiguità con questo percorso) una deriva vera e propria nel nazionalismo, variamente declinato in sfumature patriottiche, costituzionali o esplicitamente fasciste. Un articolo della rivista americana “Jacobin” richiama ad esempio in maniera positiva “il ritorno del partito”: “Il fatto che i partiti politici stiano tornando nuovamente alla ribalta, è innanzitutto evidente dal crescente numero di membri all’interno dei partiti, una chiara svolta rispetto al progressivo calo di adesioni a cui hanno dovuto assistere molti partiti storici europei all’inizio degli anni Ottanta. In Gran Bretagna, il Partito Laburista sta per raggiungere i 600.000 membri, dopo aver raschiato il fondo nel 2007, alla fine del mandato di Tony Blair, con appena 176.891 adesioni. In Francia, la France Insoumise di Jean Luc Melenchon conta 580.000 sostenitori, rendendolo il più grande partito della Francia, dopo appena un anno e mezzo dalla sua fondazione. In Spagna, Podemos, fondata nel 2014, ha più di 500.000 membri, più del doppio rispetto al Partito socialista. Persino negli Stati Uniti, una nazione che per gran parte della sua storia non ha mai assistito alla nascita di partiti di massa nel senso europeo del termine, possiamo notare una tendenza simile, in quanto i Socialisti Democratici d’America (DSA), la più grande formazione socialista della nazione, ha raggiunto i 50.000 membri, all’indomani della candidatura di Bernie Sanders alle primarie del Partito Democratico, nel 2016. I DSA sono una corrente socialdemocratica che pratica l’entrismo nelle fila del Partito Democratico, vengono sponsorizzati da Jacobin a livello internazionale, tanto è vero che la filiazione italiana della rivista (promossa da vari intellettuali e politici della sinistra italiana, da Wu Ming a Marta Fana fino agli esponenti della casa editrice Alegre e di Communia) ha aperto le sue pubblicazioni parlando dei DSA: un’esperienza che andrebbe vista quanto meno con una lente critica per i rischi che comporta, ovvero quelli di legittimare un partito che è pienamente inserito nell’ordine capitalista globale. Sarebbe bastato ricordare il sostegno di Bernie Sanders a Hilary Clinton nelle ultime presidenziali. Allo stesso modo, le esperienze di sinistra populista come quella spagnola e francese presentano enormi problemi politici, dalla collaborazione di Podemos con i socialisti delle stragi di stato (il Psoe mentre proponeva la manovra “di sinistra” assieme a Pablo Iglesias si accordava nelle stesse ore con il governo marocchino per reprimere meglio i migranti) alle tendenze nazionaliste, colonialiste e razziste di France Insoumise. Insomma, mentre lo Stato assume un volto sempre più esplicitamente violento e legato al dominio capitalista, a sinistra si ripropongono forme più o meno intense di collaborazione e di corsa al potere, per meglio “gestire” il dominio del capitale. Non è un caso che oggi chi cerchi di ricostruire la sinistra istituzionale debba confrontarsi (se non proprio contaminarsi) con idee e pratiche fasciste e reazionarie: gli spazi di riformismo sono sempre più scopertamente inesistenti e anche questa “nuova” sinistra sarà un fallimento doloroso che condannerà altre migliaia di militanti alla disillusione e all’abbandono dell’impegno politico. L’articolo apparso su Jacobin si conclude con un appello alla ricostruzione dei partiti riformisti: “Contrariamente a ciò che alcuni hanno affermato all’alba del nuovo millennio, non c’è modo di cambiare il mondo senza prendere il potere. E non c’è modo di prendere il potere e cambiare il mondo senza ricostruire e trasformare i partiti politici”. Questa considerazione racconta l’esatto contrario di ciò di cui avremmo bisogno, ovvero una spinta diffusa a combattere il potere e ad organizzarsi in rete contro lo Stato e contro i partiti democratici.

L.C.

L’attivismo politico marocchino e le virtù di una visione a lungo termine

di Patrick Snyder

Tradotto da http://www.jadaliyya.com/Details/38095/Moroccan-Political-Activism-and-the-Virtues-of-Taking-the-Long-View

Le rappresentazioni convenzionali sulle questioni politiche in Medio Oriente e Nord Africa tendono sempre ad oscillare tra estremi. Preso in una sorta di “Paradosso del Comma 22” (di fronte alle numerose opportunità non è possibile effettuare alcuna scelta N.d.T), l’attivismo politico nella regione è, nelle parole dello studioso iraniano Asef Bayat – “dannato se fa e dannato se non lo fa”, o è “irrazionale” e “aggressivo”, oppure è “apatico” e “morto” -. Questa tendenza alla divisione binaria dell’attivismo politico è ancora più evidente quando si guarda alla produzione scientifica sulla “Primavera Araba” e, in particolare, alla spiegazione del perché la maggior parte dei regimi autoritari della regione sia riuscita a sopravvivere. Tanti articoli e libri sono stati scritti sull’argomento negli ultimi sette anni, ma la spiegazione più comune attribuisce una continuità autoritaria a una serie di fattori chiave: forze armate frammentate o leali al potere, aumento del protezionismo e del “rentierismo”, una parte di repressione, e nel caso del Marocco, della Giordania e dei regni del Golfo, la speciale “legittimità” della monarchia. Secondo queste analisi la “Primavera araba” è finita, i suoi risultati conosciuti e l’attivismo politico nella regione ripristinato ai livelli di inerzia “pre-Primavera Araba”.

Tale visione viene in parte da una predilezione dello studio delle élite e delle istituzioni politiche formali, tuttavia lascia poco spazio per catturare tutte le ampie sfaccettature della contestazione popolare, il flusso e il riflusso dell’attivismo politico al di fuori del cerchio della politica delle élite, dei partiti politici, e delle (imperfette) elezioni. In altre parole, la fretta di “etichettare” i casi e i “risultati” finali oscura tutti i più importanti cambiamenti nelle relazioni tra stato e società che gli eventi di sette anni fa hanno accelerato e impone una teleologia dei complessi processi sociali e politici non facilmente quantificabili e percepibili dalla superficie. Questi processi sono ancora in corso e non sono iniziati da zero nel 2011. Quindi, per studiosx e attivistx sensibili alla base della contestazione popolare nella regione, la cosiddetta “primavera araba” è un termine improprio – né interamente Arabo (come nel caso dell’attivismo Amazigh in Marocco e Algeria) – non limitato alla primavera del 2011. Allo stesso tempo in moltx hanno spiegato le mobilitazioni della “Primavera araba” attraverso il linguaggio razionalista delle proteste a cascata e dell’aggiornamento degli interessi, una lettura del tutto fuorviante. In effetti, come chiarisce lo studioso di scienze politiche Marc Lynch, “non si è trattato semplicemente della scoperta di alcuni limiti ma la trasformazione degli interessi soggiacenti e dell’ideale concernente la legittimità morale dei regimi” che spingeva gli attori ad unirsi alle proteste – qualcosa che rivela molto sul “cambiamento delle identità e dei valori, piuttosto che informare sul calcolo di rischi e opportunità”. In altre parole, per moltx, le proteste del 2011 hanno alterato le percezioni di ciò che è possibile, ciò che è legittimo e ciò che è moralmente giusto –un mutamento di identità e credenze normative che rimangono coerenti e generative del futuro attivismo politico, anche nel caso della presenza di un’autorità formale autoritaria.

Lo Hirak del Rif e il campo da gioco alterato dell’attivismo marocchino

La cosa positiva nel guardare sul lungo termine le analisi degli effetti della “Primavera araba” – o di quelle che potrebbero essere meglio definite come “le rivoluzioni della dignità” – forse è rappresentata meglio dal Marocco di oggi. Dal 2016, un movimento di protesta importante, significativo e con forme di protesta in evoluzione chiamato Hirak del Rif ha attanagliato il regno. Le richieste del Hirak per l’uguaglianza politica, economica e sociale hanno avuto una forte eco in un paese dove le molestie, le umiliazioni e l’impunità – o hogra – dei funzionari di stato è molto diffusa e la diseguaglianza economica persistente. Queste realtà attestano l’inefficacia di decenni di liberalizzazione economica, delle iniziative sostenute dall’Occidente, della liberalizzazione apparente e delle riforme politiche, come quelle attuate sulla scia delle proteste di sette anni fa. Mentre i leader del Hirak sono stati incarcerati e condannati a pene severe, e la portata delle proteste sembra essere diminuita, il movimento Hirak è solo una parte di un movimento che non mostra segni di indebolimento. Con le parole del giornalista marocchino Reda Zaireg, mentre i cittadini comuni si sentono disincantati dalla “democratizzazione” in stallo, dall’ampliamento delle diseguaglianze e dalla crescita dell’oppressione, “sempre più cose vengono chiamate adesso con il loro nome”. Ci sono altri segni di una maggiore volontà di sfidare lo status quo nonché dell’emergere di forme di attivismo politico difficili da cooptare o reprimere.  Ad esempio, il boicottaggio prolungato – e chiaramente efficace – di alcuni dei maggiori marchi commerciali del Marocco, ovvero l’acqua Sidi Ali, la Centrale Danone e la benzina Afriquia. Mentre in parte si basa sulla protesta per l’aumento dei prezzi, il boicottaggio ha anche una connotazione politica evidente, poiché una parte importante delle grandi imprese commerciali marocchine o è detenuta dal re attraverso i suoi fondi di partecipazione, o da uomini politici e delle élite rispettosi del Palazzo. Per esempio, nonostante alcune delle società prese di mira sono possedute dal re stesso, fino a qualche anno fa egli deteneva una partecipazione anche nella Centrale Danone, che cedette nel 2015. Inoltre, il conglomerato petrolifero e di gas Afriquia è posseduto da Aziz Akhnnouch, alleato del Palazzo e dall’attuale ministro dell’agricoltura il cui partito, l’Unione degli indipendenti nazionali (RNI)ha giocato un ruolo fondamentale nel blocco politico durato parecchi mesi che si è concluso con la fine del mandato di Benkirane, del partito islamista al potere (Partito della giustizia e dello sviluppo, o PJD). Una personalità, quest’ultima, dal carisma e dalla popolarità difficilmente tollerabile per il Palazzo. I boicottaggi sono ugualmente un modo di esprimere la collera di fronte all’aumento del costo della vita in un paese paese in cui, malgrado la crescita macroeconomica relativamente positiva, le ineguaglianze economiche persistono e rimangono tra le più elevate della regione. La campagna di boicottaggio si sta svolgendo contemporaneamente a un altro movimento di attivismo politico guidato dai social media: una campagna contro le violenze sessuali in Marocco. Chiamata “Masakatsh” (Io non sto zitta), la campagna si è diffusa tra la popolazione marocchina, rompendo con una cultura di tolleranza e di indifferenza verso coloro che sopravvivono alle molestie sessuali. Nel momento in cui una nuova legge contro le molestie sessuali è recentemente entrata in vigore, le critiche hanno messo in evidenza come questa non sia assolutamente sufficiente – per esempio, la sua formulazione resta vaga, è di difficile applicazione e non riesce a interdire completamente il matrimonio dei minori. La campagna è stata lanciata in parte al momento dell’arresto per stupro in Francia della pop star marocchina Saad Lamjarred – è la terza accusa del genere che gli viene rivolta – e i/le marocchinx hanno usato i social media per pressare le radio a non mandare più in onda le sue canzoni. Il caso di Khadija, una 17enne marocchina che è stata rapita e violentata psicologicamente e fisicamente da un gruppo di uomini, ha anche contribuito a mobilizzare i/le sostenitrici della campagna, con notizie e immagini della giovane ragazza diffuse nei social media nelle recenti settimane. Nonostante il fatto che “Masaktach” e il boicottaggio siano molto differenti nella loro origine e nei loro obbiettivi, rappresentano tutti e due la forza e il dinamismo della sfera della contestazione politica pubblica in Marocco, sette anni dopo gli appelli alla dignità e alla libertà scoppiati nella regione mediorientale e nordafricana. Queste nuove forme di attivismo politico si svolgono in un ambiente mediatico nazionale che si è considerevolmente evoluto nel corso di questi due ultimi decenni, in parte grazie a un più grande accesso a internet e ai deboli tentativi di liberalizzazione politica. I media indipendenti, come Le Journal e Lakome, si sono moltiplicati alla fine degli anni ’90 e negli anni 2000 e hanno aiutato a contribuire alla formazione dell’ambiente politico che ha lanciato il Movimento del 20 febbraio 2011. Tuttavia, all’interno di regimi autoritari ibridi come il Marocco, tali media indipendenti fanno difficoltà, con le parole della studiosa Fadma Ait Mous e dello studioso Driss Ksikes, a trascendere il “momento liberale” nel quale sono stati fondati, soccombendo all’intimidazione politica, alla repressione o alla cooptazione. Tuttavia, qualunque sia la fine di ogni giornale indipendente, è sempre più difficile per ogni regime autoritario censurare le informazioni non favorevoli online o bloccare delle campagne con connotazioni politiche. In effetti, il mese scorso, le informazioni diffuse in Marocco riguardo la morte di una studentessa di diritto, Hayat Belkacem (che viveva nel Rif in rivolta N.d.T), di 20 anni, assassinata dalla marina marocchina mentre cercava di scappare dal regno hanno generato una protesta importante durante una partita di calcio a Tetouan. Gli spettatori gridavano il loro desiderio di rinunciare alla cittadinanza marocchina. Più o meno nello stesso tempo l’Associazione Marocchina per i Diritti Umani, la più grande organizzazione indipendente del paese, diffondeva la notizia di una manifestante uccisa dalla polizia durante un corteo per i diritti delle proprietà collettive. Così, mentre il governo sostiene che la vittima, Fadila, sia morta a causa di un attacco cardiaco, testimoni oculari e la stessa AMDH dicono che è morta strangolata da una bandiera marocchina, un evento tragico e inquietante dal forte simbolismo. Questi esempi, che sono solo quelli più recenti, non sono enumerati per indicare la preminenza del ruolo dei social media nella promozione della democrazia: queste situazioni suggeriscono che gli/le attivistx marocchinx continuano ad adattarsi a un ambiente mediatico alterato nel quale le informazioni sensibili sul piano politico possono essere condivise rapidamente e in maniera larga. Particolare molto importante per controllare la narrazione e fare nascere dei dubbi sui racconti ufficiali del regime. Nell’insieme, questi esempi si aggiungono al sentimento crescente che le strategie collaudate dal regime in materia di divisione e di repressione non bastano più a contenere lo scontento popolare e costituiscono un avvertimento per gli analisti politici concentrati in maniera ossessiva sui partiti politici, le élite e le classi dirigenti. La fine dei tentativi di liberalizzazione superficiale, a cominciare dalla nomina nel 1998 di un Primo ministro dell’opposizione, ha fatto ben poco alla “democratizzazione” del Marocco. La conseguenza di ciò, come scrive la scrittrice Mounia Bennabi-Chraibi, è la diminuzione del potere e della rilevanza dei partiti e delle istituzioni politiche e “l’estensione concomitante della scena della protesta, l’accumulazione delle competenze e di esperienza delle e dei manifestanti, lo sviluppo di crescenti capacità di coordinamento autonome che controbilanciano le tendenze repressive del regime”. Pertanto, lo Hirak, insieme ad altre forme emergenti di attivismo politico in Marocco rivela in una certa misura i pericoli di attuare riforme superficiali o fare promesse vuote. In effetti, le richieste che risuonano in tutto il Marocco oggi fanno eco a quelle di sette anni fa e mettono a nudo a un numero sempre crescente di marocchinx l’inconsistenza dei precedenti sforzi “di riforma”.

Usi della catastrofe

Di Jocine Velasco

tradotto da https://communemag.com/the-uses-of-disaster/

Il cambiamento climatico è qui. Nel mezzo della tempesta, si presenta l’opportunità di rompere con il capitalismo e la sua spietata disuguaglianza. Cogliamo al volo l’occasione finché possiamo. Le alternative sono impensabili.

“Qual è questa sensazione che si manifesta durante così tanti disastri?” si chiede Rebecca Solnit nel suo libro del 2009 “A Paradise Built in Hell”. Esaminando le risposte umane a terremoti, incendi, esplosioni, attacchi terroristici e uragani nel corso dell’ultimo secolo, Solnit afferma che l’idea comune che i disastri rivelino il lato peggiore della natura umana è fuorviante. Invece, l’autrice dimostra come possiamo vedere in molti di questi eventi “una sensazione più profonda della felicità, ma intensamente positiva”, una speranza propositiva che galvanizza quelle che lei chiama “comunità della catastrofe”. Quando l’ordine sociale prestabilito viene temporaneamente sospeso, una miriade di “comunità d’eccezione” costituite attraverso la collettività e l’aiuto reciproco, nascono in risposta. Gli esempi di Solnit includono l’uragano Katrina, l’11 settembre e il terremoto di Città del Messico del 1985. Per momenti fugaci, dimentichiamo le differenze sociali e ci aiutiamo a vicenda. Ahimè, quando il disastro è passato, queste comunità svaniscono. Con le parole di A.Paradise, il “grande compito contemporaneo” che affrontiamo è la prevenzione di tale smottamento, “il recupero di questa comunanza di intenti senza crisi o pressioni”. Data la calamità del riscaldamento globale, questo compito diventa sempre più urgente. Come smantellare gli ordini sociali che rendono così catastrofici i disastri, mentre allo stesso tempo rendono ordinario lo straordinario comportamento umano che provocano?

L’argomentazione di Solnit suona vera anche se si è meno ottimisti di lei sul valore intrinseco della comunità. Negli inferni del presente, troviamo gli strumenti di cui abbiamo bisogno per costruire altri mondi, nonché scorci allettanti di qualcosa che spesso si ritiene impossibile. Questo non è motivo di giubilo, né di ottimismo. Ma è motivo di speranza.

Affinché questa speranza si realizzi, tuttavia, dobbiamo andare al di là dell’analisi empirica di Solnit su ciò che accade in risposta a specifici eventi disastrosi e cogliere il carattere generale della catastrofe capitalista. Questa non è semplicemente una serie di eventi singoli – gli uragani Katrina, Harvey e Irma – ma una condizione permanente. Per molti, l’ordinario è una catastrofe. Allo stesso modo, qualsiasi risposta coerente a tale catastrofe permanente dovrà essere diffusa e duratura per avere successo. Costruire il paradiso all’inferno non è abbastanza: dobbiamo lavorare contro l’inferno e andare oltre. Più che di comunità della catastrofe, abbiamo bisogno del comunismo della catastrofe.

Ovviamente, nel richiamare il comunismo della catastrofe, non stiamo suggerendo che il verificarsi di sempre più frequenti incubi eco-sociali in qualche modo inevitabilmente produrrà condizioni sempre più mature per il comunismo. Non possiamo adottare il fatalismo perverso del “tanto peggio, tanto meglio” né aspettare un ultimo uragano per spazzare via il vecchio ordine. Piuttosto, stiamo osservando che anche il più grande e terrificante di questi disastri straordinari può interrompere il disastro ordinario che è, per la maggior parte del tempo, troppo grande per essere compreso appieno. Ci sono momenti di interruzione che, sebbene siano terribili per la vita umana, potrebbero anche significare una catastrofe per il capitalismo.

Il comunismo della catastrofe non è separato dalle lotte esistenti. Piuttosto, enfatizza il processo rivoluzionario che sviluppa la nostra capacità collettiva di resistere e prosperare: un movimento all’interno, contro e al di là di questo disastro capitalista in corso. Come possono i numerosi progetti che creano mini-paradisi nell’inferno essere coerenti con qualcosa di più di comunità effimere? Il comunismo della catastrofe aggiunge una definizione chiarificatrice al longevo progetto politico che si contrappone allo Stato e al Capitale e trabocca i loro confini. Orienta il movimento di un potere collettivo che, pur essendo palpabile durante i disastri straordinari, resta sempre presente, specialmente nei luoghi e tra i gruppi che hanno vissuto la situazione di un disastro ordinario per centinaia di anni. Il cambiamento climatico fa diventare centrali le competenze esistenti in quelle lotte per la sopravvivenza.

IL CAPITALISMO DELLA CATASTROFE, IL CAPITALE COME CATASTROFE

Il geografo Neil Smith ha sostenuto in modo convincente che non esiste una catastrofe naturale. Denominare i disastri come “naturali” occlude il fatto che essi sono tanto il prodotto di divisioni politiche e sociali quanto di forze climatiche o geologiche. Se un terremoto distrugge le abitazioni a basso reddito mal costruite e mal mantenute in una città, ma lascia le case ben costruite dei ricchi, incolpare la natura significa semplicemente assolvere gli Stati, i costruttori e i padroni, per non parlare dell’economia capitalista che produce tali disuguaglianze in primo luogo. I disastri sono sempre co-produzioni in cui forze naturali come le placche tettoniche e i sistemi meteorologici lavorano insieme con le forze sociali, politiche ed economiche.

Il modo in cui si svolgono i disastri straordinari, quindi, non può essere separato dalle normali condizioni di catastrofe in cui si verificano. Era la categoria 4 dell’uragano Maria che ha devastato la colonia statunitense di Porto Rico, lasciando i residenti senza acqua potabile: un evento disastroso. Ma questa narrazione oscura il fatto che, prima dell’uragano, “il 99,5% della popolazione di Porto Rico era servita da sistemi idrici comunitari in violazione del Safe Drinking Water Act”, mentre “il 69,4% delle persone sull’isola era servito da fonti d’acqua che violavano gli standard sanitari di SDWA “, secondo un rapporto del Consiglio per la difesa delle risorse naturali. Né tali eventi devastanti possono eclissare disastri più lenti come quello di Flint, nel Michigan, dove decenni di abbandono e inquinamento industriale del fiume Flint e dei Grandi Laghi hanno lasciato la comunità operaia, la maggioranza nera e latina senza acqua pulita. Facilmente trascurati perché mancano del potere spettacolare di un uragano o di un terremoto, disastri così estesi sfociano il confine tra disastro come evento e disastro come condizione. Ciò che per alcuni è una scossa improvvisa e inaspettata è per gli altri una questione di realtà quotidiana intensificata.

I cambiamenti climatici aumentano significativamente la frequenza e la gravità dei disastri sia lenti che veloci. Il riscaldamento globale significa una maggiore quantità di energia che circola nell’atmosfera e nelle superfici oceaniche. Ad esempio, quando gli oceani caldi creano celle a bassa pressione, l’energia termica, sotto l’influenza della rotazione terrestre, viene convertita nell’energia cinetica caratteristica degli uragani roteanti e delle tempeste tropicali. Le temperature più calde danno origine a più energia, che deve essere espressa in qualche modo (l’energia non può essere distrutta: può solo cambiare forma). La fisica di questo processo è diabolicamente complessa e difficile da studiare, tuttavia è possibile fare delle previsioni. L’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite suggerisce che il cambiamento climatico distruggerà cibo e acqua, danneggerà case e infrastrutture e porterà siccità e inondazioni, ondate di calore e uragani, mareggiate e incendi. I progressi delle scienze dell’attribuzione e delle conoscenze raccolte dal singolo grado Celsius del riscaldamento globale già in atto hanno reso possibile quantificare il contributo del cambiamento climatico agli eventi meteorologici estremi. Ora possiamo collegare il riscaldamento globale a calamità come l’ondata di caldo europeo del 2003 e l’ondata di calore russa del 2010, che ha ucciso decine di migliaia di persone, senza contare innumerevoli tempeste, inondazioni e altri eventi meteorologici.

Il fatto che il cambiamento climatico sia esso stesso creato dall’uomo (o meglio, provocato dal capitalismo) sottolinea ulteriormente l’impossibilità di separare eventi disastrosi da condizioni disastrose. La relazione tra le due corre in entrambe le direzioni: le condizioni danno luogo a eventi che, a loro volta, comportano ulteriori condizioni di radicamento. L’obiettivo dello stato-nazione durante e immediatamente dopo i disastri straordinari è di solito imporre l’ordine piuttosto che aiutare i sopravvissuti, e per questo motivo gli eventi catastrofici generalmente esacerbano il sottostante disastro del capitalismo. Nel terremoto di San Francisco del 1906, fu inviato l’esercito. Tra 50 e 500 sopravvissuti furono uccisi, e gli sforzi di ricerca, soccorso e spegnimento degli incendi auto-organizzati furono interrotti. I tentativi dello stato di gestire il disastro si sono dimostrati una forza disordinata, che ha distrutto le forme di auto-organizzazione dal basso. Una simile attenzione repressiva ai “saccheggiatori” (ad esempio i sopravvissuti) ha segnato la risposta dello stato americano all’uragano Katrina a New Orleans. Il 4 settembre 2005, sul ponte di Danziger, sette agenti di polizia hanno aperto il fuoco su un gruppo di neri che tentava di fuggire dalla città allagata, uccidendone due e ferendone gravemente altri quattro. L’assassinio di sopravvissuti neri in cerca di sicurezza illustra i mezzi con cui lo stato cerca di precludere le possibilità emancipatorie che potrebbero apparire durante tali disastri. In tali situazioni, lo stato non cerca altro che un ritorno alla normalità catastrofica per i poveri, i migranti e i neri. Tali azioni sono contrarie alle raccomandazioni anche dei sociologi mainstream della catastrofe. Nel 1960, ad esempio, il sociologo-militare Charles Fritz ha sostenuto incisivamente come lo stereotipo di un diffuso individualismo antisociale e di aggressività fiorente durante i disastri non fosse radicato nella realtà. Ha anche notato con acutezza che la distinzione tra disastri e normalità può “trascurare convenientemente le molte fonti di stress, tensione, conflitto e insoddisfazione che sono incorporate [sic] nella natura della vita quotidiana”.

Le disastrose macchinazioni di Stato e Capitale non si fermano comunque a eventi localizzati e puntuali, ma vanno dal locale al globale. Come hanno dimostrato scrittori come Naomi Klein e Todd Miller, disastri straordinari sono usati per prolungare, rinnovare ed estendere i comuni disastri di austerità, privatizzazioni, militarizzazione, polizia e confini. Questo è il capitalismo della catastrofe: un circolo vizioso in cui le normali condizioni di disastro esacerbano eventi di disastro straordinari, a loro volta intensificandone le condizioni originali. Eventi disastrosi permettono allo stato di implementare ciò che Klein chiama la “dottrina degli shock”. Questo processo implica la riqualificazione delle infrastrutture distrutte, dell’energia e delle infrastrutture di distribuzione agli standard neoliberali; lasciare i poveri senza elettricità o acqua potabile, costringendoli a trasferirsi in luoghi ancora più vulnerabili ai cambiamenti climatici; e incarcerandoli quando resistono o cercano di attraversare i confini per sfuggire a questa situazione insostenibile. Nei mesi successivi all’uragano Maria, Porto Rico ha sperimentato ulteriori privatizzazioni, peggioramento delle condizioni di lavoro e l’arrivo di colonialisti verdi: presunti filantropi come Elon Musk che nascondono le loro imprese iper-capitaliste dietro il paravento del recupero ambientale. La storia di Flint è simile, con le offerte fatte da Musk di risolvere i problemi infrastrutturali.

Le forze che agiscono nell’interesse dello Stato e del Capitale si presentano in un certo numero di forme, ovviamente. Gli attivisti del “Common Ground Collective” che fornivano aiuti d’emergenza all’indomani dell’uragano Katrina sono stati intensamente molestati non solo dai poliziotti razzisti ma anche da gente bianca armata che ha colto l’occasione per recitare in uno scenario post-apocalittico da fine-dei-tempi, con l’approvazione tacita e talvolta attiva facilitazione, della polizia.

SOPRAVVISSUTI IN ATTESA DELLA RIVOLUZIONE

Quello che lo studio degli eventi disastrosi e delle condizioni disastrose ci insegna è che il cambiamento climatico non è semplicemente una conseguenza involontaria della produzione capitalista, ma una crisi di riproduzione sociale (un termine che si riferisce alle strutture sociali auto-perpetuate che consentono la sopravvivenza quotidiana e generazionale e nello stesso tempo servono a mantenere intatte le disuguaglianze). Riconoscere questo non ci dà solo una nuova prospettiva sul problema, ma indica anche una fonte di speranza. È importante ricordare che le vite dei poveri, dei diseredati e dei colonizzati non sono modellate dal solo disastro. Coinvolgono, ad ogni cambiamento, forme di sopravvivenza e persistenza, spesso sotto forma di conoscenze e abilità trasmesse di generazione in generazione. Come insiste il filosofo Potawatomi Kyle Powys Whyte, mentre le popolazioni indigene conoscono bene la catastrofe sotto forma di centinaia di anni di tentativi di dominio coloniale, in quelle centinaia di anni hanno sviluppato le capacità per resistere e sopravvivere a disastri ordinari e straordinari. La studiosa femminista marxista Silvia Federici, nel frattempo, ha mostrato come il capitalismo abbia a lungo cercato, senza successo, di sradicare violentemente tutte le forme di sopravvivenza non capitalista. Nel suo saggio del 2001 “Women, Globalization, and the International Women’s Movement”, sostiene che “se la distruzione dei nostri mezzi di sussistenza è indispensabile per la sopravvivenza dei rapporti capitalistici, questo deve essere il nostro terreno di lotta”.

Una lotta del genere avvenne all’indomani del terremoto di Città del Messico del 1985, quando i proprietari terrieri e gli speculatori immobiliari videro un’opportunità per sfrattare definitivamente le persone di cui volevano liberarsi da molto tempo. I loro tentativi di demolire abitazioni che offrivano bassi rendimenti da locazione e di sostituirle con costosissimi condomini sono un chiaro esempio di capitalismo della catastrofe al lavoro. Eppure gli abitanti della classe lavoratrice hanno combattuto con grande successo. Migliaia di inquilini hanno marciato sul Palazzo Nazionale, chiedendo al governo di prendere possesso delle case danneggiate dai loro proprietari terrieri per l’eventuale vendita ai loro inquilini. In risposta, sono state sequestrate circa 7.000 proprietà. Qui, quindi, vediamo che i disastri straordinari non creano semplicemente lo spazio allo Stato e il Capitale per consolidare il loro potere, ma anche per resistere a queste stesse forme: una “versione di sinistra della dottrina degli shock”, per adottare la frase di Graham Jones. Il disastro ordinario che è il capitalismo può infatti essere interrotto da questi incidenti che, sebbene orribili per la vita umana, rappresentano anche una momentanea rovina per il capitalismo. In un saggio del 1988 intitolato “The Uses of an Earthquake”, Harry Cleaver suggerisce che ciò è particolarmente probabile nel crollo della capacità amministrativa e delle autorità governative a seguito di disastri straordinari. Questo crollo è forse ancor più probabile in luoghi in cui la governance dipende dalla sorveglianza, dall’uso dei dati sensibili e dalle tecnologie dell’informazione.

Cleaver rileva inoltre l’importanza delle storie di organizzazione collettiva nei quartieri colpiti dal terremoto. I sopravvissuti avevano legami organizzativi, una cultura di mutuo aiuto e aspettative di solidarietà. Gli inquilini sapevano di avere le spalle coperte a vicenda a causa delle loro relazioni reciproche. Questo punto è cruciale, perché ci consente di comprendere la comunità della catastrofe, non semplicemente come una risposta spontanea a disastri straordinari, ma piuttosto come il venire alla ribalta delle lotte quotidiane per la sopravvivenza e le pratiche sotterranee di aiuto reciproco. La loro esperienza di organizzazione contro i comuni disastri del capitalismo ha lasciato i residenti ben equipaggiati per affrontare un disastro straordinario.

In effetti, le relazioni di sostegno preesistenti sono state più efficaci nel sostenere le comunità colpite dall’uragano Maria. Il “Centros de Apoyo Mutuo” è una rete di mutuo soccorso decentrata costituita da gruppi, centri e pratiche consolidati, che ha distribuito cibo, ripulito i detriti e ricostruito le infrastrutture dell’isola. Lo ha fatto più velocemente e con maggiore attenzione ai bisogni dei residenti, rispetto alle reti di assistenza e logistica internazionale. Attraverso una sorta di bricolage o “arte del fare con ciò che è a portata di mano”, i centri di assistenza reciproca dimostrano che i non specialisti possono rapidamente raccogliere e condividere strumenti e abilità per la sopravvivenza. In tal modo, creano anche nuove forme di solidarietà e vita collettiva che vanno oltre la sopravvivenza.

“Quelle tempeste sono passate, e hanno distrutto molte cose”, dice Ricchi, un membro della rete statunitense Mutual Aid Disaster Relief. “Eliminando la rete energetica e riducendo l’accesso al cibo e all’acqua, hanno lasciato al buio l’isola di Borikén [il nome indigeno di Taíno per Porto Rico]. Ma in quell’oscurità si sono svegliati innumerevoli Boricuas, restano svegli fino a tardi e si alzano presto, facendo il lavoro di riprodurre la vita”.

Quella vita non è solo banale: i gruppi organizzano feste, lezioni di ballo e sessioni di cucina collettiva, in modo che gli orizzonti comuni possano aprirsi oltre la disperazione.
In un senso convenzionale e strettamente economico, c’è scarsità in queste situazioni, sebbene la scarsità sia messa in discussione da un’abbondanza di legami sociali. Tuttavia, disastri straordinari possono anche spingerci a riconoscere che la scarsità è una relazione sociale piuttosto che un semplice fatto numerico: il modo in cui i beni e le risorse sono distribuiti determina chi può usarli. All’indomani dell’uragano Sandy, è stata superata una “scarsità” di strumenti, non attraverso la produzione o l’acquisizione di altro, ma attraverso una nuova organizzazione. Le raccolte di strumenti sono state impostate come alternative alle relazioni sociali individualizzate e mercificate che dominano la società capitalista. Ci mostrano che non dovremmo essere troppo frettolosi per associare il cambiamento climatico a una maggiore scarsità.

LA CATASTROFE DELLE MIGRAZIONI

Le comunità sono spesso definite dal loro contenimento all’interno di un determinato luogo geografico, e quelle citate sopra certamente si adattano a questo disegno: rispondono a disastri straordinari nei luoghi dove sono avvenuti quei disastri. Eppure il cambiamento climatico, naturalmente, costringe le persone a spostarsi da un luogo all’altro, così che l’organizzazione contro i suoi effetti disastrosi richiede anche più ampie comunità di solidarietà. Il numero di persone attualmente classificate come “migranti forzati” si trova attualmente, secondo le cifre dell’ONU, a 68,5 milioni. L’accelerazione di questa ondata di spostamenti è impossibile da ignorare. Entro il 2050 si prevede che ci saranno 200 milioni di persone che saranno “migranti climatici”: costrette a spostarsi a causa dei disastri, sia ordinari che straordinari, che il riscaldamento globale sta portando. Questo, per sottolineare bene il punto, riguarda una persona su cinquanta nel mondo.

Attualmente, molte persone sono sfollate internamente, con solo una piccola parte che viaggia verso l’Europa, il Nord America o l’Australia. Tuttavia, man mano che il clima si destabilizza e le condizioni peggiorano, molti dei luoghi che attualmente servono come rifugi diventeranno inabitabili. Viaggiare in zone di latitudine più elevata e attraversare i confini delle nazioni più ricche che le occupano diventerà così sempre più essenziale per le persone. Vivere lì rende uno meno vulnerabile agli eventi disastrosi, non ultimo perché gli stati-nazione ricchi restano meglio equipaggiati – almeno finanziariamente – per mitigarli. La tendenza di questo movimento globale verso nord probabilmente intensificherà gli sforzi per difendere queste zone: il “complesso militare-ambientale-industriale” sta già progettando nuove forme di violenza per difendere i confini. Gli sforzi comuni per combattere tale violenza costituiranno alcune delle più importanti lotte contro il disastro climatico.

Mentre scriviamo, diverse strutture per l’Immigrazione e le Forze Doganali negli Stati Uniti sono presidiate da un movimento di protesta che mira a interrompere le operazioni di rimpatrio e deportazione. Nel Regno Unito, gli attivisti hanno respinto con successo i tentativi del governo di estendere l’applicazione delle leggi restrittive sull’immigrazione anche nelle scuole. A Glasgow, negli anni ’90, un progetto solidale che univa i migranti con gli autoctoni ha avuto un tale successo che le comunità della classe lavoratrice si sono rivelate in grado di ostacolare i raid dell’alba che miravano a deportare i loro nuovi amici e vicini. A nostro parere, anche queste sono “comunità della catastrofe” e non sono meno importanti di quelle di Città del Messico post-85 e della New Orleans post-Katrina. Queste comunità della catastrofe, quindi, sono spiragli di speranza: i microcosmi di un mondo formato diversamente. La riproduzione sociale organizzata non attraverso il lavoro salariato, le merci, la proprietà privata e tutte le loro violenze associate, ma attraverso la cura, la solidarietà e la passione per la libertà. Dimostrano con la loro esistenza che l’esistente non è immodificabile.

PARADISO CONTRO INFERNO

Questa speranza è vitale, ma troppo spesso la speranza ci uccide. Abbiamo bisogno di qualcosa di più dei microcosmi, anche perché tali esperimenti possono essere preziosi anche per il capitale. Qui è importante notare che il capitale non è omogeneo: ciò che è buono per alcuni capitalisti è negativo per altri, e ciò che è male per i singoli capitalisti in un breve periodo di tempo può essere buono per il capitale nel lungo periodo. Quindi, mentre le comunità che nascono dai disastri potrebbero essere una cattiva notizia per alcuni capitalisti e attori statali, altri invece le guarderanno con interesse. Come ricorda Ashley Dawson, il Dipartimento della Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti ha elogiato gli sforzi di soccorso influenzati dagli anarchici di Occupy Sandy dopo che l’uragano del 2012 ha travolto New York. Facendo così bene ciò che le forze statali e di mercato non potevano fare, i progetti di Occupy hanno mantenuto la vita sociale, dando a queste forze qualcosa da riconquistare una volta ripristinato lo status quo ante. E lo hanno fatto senza alcun costo diretto per lo stato.

Tale resoconto è parziale, ovviamente, e non considera il valore pedagogico delle comunità che nascono dai disastri. Al suo massimo, questo valore è allo stesso tempo negativo e positivo: il clamoroso “sì” a quegli altri modi di vivere urla contemporaneamente un “no” al comune disastro del capitale. La riproduzione sociale promossa è un cambio di direzione: un tentativo di riprodursi in altro modo e di resistere al ritorno del mercato che distruggerebbe i nostri corpi e il nostro ecosistema.

Lo vediamo chiaramente in molte delle “comunità della catastrofe” che nascono in risposta ai confini. Come Harsha Walia dimostra così brillantemente nel suo “Imperialismo di frontiera”, queste comunità non aiutano semplicemente le persone a mitigare la violenza del confine, ma resistono al concetto stesso di confine, come riassume bene lo slogan “No Borders”. In effetti, questa stessa frase evoca simultaneamente l’affermazione e la negazione su cui insistiamo: contrastare un aspetto di questo mondo mentre descrive le caratteristiche del prossimo. Questa è un’operazione politica dentro e contro l’inferno.

Tale negazione dovrà indubbiamente andare oltre la mitezza associata alle nozioni dominanti di comunità. Di fronte a quei poliziotti e vigilanti razzisti all’indomani dell’uragano Katrina, il Common Ground Collective si è impegnato in un’autodifesa armata ispirata alle Black Panthers e ad altri gruppi radicali. Né i conflitti esisteranno solo esternamente: il CGC ha anche dovuto trattare con i sostenitori che sembravano più interessati al “turismo della catastrofe” che ai loro sforzi di soccorso. Le comunità che nascono dalle catastrofi non saranno esenti dal gorgo della violenza che costituisce la catastrofe quotidiana: misoginia, supremazia bianca, classismo, abilismo, razzismo e numerose forme intersezionali di oppressione, sfortunatamente, si riverseranno nella loro organizzazione. Le comunità della catastrofe dovranno imparare come risolvere le cose altrimenti, mobilitando gli strumenti sociali e i processi di responsabilità che molti attivisti stanno già sviluppando oggi.

IL PARADISO OLTRE L’INFERNO

Il capitalismo è a proprio agio con il concetto di comunità. Troppo spesso, il termine è usato per etichettare la resilienza che il capitalismo stesso ha bisogno per sopravvivere al disastro ordinario e straordinario. Le comunità organizzate sono così svuotate da ogni potere trasformativo.
Non possiamo però abbandonare del tutto il concetto di comunità: una simile proposta sarebbe inutilmente idealistica, dato l’uso diffuso del termine. Ma riferirsi a comunità della catastrofe come quelle discusse sopra semplicemente come “comunità” significa negare il loro potenziale, legandole ad un presente in cui sono pur sempre ammirevoli e degne di attenzione, ma mai trasformative.
È per questo che insistiamo sul concetto di comunismo.

Laddove il comunismo è spesso presupposto dall’abbondanza materiale creata dalla produzione capitalista, il comunismo della catastrofe è radicato nell’abbondanza collettiva presente nelle comunità della catastrofe. Significa impossessarsi dei mezzi di riproduzione sociale. Non possiamo aspettarci, naturalmente, che ogni risultato sarà immediatamente comunista (la proprietà privata non è stata abolita in quelle comunità a Città del Messico nel 1985, per esempio). Il nostro uso del termine indica la vasta ambizione e il funzionamento di un movimento al di là di specifiche manifestazioni e risultati, la sua diffusione attraverso lo spazio e la sua esistenza continua al di là di disastri straordinari. Denomina l’ambizione di fondare niente meno che il mondo intero nell’abbondanza trovata nella riproduzione sociale della comunità disastrata. Come tale, soddisfa la definizione di comunismo che Marx ci dà: “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”.

Il comunismo del comunismo della catastrofe, quindi, è una mobilitazione sovversiva e trasformativa senza la quale la catastrofe in corso del riscaldamento globale non può e non deve essere fermata. Allo stesso tempo è la rovina delle molteplici ingiustizie strutturali che perpetuano e traggono forza dalla catastrofe, e una promulgazione della diffusa capacità collettiva di resistere e prosperare su un pianeta che cambia rapidamente. È estremamente ambizioso e richiede una ridistribuzione delle risorse su più scale; riparazioni per il colonialismo e la schiavitù; espropriazione della proprietà privata per le popolazioni indigene; e l’abolizione dei combustibili fossili, tra gli altri progetti monumentali. Siamo, chiaramente, ben lontani da ciò. Ma come notava Ernst Bloch, quello che è il “non-ancora” è già vivo nel nostro presente. Nelle risposte collettive al disastro, troviamo che molti degli strumenti per costruire quel nuovo mondo esistono già. Quando Solnit parla di quell’emozione “più profonda della felicità” che anima le persone sulla scia del disastro, coglie “uno sguardo su chi altro potremmo essere noi stessi e su cosa potrebbe diventare la nostra società”. Tra le rovine, nella terribile apertura dell’interruzione, lanciata contro le condizioni che producono e cercano di capitalizzare su quell’interruzione, siamo vicini al completo cambiamento, alla generalizzazione della consapevolezza che tutto – e tutti – potrebbero ancora essere trasformati. In altre parole, nella risposta collettiva al disastro, intravediamo un movimento reale che potrebbe ancora abolire lo stato di cose presenti.

L’opera di Mario Mieli, il rapporto tra generi e lo sfuttamento del lavoro

Ultimo appuntamento della rassegna Intersezioni

Domenica 16 settembre 2018 alle ore 20 presso la sede Cobas in via R.Cocchia n.6 – Salerno.

Dibattito su “L’opera di Mario Mieli e il rapporto tra generi e sfruttamento del lavoro”

intervengono Federico Zappino e il collettivo della Cagne sciolte

a seguire cena vegana

“Con Elementi di critica omosessuale, dato alle stampe nel 1977, Mario Mieli mette a fuoco in modo insuperato la relazione tra desiderio e capitalismo, consegnando alle minoranze di genere e sessuali, nonché alle più ampie maggioranze che “passano” per maggioritarie, quanto di più importante chiunque intenda lottare oggi per rivoluzionare i presupposti della propria subalternità culturale e materiale, dovrebbe fissare saldamente nella testa” F. Zappino, il queer come modo di produzione [https://www.dinamopress.it/news/queer-modo-produzione/]

 

Opuscolo – Migrazione e detenzione delle donne nel CPR di Ponte Galeria

riceviamo e diffondiamo:

Migrazione e detenzione delle donne nel CPR di Ponte Galeria – Alcuni spunti di riflessione

Quanto scritto è frutto di una stesura collettiva, il tentativo di rendere fruibili su carta alcuni dei ragionamenti che hanno costruito il percorso di lotta contro le frontiere che portiamo avanti in città, e che hanno contribuito a decostruire alcuni dei pregiudizi e costrutti sessisti e suprematisti che ognuna di noi ha dentro. Ci auguriamo che apra a ragionamenti più approfonditi e condivisi sulle oppressioni multiple di genere, razza e classe.
Lungi dal voler essere esaustivo, ci auguriamo che quanto qui riportato possa aver fornito qualche strumento di riflessione in più sui meccanismi che operano all’interno dei centri di detenzione per migranti e sugli svariati dispositivi di controllo che vi ruotano intorno; che gli spunti per la discussione proposti siano una parte di una riflessione più ampia che ragioni sulle molteplici facce di un’oppressione che sistematicamente garantisce e nega privilegi per nascita.
Speriamo con ciò di veder allargarsi le fila di quelle solidali che si ritrovano fuori da un CPR o che lottano contro una frontiera, sia essa fatta di filo spinato o di idee stigmatizzanti.

Nemiche e nemici delle frontiere

Stampa e diffondi l’opuscolo migrazione e detenzione PG

Le proteste svelano la nuova faglia del conflitto in Iraq: il popolo contro la classe dirigente

La polizia antisommossa irachena impedisce ai manifestanti di prendere d’assalto l’edificio del consiglio provinciale durante una manifestazione a Bassora, in Iraq, il 15 luglio 2018 (foto AP).

di Renad Mansour

da https://www.worldpoliticsreview.com/articles/25161/protests-reveal-iraq-s-new-fault-line-the-people-vs-the-ruling-class

In quello che sta diventando un rituale estivo nel sud dell’Iraq, nel corso delle ultime settimane i/le manifestanti sono scesx in strada per esprimere le loro rimostranze in un caldo torrido. L’incapacità del governo di fornire i servizi di base, vale a dire l’elettricità e l’acqua, rende l’estate insopportabile a moltx irachenx. L’alto tasso di disoccupazione significa che in moltx non possono permettersi uno standard di vita minimo. Rispecchiando l’alto livello di disperazione, l’ultima ondata di proteste è diventata più violenta rispetto agli anni precedenti. In nove province irachene, i manifestanti hanno preso d’assalto gli edifici governativi e le infrastrutture, nonché gli uffici dei partiti politici, a volte incendiandoli. Nessun leader o partito politico è stato risparmiato. I manifestanti hanno attaccato persino gli uffici del religioso populista diventato politico Muqtada al-Sadr, che in passato era un leader delle proteste.

Anche se le ultime dimostrazioni non possono portare a cambiamenti immediati e significativi, segnalano l’instabilità del conflitto in Iraq. Per la prima volta, il governo di Baghdad ha preso di mira esplicitamente i manifestanti nel sud, portando a un numero senza precedenti i morti e i feriti; almeno otto dimostranti sono stati uccisi a partire da questa settimana (20 luglio N.d.T). Questa recente ondata di violenza suggerisce che la prossima faglia del conflitto in Iraq non sarà tra sciiti, sunniti e curdi, ma tra il popolo e la classe dirigente, che non è riuscita a governare negli ultimi 15 anni.

Anche se le proteste di quest’estate sono state sporadiche e senza una chiara leadership, e sebbene non porteranno a cambiamenti drastici, riflettono un substrato di disillusione popolare che mette in discussione la convivenza sociale in Iraq. A partire dall’estate del 2015, questo movimento di protesta è emerso per la prima volta a Bassora e si è diffuso in tutto il sud prima di arrivare nella capitale Baghdad. Nel settembre 2015 la folla è passata da poche centinaia di migliaia di persone a oltre un milione. Da allora, in diverse occasioni, in milioni hanno di nuovo marciato nelle strade di Baghdad e nel sud dell’Iraq per chiedere un cambiamento. Le proteste di questa estate segnalano che le rivendicazioni di questo movimento non sono svanite.

Un fattore importante che spiega l’aumento del movimento di protesta è il miglioramento della sicurezza in Iraq. La maggior parte delle città, tra cui Bassora e Baghdad, non sono testimoni di violenze estreme ormai da diversi anni. Gli iracheni sciiti ora protestano contro i loro stessi leader sciiti perché, al di là della sicurezza, lo stato non soddisfa i loro bisogni primari.

Ciò che chiariscono le attuali proteste, inoltre, è che non è più sufficiente per un aspirante leader politico iracheno mobilitare identità etnico-settarie per garantirsi un collegio elettorale e ottenere legittimità. Il movimento di protesta è emerso nel 2015 all’apice del dominio territoriale dello Stato islamico rispetto ad altre zone prevalentemente sunnite dell’Iraq, in un momento in cui i leader politici stavano ancora tentando di ottenere il consenso della popolazione utilizzando la logica etno-settaria. Molti manifestanti, tuttavia, hanno equiparato i loro leader allo Stato islamico, sostenendo che “il funzionario corrotto è simile al terrorista”.

Le principali rimostranze del movimento, allora come adesso, ruotano attorno all’incapacità del governo, fin dal 2003, di fornire servizi essenziali e occupazione. Ad esempio, Bassora si trova al centro della ricchezza petrolifera irachena. Un particolare che ha provocato l’ironia dei/delle suoi/sue abitanti. Le compagnie petrolifere internazionali e l’élite irachena hanno giovato dei miliardi di dollari di proventi in tutta la provincia, mentre solo una percentuale molto bassa è arrivata ai suoi residenti. Così, un manifestante ha scritto su uno striscione, “2.500.000 barili di petrolio al giorno; $ 70 USD al barile; 2500000×70 = 0”.

Moltx irachenx hanno deciso che il cambiamento può venire solo fuori dal sistema

La leadership irachena post-2003 è detenuta da manifestanti, molti dei quali continuano a governare oggi, responsabili del fallimento dello Stato nel provvedere per o rappresentare i suoi cittadini. Questo fallimento è stato evidenziato negli ultimi anni dall’incapacità di Baghdad di soddisfare le richieste dei manifestanti o colmare il divario tra i cittadini e l’élite politica. In diverse occasioni, il Primo Ministro Haider al-Abadi ha tentato di sedare le proteste apportando modifiche personali al suo Gabinetto. Nel 2016, ad esempio, ha rimescolato sei ministri come gesto simbolico di pacificazione dopo che i dimostranti, guidati da Sadr (politico e religioso sciita N.d.T), hanno preso d’assalto la Zona Verde e occupato il Parlamento. Tuttavia, per molti manifestanti, questi cambiamenti di facciata non affrontano i problemi sistemici del paese.

Piuttosto che un cambiamento nella leadership simile a quella delle rivolte arabe del 2011, il movimento di protesta iracheno sta richiedendo un cambiamento sistematico nell’ordine politico post-2003, e in particolare nel sistema di condivisione del potere delle quote noto come muhassasa. Sotto l’apparenza di inclusività, questo sistema ha potenziato e arricchito i leader sciiti, curdi e sunniti, che però non hanno condiviso il potere o la ricchezza con la popolazione irachena.

A peggiorare ulteriormente la situazione, le istituzioni statali rimangono deboli e sono lottizzate dai vecchi partiti politici. Ciò è stato evidente durante le recenti elezioni, che hanno registrato la più bassa affluenza dal 2003. A Baghdad, Bassora e in altre aree dove il movimento di protesta è stato più forte, l’affluenza è stata inferiore alla media nazionale. Moltx cittadinx di queste zone hanno deciso di boicottare il voto, sostenendo che il cambiamento non sarebbe arrivato grazie alle elezioni che al contrario rafforzano le stesse leadership corrotte.

In larga misura, chi ha boicottato aveva ragione. Sebbene il voto abbia comportato il fatto che circa il 65 per cento dei membri del parlamento sia formato da volti nuovi, i leader e i partiti che governeranno per i prossimi quattro anni sono rimasti gli stessi. Il processo di formazione del governo dopo le elezioni è stato caratterizzato dal negoziato tra i soliti volti noti della politica, tutti disposti a scendere a compromessi per ottenere un pezzo del bottino governativo. Persino Sadr, che ha conquistato la maggioranza dei seggi con una campagna anti-establishment, ha trattato con le figure del sistema che aveva attaccato durante la la campagna, alleandosi con il capo dell’Organizzazione Badr e la Lista di Fateh, Hadi al-Ameri; l’attuale vicepresidente Ayad Allawi; e il capo di Hikam, Ammar al-Hakim. Inoltre, ha trattative in corso con Abadi, l’attuale primo ministro. Per molti iracheni, queste trattative hanno rivelato che le elezioni servono a rafforzare l’élite piuttosto che fornire un mezzo per il cambiamento del sistema.

Allo stesso tempo, gli altri meccanismi istituzionali per determinare il cambiamento – la magistratura, le commissioni indipendenti e gli organi di governo locali – sono compromessi, deboli e politicizzati. Di conseguenza, moltx irachenx stanno concludendo che il cambiamento può venire solo dall’esterno del sistema, perché lo status quo diventerà insostenibile a lungo termine: continueranno a usare proteste e sollevazioni per esprimere le loro frustrazioni. E poiché l’ultima serie di proteste con ogni probabilità non porterà a un vero cambiamento, il senso di disillusione, segnato dal divario tra governanti e governati, continuerà a peggiorare.

2018, fuga nel Fediverso

di Leo Durruti & The Mastodons

L’obiettivo di questo post è – bando ai giri di parole! – quello di incentivare le migrazioni online: la parola d’ordine è abbandonare le grandi navi per costruirne di piccole e a misura d’uomo, autogestite. Fuggire da tutto ciò che in questi anni ha monopolizzato e centralizzato la socializzazione e l’informazione su internet (questo «tutto ciò» ha principalmente due nomi: Google e Facebook). «Decentralizzare» i discorsi e riappropriarsi della privacy e dei nostri «dati sensibili». Rimettere mano agli strumenti con i quali comunichiamo chi siamo, cosa facciamo e cosa vogliamo, per evitare che le nostre interazioni costituiscano la base involontaria di enormi profitti, e di diventare gli involontari sfruttati di questo meccanismo.

Questo post è frutto di una collaborazione nata su Mastodon e di una discussione alla quale hanno partecipato a vario titolo diversi utenti. Non ci illudiamo che basti una “diaspora” volontaria a far saltare tutto. Per spezzare i monopoli [https://www.dreamgrow.com/top-15-most-popular-social-networking-sites/] occorre azione politica, conflitto sociale, e invertire le politiche pubbliche che riguardano il web e i colossi che lo dominano. Tuttavia pensiamo che i monopoli dell’informazione siano un grande problema, e che da qualche parte si debba iniziare: quindi perché non da qui? Dalle nostre scelte di utenti?

Quelle che indichiamo qui di seguito sono solo alcune delle possibili alternative ai servizi web e ai social commerciali: quelle che abbiamo provato essere efficaci e che usiamo quotidianamente; quelle con le quali abbiamo già sostituito – da tempo e a volte in maniera permanente – i servizi che eravamo soliti usare, i quali vivono di una supposta pretesa di insostituibilità, di eternità (la stessa cosa che mantiene in vita il capitalismo, guarda caso). Queste, dunque, le nostre indicazioni e suggerimenti per la «decentralizzazione».

Innanzitutto, sembra banale ma è sempre il caso di ricordarlo, è fondamentale il sistema operativo che utilizziamo sui nostri dispositivi. Usare Windows è una cattiva idea, i motivi sono noti, meglio passare a Linux o in alternativa a BSD. La distribuzione Gnu/Linux più famosa e utilizzata (e anche una delle più «maneggevoli») è Ubuntu, ma ne esistono davvero tante. Per farsi un’idea delle centinaia e centinaia di versioni di questi due sistemi operativi basta andare su distrowatch.com

Passiamo ai motori di ricerca. DuckDuckGo, Startpage o SearX sono buone soluzioni per lasciarsi alle spalle la ricerca di Google, tutta incentrata sul marketing e la personalizzazione dell’esperienza. Una personalizzazione che, come altra faccia della medaglia, ha il furto e la collezione di dati personali e la vendita di “profili” a terzi. Google non fa ricerca sul web, fa marketing con i nostri dati e il nostro «lavoro» online [https://ilmanifesto.it/antonio-casilli-i-robot-non-rubano-il-lavoro-siamo-noi-il-cuore-dellalgoritmo/].

DuckDuckGo [https://duckduckgo.com/] è un motore di ricerca che non traccia le ricerche dell’utente, non raccoglie o condivide informazioni personali. SearX [https://www.searx.me/] è un aggregatore di risultati di ricerca dei browser più utilizzati. Startpage [https://www.startpage.com/] non conserva gli indirizzi IP degli utenti e ha modificato la sua politica di uso dei cookie per non tracciare chi naviga sul sito.

Di Google possiamo abbandonare Google plus – che non serve a niente, lo avrete notato – e gradualmente («gradualmente» perché è un trasloco!) anche gmail, anch’essa parte integrante di quel sistema predatorio sul quale si regge Google: giusto qualche settimana fa, un articolo sul Wall Street Journal [https://boingboing.net/2018/07/03/if-you-use-gmail-know-that.html] ci informava che, nonostante precedenti rassicurazioni sull’interruzione della pratica, Google continua a scansionare le caselle di posta elettronica degli utenti per ricavarne informazioni utili a personalizzare le pubblicità. Ci par lecito credere che gli altri servizi email commerciali (Yahoo, Libero, Hotmail etc.) non siano da meno. Esistono invece dei buoni servizi di posta elettronica che garantiscono effettivamente la privacy attraverso la crittografia/cifratura dei messaggi. Ve ne proponiamo due: autistici/inventati [https://www.autistici.org/] e protonmail.com [https://protonmail.com/]

Per quanto riguarda le repository di app per Android, c’è un modo semplice per disfarsi di Google Play scegliendo F–Droid [https://f-droid.org/], un aggregatore di app esclusivamente free software.

Google maps può essere ben sostituita da Openstreetmap [https://www.openstreetmap.org/#map=5/42.088/12.564], la mappa globale a contenuto libero creata dal basso, con il contributo degli utenti. [vedi questo post: https://www.openstreetmap.org/user/jbelien/diary/44356]. Esiste anche una app per Android chiamata “OSM and” che svolge egregiamente tutte le funzioni di google maps.

Al momento sembra impossibile trovare una valida alternativa a Youtube per quanto riguarda l’ascolto di musica gratuita o lo streaming di video popolari. Tuttavia possiamo consigliare Peertube [https://joinpeertube.org/en/] come piattaforma alternativa per caricare e condividere video. Qual è il vantaggio? Poterlo fare senza essere tracciati.

Per seguire siti o blog, invece che affidarsi alle timeline dei social media, che non sono affatto neutrali ma scelgono attraverso un algoritmo cosa mostrarvi e cosa no (e in questo si comportano come dei veri e propri «media»), ci sono i feed RSS [https://ar.al/2018/06/29/reclaiming-rss/] e una marea di software per leggerli. Spiegare tecnicamente cosa sia un RSS sarebbe fuori luogo e anche un po’ noiso, perciò ci limitiamo a esemplificare il funzionamento di un programma che ci aiuta a leggerli: il software è Liferea [https://lzone.de/liferea/], pensato per sistemi Gnu/Linux (un altro software che legge RSS è Thunderbird; sì, proprio lui, il vostro client di posta elettronica). Basta cercare, nel blog o sito che volete seguire, il simbolo e cliccarci su, copiare il link che risulta, aprire Liferea, cliccare su «nuovo abbonamento», incollarci il link e dare OK. Ora, tutte le volte che aprirete Liferea, vi aggiornerà le vostre pagine con gli ultimi articoli pubblicati (NB: se non trovate il simbolino, non sempre ciò significa che il sito o il blog non ha un RSS; il consiglio è di provare a copincollare l’indirizzo del sito nel «nuovo abbonamento»).

E infine i social.

Il primo da cui fuggire è Facebook, che non solo fa profitti con la nostra privacy e il nostro «lavoro» e rivende profili a soggetti terzi [https://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2018-04-04/facebook-profili-ceduti-cambridge-analytica-sono-87-milioni-212600.shtml] ma decide anche, attraverso un algoritmo, cosa possiamo vedere e cosa no, spingendosi fino a pratiche che possiamo senza alcuna difficoltà definire censorie. Ricordiamo, tra i più recenti, (https://www.facebook.com/1008828154/posts/10215400368894951/ e https://www.infoaut.org/conflitti-globali/la-censura-di-facebook-sulla-solidarieta-internazionalista-alla-siria-del-nord) due episodi che hanno visto coinvolti dei combattenti delle brigate internazionali in Rojava e Siria del Nord o organizzazioni solidali. Per chi volesse ulteriormente approfondire il modo in cui Facebook si presta a far da censore, consigliamo questo articolo (in inglese): https://motherboard.vice.com/en_us/article/vbj4qb/how-fracking-companies-use-facebook-surveillance-to-ban-protest. La pratica censoria si affievolisce e diventa carezza, invece, di fronte ai “poveri” negazionisti dell’olocausto [https://www.bbc.com/news/technology-44883743], e a questa cosa un qualche significato (e un’azione conseguente) dovremmo pur darglielo. Un discorso molto simile può essere fatto per Twitter, che negli anni si è andato sempre più avvicinando all’esperienza utente e alle pratiche pubblicitarie e furtive di Facebook.

Per lasciarsi alle spalle Facebook e Twitter consigliamo Mastodon [https://joinmastodon.org/], social network decentrato suddiviso in piccole e grandi «istanze» comunicanti tra loro che si differenziano in relazione ai contenuti, agli obiettivi, alla lingua e alla regione di appartenenza, etc. Per iscriversi al social bisogna iscriversi a una di queste istanze e c’è persino un sito che vi aiuta a scegliere l’istanza adatta a voi: https://instances.social/. A questo link trovate il manifesto di Bida, alla quale sono iscritti gli autori di questo post https://mastodon.bida.im/about/more. Per gestire il social da smartphone ci sono diverse app sia per Android (Tusky, Mastalab, Tootdon) che per ios (Amarok). Mastodon ha poi il pregio di essere costruito sul protocollo di networking libero ActivityPub, base di numerose altre applicazioni social (Pleroma, Pixelfed, Peertube, etc.). Ciò significa, in pratica, che gli utenti di queste applicazioni social possono leggersi e interagire tra di loro attraverso un’unica timeline (la «federated timeline»), facendo così di questa rete un più grande social network federato.

Pixelfed [https://pixelfed.social/register] è nuovissimo social decentralizzato concepito per condividere foto e immagini, in pratica il posto adatto per chi voglia abbandonare Instagram (anche questo, ricordiamolo, è stato acquistato da Facebook)

Per i lettori che frequentano social tipo Goodreads o Anobii proponiamo infine due alternative: Open Library, gestita da Internet Archive [https://openlibrary.org/], sul quale è possibile aggiungere nuovi testi, modificare quelli esistenti, votare e commentare. L’altra è Inventaire [https://inventaire.io/welcome], una buona applicazione social attraverso la quale è possibile prestare e vendere libri ad altri lettori.

Esistono diverse valide alternative open source anche alle videochiamate di Skype (ricordiamo che il servizio è di proprietà di Microsoft e che ha una policy non certo favorevole alla privacy e all’utilizzo dei dati non a fini commerciali): Tox [https://tox.chat/], Linphone [http://www.linphone.org/], Ekiga [http://ekiga.org/]. Per quanto riguarda invece i servizi di messagistica, abbandonando Whatsapp (da quando è stato acquisito da Facebook, la famosa e usata app è stata sempre più integrata con gli altri servizi del colosso di Zuckerberg e dunque risente delle sue policy) il servizio alternativo più usato è certamente telegram. Per chi volesse però cercare qualcosa di più sicuro e meno mainstream, le alternative sono veramente tante: una è ad esempio Cryptocat [https://crypto.cat/] un’applicazione open source per criptare le conversazioni via desktop. Un’applicazione molto simile a telegram, maggiormente open source e decentralizzata, è Kontalk [https://kontalk.org/]. Un’altra ancora è signal [https://www.signal.org/], che funziona anche da app per gli SMS.

Per concludere. Esiste un sito [https://switching.social/] che si occupa specificamente e in maniera approfondita e costante del tema di questo nostro post. Alcune delle alternative che vi suggeriamo le abbiamo prese da lì. Se vi iscrivete a Mastodon vi invitiamo a seguire il loro account https://mastodon.at/@switchingsocial