La domanda è tanto semplice quanto complessa: sta nascendo un nuovo ciclo rivoluzionario a livello globale? Ampie rivolte si stanno diffondendo in numerosi stati in diversi punti del pianeta, portando lo scontro nelle piazze ad un livello quasi insurrezionale. Ne è un esempio la rivolta di Santiago del Cile, fatta scattare dagli studenti dei licei, una protesta scattata contro l’aumento del biglietto della metropolitana. Abbiamo visto milioni di persone scendere per le strade del paese latino americano, con la polizia che ha arrestato la gente entrando nelle case dei manifestanti la notte come ai tempi di Pinochet e non sono mancati nemmeno gli omicidi e le pallottole sparate nelle piazze. Il presidente e il ministro dell’Interno (un vecchio arnese della dittatura riciclato in tempo di democrazia) sono passati dallo scherno all’aggressività alle finte lacrime di coccodrillo e ad una improbabile richiesta di perdono alle piazze sempre più in rivolta. Ultimamente vediamo anche un disperato tentativo di governo e partiti di opposizione uniti per incanalare in senso istituzionale e concertativo le rivendicazioni di una piazza che si teme possa assumere tratti sempre più insurrezionali. Questo in Cile, ma abbiamo altri esempi in altri continenti di proteste che stanno facendo tremare i palazzi del potere e una struttura consolidata di poteri settari, religiosi o laici che siano, capace di mettere in crisi tutte le varie diplomazie e gli interventi geopolitici nelle aree in questione. Stiamo parlando delle rivolte in Libano come in Iraq, ma ci sono anche altri punti incendiati nel globo in Africa come in Asia e in misura minore anche in Europa (Francia e Catalogna nello specifico). Parliamo ad esempio in breve di quanto sta succedendo in Iraq, un paese strategico storicamente per tutta una serie di questioni, dall’invasione americana di Bush ad oggi, con la nascita dell’ISIS e la creazione di un fragile sistema democratico in cui prevale la distribuzione settaria (a prevalenza sciita filo-iraniana) con una diffusissima corruzione della politica. Se lo scontro in Iraq negli anni scorsi aveva riguardato veri e propri eserciti statuali in lotta tra loro, oggi abbiamo una rivolta che è diretta contro lo stato, una potenziale insurrezione contro i poteri politici cui è stata affidata la gestione della democrazia. Dal canale Telegram “Rojava Resiste” leggiamo le cronache di pochi giorni fa: “Scioperi e blocchi a oltranza di porti, uffici pubblici, scuole, pozzi petroliferi, ponti e strade. Il governo reagisce chiudendo internet e dichiarando il coprifuoco a Bassora. 8 morti sotto i proiettili della polizia tra Baghdad, Nassiriya e Umm Qasr (porto commerciale meridionale bloccato dai manifestanti da giovedì scorso), facendo salire il bilancio complessivo a 260. Cominciano ad assumere un peso i casi di desaparecidos, mentre aumentano le pressioni dell’Iran per un intervento più duro delle milizie sciite irachene sue affiliate. Il contesto è ormai sull’orlo di una aperta guerra civile. I manifestanti chiedono il cambiamento dell’intero sistema politico e risposte radicali alla disoccupazione dilagante, alla mancanza di servizi di base e a un sistema politico settario che ha riempito le tasche di pochi malgrado le vaste entrate statali provenienti dall’industria petrolifera. La classe dirigente irachena e il settarismo istituzionale hanno una doppia copertura internazionale: è figlia dell’occupazione USA ed è al tempo stesso legata a Teheran. Mentre la politica economica ultraliberista ha creato una dipendenza totale dal libero mercato e una accettazione dei pacchetti di aggiustamento strutturale di FMI e Banca Mondiale”. Come in Libano e come in Cile abbiamo qui un attacco diretto che – finalmente – si dirige non in una direzione settaria o corporativa ma richiama immediatamente allo scontro contro lo stato, contro le diseguaglianze sociali, contro la politica e – occorre sottolinearlo – contro la stessa democrazia. Questo è il punto cruciale di quello che sta accadendo oggi in questi paesi in rivolta: di fronte all’ascesa globale del fascismo (quello di Trump, di Putin e di Erdogan, di Salvini e compagnia) se la sinistra occidentale è in crisi e cerca solo di dimostrare di essere più capace della destra nel gestire il capitalismo, abbiamo una spinta diretta che individua con semplicità l’esistenza di una alternativa tra stato e insurrezione, non lasciandosi irretire dal tentativo di ingabbiare dentro l’antifascismo democratico il desiderio di liberazione. Dopo quasi dieci anni e dopo il ciclo delle rivoluzioni arabe sembra dunque esserci finalmente qualcosa di nuovo e insieme di antico che ritorna. La risposta alla domanda iniziale, se ci troviamo di fronte ad un nuovo momento rivoluzionario mondiale, la potremo forse dare nei prossimi mesi, con lo sguardo anche alla eroica resistenza del Rojava contro la brutale invasione turca.