Sono passati ormai più di dieci anni da quando i social network hanno fatto irruzione e si sono prima diffusi e poi radicati nelle società occidentali, Italia compresa, coinvolgendo di fatto tutte quelle realtà politiche antagoniste, singole e collettive, che avevano sperimentato percorsi alternativi al mainstream nei primi anni di Internet. Travolti dall’esigenza di non restare separati in un limbo militante sganciato dalle masse che creavano i primi profili social, i gruppi e i collettivi cominciarono a costruire una propria presenza sui social attraverso le pagine Facebook e gli account Twitter, creando nel corso degli anni una rete interna alle piattaforme commerciali. Senza voler esprimere necessariamente un giudizio di merito rispetto a quella che è stata una dinamica storicamente avvenuta e che ha spazzato via, ad esempio, reti come Indymedia o ridimensionato altri percorsi militanti sul web, mi sembra comunque interessante ragionare non solo sugli effetti di queste scelte, ma anche (alla luce di quanto nel frattempo si sia evoluto tutto il panorama online) fare delle riflessioni che possano servire da bilancio. Quando Facebook invase le case degli italiani il suo utilizzo era appunto diffuso principalmente su desktop, prima ancora del boom del mobile e degli smartphone a basso costo con Android. Sembra, dunque, un’era geologica fa. Oggi ci troviamo di fronte a uno scenario molto complesso ma anche di progressiva centralizzazione monopolistica del web, per cui abbozzerei una parziale e sintetica rappresentazione del contesto nel quale oggi una singola individualità che vuole svolgere in rete il suo attivismo politico è costretta ad affrontare. Innanzitutto, lo sviluppo del cyberspazio si è sempre di più legato a doppio filo con i mass media classici, radio e televisione in primis, per cui si può parlare di “infosfera” come un luogo sempre meno virtuale che racchiude entrambi, con al centro una prateria sconfinata nella quale le imprese provano ad estrarre profitti utilizzando qualsiasi mezzo a loro disposizione, basandosi sul modello del capitalismo di sorveglianza gestito da piattaforme transnazionali. Secondo Nick Srnicek, autore del libro Platform Capitalism: “La piattaforma è in realtà un modello di business piuttosto datato, ma è diventato molto più pervasivo con l’avvento della tecnologia digitale. Di fatto, una piattaforma è un intermediario tra due o più gruppi diversi. Possiamo pensare alle prime piazze dei mercati, ma la piattaforma come modello è decollata soprattutto con le tecnologie digitali negli ultimi 10 anni. Facebook, ad esempio, è un intermediario tra inserzionisti da un lato e utenti, sviluppatori di software e aziende che creano pagine e chatbot dall’altro. Facebook riunisce tutti questi diversi gruppi e da essi trae il suo valore, e questo è un fatto abbastanza nuovo rispetto alle aziende più tradizionali. Queste piattaforme stanno diventando centrali nel capitalismo contemporaneo: sono, sempre di più, le aziende più redditizie, ricche e potenti del mondo”. Queste grandi infrastrutture risultano dunque sempre più centrali per gli individui, ma uno dei principali giochi di prestigio che esse fanno di fronte al loro pubblico è quello di presentarsi come neutre e manipolabili, quando invece sono dei software proprietari che sviluppano degli algoritmi sempre più sofisticati che hanno due obiettivi di fondo: fidelizzare quanto più possibile l’utente ed estrarre dalle sue attività online quanti più dati possibile in modo da poterli rivendere sul mercato pubblicitario. Quando queste piattaforme si sono diffuse, hanno compiuto una serie di ricerche di psicologia comportamentale per creare un ecosistema dentro al quale l’utente si sentisse invogliato a rimanere e produrre contenuti: oggi possiamo leggere numerosi studi al riguardo che dimostrano gli effetti neurologici provocati dalle attività online, studi sulla gratificazione che si ottiene quando si hanno i like ai propri post fino al rilascio di cortisolo che il cervello fa ogni volta che sentiamo il suono di una notifica dello smartphone. Questo è uno degli effetti più fisici e meno virtuali dell’infosfera: i nostri corpi, a contatto con dispositivi tecnologici sempre più invasivi e perennemente accesi, si stanno velocemente trasformando. Un social network commerciale diviene dunque un ecosistema dal quale è difficile disconnettersi, pena la perdita di relazioni e identità sociale, con la conseguenza di problemi fisici per l’utente. La base di questa dinamica è anche abbastanza vecchia, perché la storia del capitalismo ci insegna che la merce perfetta è quella che crea dipendenza e costringe il consumatore ad un acquisto infinito: qui siamo di fronte a piattaforme che creano strumenti di dipendenza neurologica per estrarre dati privati dagli utenti a scopo di profitto. Altro aspetto relativo a questo sviluppo abnorme dell’infosfera riguarda la cosiddetta “gamification” presente nei social network commerciali. Le meccaniche base di un gioco o prodotto gamificato sono i punti, i livelli, i premi, i beni virtuali e le classifiche. Si intravedono qui alcuni aspetti centrali dei social, dalla competizione sul numero di amici o followers, ai like ottenuti da una pagina facebook, alla costruzione di un’identità che assomiglia sempre di più al percorso di un videogioco dal quale non possiamo più uscire. Senza voler moraleggiare su queste dinamiche, resta comunque un grande interrogativo aperto sul possibile uso politico dei social network in questo dato contesto: quanto è possibile partecipare a questo gioco salvaguardando i propri obiettivi politici di fondo senza venirne travolti e modificati? Oggi assistiamo ad una progressiva professionalizzazione nei vari collettivi e gruppi politici di persone più esperte nell’uso dei social network, con militanti che devono saper aprire una pagina Facebook del proprio gruppo, creare un evento, invitare utenti etc. Chi detiene le password e i privilegi di amministrazione dei gruppi avrà un ruolo centrale nel percorso di soggettivazione delle identità politiche collettive (come insegna, su scala nazionale e di politica mainstream, il ruolo della Casaleggio Associati nello sviluppo del Movimento Cinque Stelle). In tutto ciò, uno degli aspetti da tenere in considerazione è anche il rapporto tra il proprio profilo personale di utente social e quello degli account collettivi, in quanto si creano dislivelli di potere interni ai gruppi tra chi sa gestire da influencer la sua immagine social e chi invece a stento sa esprimersi in una mailing-list. In definitiva, la costruzione di percorsi di democratizzazione e di partecipazione orizzontale nei gruppi politici risulta alquanto problematica in un contesto che nasce per l’estrazione di profitto dalla soggettivazione degli utenti. Allo stesso modo sarà complesso e contraddittorio un uso personale del proprio attivismo digitale in questo contesto di gamificazione, con il rischio di confondere i risultati di ricaduta politica del proprio impegno con le ricompense programmate dagli algoritmi dei social.
Lino Caetani