La figura dell’attuale presidente del consiglio italiano, il carneade professor Giuseppe Conte, balzato improvvisamente agli onori delle cronache politiche mondiali e collocato a Palazzo Chigi per fornire un equilibrio al nascente governo giallo-verde, è emblematica e riassume plasticamente lo svuotamento effettuale della funzione rappresentativa nelle moderne democrazie capitalistiche. Paradossalmente, proprio mentre si rafforza una visione muscolare, populista e nazionalista della gestione del capitalismo italiano, in una deriva verso la ricerca di leadership forti e di partiti verticisti sempre meno democratici al loro interno, il nuovo potere si affida a questo personaggio semi-sconosciuto, utile al nuovo governo proprio per la sua mancanza di personalità. Si dirà che il professor Giuseppe Conte deve bilanciare la forza e gli eventuali contrasti che emergeranno tra i due veri leader del governo, i vice primo ministro Luigi Di Maio e Matteo Salvini, per cui questa evanescenza della prima carica dell’esecutivo è una finzione utile a una rappresentazione meramente amministrativa: dovrà pur servire qualcuno, meglio se un avvocato studioso di diritto privato, a coprire quella casella e fare quel necessario lavoro burocratico di esecuzione di decisioni prese altrove. Il punto però è proprio questo: dov’è questo altrove? Chi decide, chi comanda qui? Per rispondere a questa domanda dovremmo allargare la visuale e giudicare i primi giorni di questo nuovo governo un attimo al di là della rappresentazione giornalistica delle vicende che hanno visto Lega e Cinque Stelle guidare questa nuova fase della politica nazionale. Un primo elemento di contestualizzazione può essere offerto dal ruolo che svolge il ministro dell’economia nell’esecutivo: mentre i due leader Di Maio e Salvini continuano a promettere la realizzazione delle costose riforme sbandierate in campagna elettorale, il professor Giovanni Tria ridimensiona i capitoli di spesa e tiene fermo il governo populista sulla linea di continuità con l’austerity di Monti, Letta, Ciampi etc. Se però questi limiti economici possono anche apparire comprensibili per ragioni di prudenza almeno in questa prima fase, altri limiti di natura giuridica e politica emergono nel confronto con gli altri governanti degli stati europei e con gli stessi poteri della UE. La questione della riforma del trattato di Dublino fa capire quanto, al di là degli interessi dei singoli governi e della rappresentazione nazionalista di Salvini o di Macron, nella gestione dei migranti tutta l’Europa sia unita nell’intenzione di continuare a blindare le frontiere, proseguire nel disegno stragista in atto da anni nel mediterraneo, affermare la propria potenza colonialista nei confronti dei paesi africani, etc. Di fronte alla costruzione condivisa da tutti di nuovi lager, in Europa come in Africa, all’aumento di respingimenti e deportazioni, appare davvero poca cosa la polemica tra Francia e Italia per la gestione degli “hotspot”. Mentre il professor Conte passava la nottata con gli altri leader europei per limare i termini del nuovo accordo tra paesi europei sulla non-riforma del trattato di Dublino, nelle stesse ore più di cento persone morivano nelle acque antistanti la costa libica, uccise da quel sistema che nessun governo può o vuole mettere in discussione. La gestione delle migrazioni è talmente intrinseca al controllo delle persone e allo sfruttamento che nessun governo potrebbe affrontare diversamente la questione, a meno che non intendesse tendere a politiche anticapitaliste e rivoluzionarie, cosa che farebbe cadere questo ipotetico governo nel giro di due secondi. Qui arriviamo dunque alla vera questione di fondo e cioè che la diffusione del potere, la sua articolazione oltre e attraverso i centri nazionali e comunitari, la compenetrazione con i soggetti economici (non con la generica “casta” o le varie lobby ma imprese, finanza, il cuore del potere nel capitalismo) e lo svuotamento della funzione rappresentativa democratica sono tutte caratteristiche che possiamo difficilmente aggirare con richiami retorici che restano vuoti e fini a se stessi. Parallelamente al dilagare delle pulsioni fasciste (le vediamo esplodere minacciose ogni giorno nelle nostre città) ritorna l’illusione che una socialdemocrazia, magari più collocata verso sinistra rispetto al passato (pensiamo a leader come Sanders, Corbyn, Iglesias, Melanchon e…Viola Carofalo) possa impadronirsi delle leve del governo e gestire un capitalismo dal volto umano. Tutti i fenomeni di populismo di sinistra, di rinascita socialdemocratica, di rinnovamento dei partiti comunisti aspirano a cogliere al volo la stessa (impossibile) occasione storica, ovvero l’occupazione di uno spazio di potere all’interno delle istituzioni nazionali, istituzioni da modificare e poi eventualmente da rovesciare in direzione di un “potere popolare” che abbiamo ben visto come funziona, ad esempio nel disastro del regime chavista in Venezuela. Va detto chiaramente che questa prospettiva non è solo inutile perché fa perdere risorse e tempo ai movimenti di opposizione, ma che è profondamente sbagliata e viziata nelle sue stesse fondamenta teoriche e pratiche. Assistiamo dunque a uno strano paradosso: mentre il potere dimostra la sostanziale interscambiabilità delle sue figure rappresentative, che possono essere dei meri gestori burocratici come un Conte o un Junker, in un processo specchio della perdita di rilevanza delle istituzioni rappresentative democratiche, nel contempo i movimenti di sinistra puntano ancora sulla leadership forte, sulle figure carismatiche, sul leader che trascina le masse, in un rovesciamento simbolico che trasfigura la famosa “cuoca di Lenin”, che avrebbe potuto gestire il socialismo realizzato premendo solo un bottone, nella ricerca di famosi e premiati chef a cinque stelle. Eppure, se il potere ci mostra il suo terribile vuoto, anche le istituzioni alternative allo Stato potrebbero essere immaginate similmente, con l’abbandono della macchina statale e la federazione di consigli esclusivamente amministrativi. Un po’ come immaginavano, per riprendere un paragone storico a ridosso della rivoluzione sovietica, gli operai e contadini “machnovisti”, movimento represso e sconfitto nei primi anni ‘20 del secolo scorso, che scrivevano nel loro manifesto: “Come consideriamo il sistema dei soviet? I lavoratori devono scegliersi da soli i propri soviet, che soddisferanno i desideri dei lavoratori – cioè, soviet amministrativi, non soviet di stato. La terra, le fabbriche, gli stabilimenti, le miniere, le ferrovie e le altre ricchezze popolari devono appartenere a coloro che vi lavorano, ovvero devono essere socializzate”.
l.c.