Foreste in fiamme e corpi da macello

Questa estate 2019 è stata disastrosa per il pianeta. Incendi in Siberia, ghiacciai che si sciolgono in Groenlandia, temperature record ovunque, fino ai roghi devastanti nella foresta amazzonica, che hanno dato il colpo di grazia a un ecosistema già ampiamente provato: gli incendi di quest’anno non sono infatti straordinari ma confermano una tendenza ventennale [1]. I negazionisti dei cambiamenti climatici sono ormai ridotti al silenzio e i capitalisti preparano la loro fuga verso bunker protetti dal disastro in isole lontane e al riparo dalla catastrofe. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite mette in fila le cause principali che sono alla base dei cambiamenti climatici: al primo posto (non è più soltanto qualche documentario girato da registi underground a dirlo) ci sono gli allevamenti animali [2].

Anche l’indignazione da social ha dovuto stavolta fare i conti con la realtà delle cause che hanno condotto agli incendi di Amazzonia, Congo, Angola: serve spazio per bestiame da macellare, e per la coltivazione dei mangimi con cui ingrassarlo. L’evidenza dell’impatto dell’industria della carne sull’ecosistema amazzonico ha potuto farsi spazio – principalmente a causa della coltre di fumo che ha avvolto San Paolo – nelle prime pagine dell’informazione di tutto il mondo; ormai insomma non è più possibile tergiversare richiamandosi alla complessità del fenomeno del riscaldamento globale. Le fiamme vengono appiccate, e primariamente per incrementare la produzione di carne.

Sono irrecuperabili i danni alla biodiversità, al clima, alle popolazioni indigene che sono conseguenza della strategia di deforestazione decennale di queste terre. Una immagine molto circolata in rete recita “non è fuoco, è il capitalismo”: un riassunto tanto lapidario quanto innegabile.

Se la grande mano del capitale muove processi economici, umani, ambientali incontrollabili in cosa consiste allora fare dell’anticapitalismo in tempi di crisi ecologica? C’è a nostro avviso una dissonanza che sorge quando si associa il consumo di animali allo sfruttamento del pianeta: anche se la nostra lotta è (crediamo) anticapitalista, qualcosa ci frena dal rifiutare l’uso della carne in toto, una nostalgia ci coglie ancor prima di fare qualsivoglia tentativo. Le coscienze si riempiono di voci che recitano “ne mangio solo due volte alla settimana”, “non si combatte il capitalismo con scelte di consumo”, “non c’è consumo etico sotto il capitalismo”.

Beh, siamo d’accordo, quello del consumo non è terreno per alcun tipo di conflitto, ma pare che si dimentichino diversi fattori in gioco, soprattutto per chi utilizza le categorie marxiane:

1) quello degli animali non è forse lavoro? Parliamo di corpi di fatto schiavizzati (quella animale è forza-lavoro non pagata e obbligata), esistenti solo in funzione della produzione di un valore sul mercato dei corpi-carne. Come sottolinea Jason Hribal “Consideriamo la ‘carne’. Carne, muscoli, ossa, grasso, questa è la sua forma fisica. Ma la carne non è questo. Piuttosto, la carne è la merce composta dalla forma fisica e creata attraverso la forza lavoro. I principali fornitori di forza lavoro sono polli, mucche e maiali. I fornitori secondari sono gli umani che gestiscono le operazioni e raccolgono i profitti. Se stai acquistando un maialino, stai acquistando la sua forza lavoro futura: sia per produrre beni o riprodurre più forza lavoro. Produrre carne è lavoro tanto quanto lo è guidare i non vedenti o tirare una carrozza. Adam Smith non ha scelto un cavallo come il suo esempio di lavoratore. Ha scelto una mucca.” [3]

2) La scelta vegana non è una scelta di consumo, è un posizionamento politico radicale contro tutti i tipi di oppressione: è il tentativo costante di disinnescare la postura antropocentrica e secolarizzata che respiriamo e riproduciamo quotidianamente. Tirare fuori la scusa dell’insufficienza del “consumo etico” nel capitalismo è semplicemente inaccettabile quando parliamo della libertà e della liberazione dei corpi animali, del rifiuto di ingabbiarli, torturarli, mangiarli. Gira molto nei social questo meme che ironizza sull’inefficacia delle pratiche individuali come andare in bici, riciclare e ridurre il consumo di carne, mentre enfatizza l’unica vera soluzione ovvero fare fuori fisicamente la “classe aziendale corrotta”. A parte il velleitarismo pseudo grillino (la kasta corrottah!1!1!!!) dell’immaginare che all’uccisione di un simbolico re crolli anche il castello ci sembra che manchi (da parte di chi usa il meme in maniera autoassolutoria) la volontà di scomodarsi verso un discorso davvero materialistico, che consideri cioè la catena dello sfruttamento attraverso cui il re ha fatto costruire il castello.

Il capitalismo ha goduto (e gode) dell’appoggio simbolico e materiale di sistemi oppressivi a esso precedenti. Questi sono tra gli altri patriarcato, razzismo, specismo. Non ci sogneremmo mai di dire che il nostro agire personale (aka politico) può essere esente dal tentativo costante di smantellare i sessismi e i razzismi di cui ci nutriamo e le oppressioni sessiste/razziste che esercitiamo o di cui siamo oggetto. Sebbene sappiamo che queste stesse oppressioni sono sistemiche e che sorreggono una complessa costruzione di poteri materiali, economici, ideologici, non ci sentiamo perciò esentat* dalla lotta continua, personale (e a volte per fortuna collettiva) contro le sue manifestazioni. Ecco, non si vede succedere lo stesso quando parliamo invece dello sfruttamento animale, le cui cause e dispositivi sembrano aleggiare in un iperuranio tanto lontano che l’oppressione che continuiamo a (letteralmente) masticare quotidianamente non ha alcun valore nella strategia politica.

Se non vediamo la responsabilità nello scegliere di nutrirsi di un corpo morto (che il capitale si è curato di depurare dalle implicazioni violente e dagli strascichi macabri rendendolo un semplice ‘pezzo di carne’, un prodotto come tanti) allora forse dovremmo davvero abbandonare tutte quelle micro-lotte che ingaggiamo ogni giorno nei confronti della normalizzazione della violenza sia essa patriarcale, razzista, abilista, adultista. O in alternativa potremmo accantonare lo sbeffeggio vegefobico o l’autoassoluzione e ammettere che quel gesto non deve avere necessariamente un peso determinante sull’economia dello sterminio animale mondiale, ma che ha senso innanzitutto perché rifiutiamo che la messa in vita, la messa a lavoro e la macellazione intenzionale e programmata di miliardi di esseri senzienti possa essere parte di un sistema accettabile (accettabile quanto una fetta di prosciutto nel panino).

Note

[1] https://news.mongabay.com/2019/08/satellite-images-from-planet-reveal-devastating-amazon-fires-in-near-real-time/)

[2] Alcuni dati da http://www.fao.org/3/a0701e/a0701e.pdf

Il settore dell’allevamento (diretto e indiretto) copre più del 30% della superficie terrestre, e oltre il 70% di quella coltivabile. Prima causa dell’emissioni climalteranti dei gas serra (18%), più dell’intero settore trasporti. Consumo dell’8% delle risorse idriche mondiali, principalmente per l’irrigazione delle colture destinate all’alimentazione degli animali da macello/produzione. Maggior fattore di inquinamento delle acque, della crezione dele cosiddette ‘zone morte’: suolo reso infertile dallo sversamento delle deiezioni dell’industria dell’allevamento. Nei soli USA l’industria della carne è responsabile del 55% erosione di suolo, 37% dei pesticidi, 50% antibiotici, e un terzo delle emissioni di azoto e fosforo nelle risorse d’acqua dolce.

[3] https://www.all-creatures.org/articles/ar-animals-working-class.pdf pag.19