Vegan: stile di consumo o azione politica?

di Marco Reggio
Intervento all’interno del percorso ‘Politicizzazione del dibattito ecologico’ del Borgofuturo Social Camp3

Veganismo ed ecologia
Le condizioni in cui sono costretti a vivere gli animali non umani vengono costantemente nascoste all’interno della società, in particolare all’interno del dibattito ecologico.
Il veganismo, come espressione più immediata della denuncia della violenza sistemica contro gli animali, è invisibilizzato anche all’interno del dibattito ecologico, e soprattutto di quello climatico.
Alcuni dati:
– il 20% delle emissioni di gas serra proviene dall’allevamento
– una parte sostanziale della deforestazione è dovuta alla creazione di aree coltivate a mangimi per l’allevamento intensivo
– la produzione di fertilizzanti sintetici per la coltivazione dei mangimi animali impiega grandi quantitativi di energia fossile (soprattutto CO2)
– L’allevamento produce il 37% del metano e il 65% del protossido di azoto mondiali

Veganismi individuali e veganismi politici
Quando il veganismo è concepito come uno stile di vita l’individuo è considerato primariamente come consumatore, e non come membro della società. Seguendo questo approccio il veganismo è una pratica individuale che mira a migliorare la salute di chi lo pratica, o che permette alle persone di ‘fare la propria parte’ nel contrasto all’inquinamento o alla malnutrizione.
Anche quando ha a che vedere coi diritti animali, non ci si spinge più in là del boicottaggio commerciale. Lo stile di vita vegano si basa sull’idea che lo sfruttamento animale può essere fermato attraverso un’opera di conversione uno-a-uno alla dieta cruelty-free.
Si può però partire dall’assunto per cui la violenza contro gli animali non è il frutto della crudeltà individuale, e quindi non può essere eliminata richiamandosi al buon cuore dei singoli.
Un problema sistemico richiede un intervento sistemico; ecco perché non è più l’azione individuale a essere al centro della questione. Al contrario essa costituisce l’espressione individuale di un posizionamento politico. Posizionamento che può perciò manifestarsi come solidarietà nei confronti degli animali prigionieri, o di quelli che ogni giorno tentano di ribellarsi, o come un’espressione di coerenza con le lotte di liberazione animale.

Veganismo Queer
Come scrive Rasmus R. Simonsen nel suo Manifesto Queer Vegan, “dichiarare il proprio veganismo può pertanto essere accostato al coming out di in-dividui queer. Ad esempio, quando informai i miei genitori che intendevo diventare vegano, mia madre scoppiò in lacrime e disse: ‘Come potrò ancora cucinare per te?!’. Nel mio contesto familiare, il perturbamento non intenzionale causato dalla mia scelta suonò, a dir poco, straniante [queer]: il ruolo di mia madre come nutrice veniva, a suo modo di vedere, messo a repentaglio, e ogni pasto che avrei consumato in famiglia avrebbe sfidato abitudini alimentari antropocentriche. Rifiutando non tanto il cibo animale quanto, peggio ancora, la modalità stessa dello stare insieme che si realizza intorno al desco familiare, sarei diventato un ‘guastafeste’ (killjoy), ‘quello che si mette di traverso nella solidarietà organica’ che si instaura nell’atto di mangiare (Ahmed, 2004, 213). La mia decisione aveva messo in dubbio la funzione della tavola, a cui Ahmed si riferisce come a un ‘oggetto parentale’ (Ivi, 46), al luogo della coesione familiare; il cameratismo, la forza affettiva che mi legava al resto della famiglia non poteva più essere data per scontata. Opponendosi all’uccisione di esseri di altre specie, i vegani possono effettivamente, e ironicamente, trasformarsi negli ‘assassini’ della ‘gioia familiare’ (Ivi, 49). Niente più pasti ‘felici’ insieme. Non solo: dato che in futuro mia madre non avrebbe più potuto continuare a svolgere lo stesso ‘lavoro di servizio’ femminile (Cudworth, 2010, 82) per me e per gli altri componenti della famiglia, la mia scelta metteva in discussione anche l’ordine eterocentrato dello spazio domestico.”

L’assimilazione non è un’opzione
“Invece di continuare a insistere su una presunta ‘norma’ del veganismo, mi preme sottolineare lo straniamento del veganismo, come ciò che, per citare Edelman, ‘stride contro la normalizzazione’ (2004, 6), problematizzando il ‘privilegio dell’eteronormatività’ che è, al tempo stesso, il privilegio dell’antroponormatività come ‘principio organizzatore delle relazioni comunitarie’ (Ivi, 2). Diventare vegan* significa allora diventare queer in tutta la sua ‘spregevole differenza’ (Ivi, 26). Se davvero vogliamo lanciare una sfida potente ed efficace al sistema che sta alla base dello sfruttamento animale è fondamentale esaminare ed esplicitare tutto l’insieme dei discorsi che lo costituiscono e comprendere che è necessario abbandonare l’idea secondo cui il veganismo possa entrare a far parte della prassi dominante senza essere ‘accolto’ all’interno di un progetto di normalizzazione. Dovremmo pertanto evitare di riferirci al veganismo come a uno stile di vita, dal momento che esso condivide l’etica queer ‘senza speranza’ proposta da Edelman ed entrambe queste posizioni si oppongono alla perpetuazione e alla riproduzione dell’ordine sociale antropo/eteronormativo.”

Vegefilia/vegefobia
La reazione rispetto al veganismo è duplice: da un lato il sistema tende a includerlo, assimilandolo come opzione di consumo, dall’altro mostra insofferenza e tende all’esclusione attraverso discriminazioni delle persone vegane.
La vegefobia, come altre espressioni che utilizzano il suffisso -fobia, è il rifiuto di un comportamento che porta con sé un contenuto politico. La vegefobia riguarda tanto il rifiuto del vegetarianismo per i diritti animali quanto la discriminazione verso le persone vegetariane. Sentimenti come la paura, il disprezzo e perfino l’odio possono far parte di questa discriminazione.
Se i vegetariani subiscono rifiuto è perché il loro agire mette in discussione il consumo di carne animale, anche senza bisogno di verbalizzare la propria opinione. Non consumare carne è un modo di mettere in discussione la dominazione umana, e questo interrogare i privilegi dominanti può portare a reazioni violente nei confronti delle persone vegetariane.
La vegefobia quindi non è semplicemente l’ostilità verso il vegetarianismo come stile di vita ma riguarda il fatto che quest’attitudine interroga l’idea della dominazione umana, rimandando quindi all’antispecismo.
La compresenza di assimilazione ed esclusione può sembrare schizofrenica ma non lo è. In effetti questo binarismo è un fenomeno classico delle modalità con cui il capitalismo tratta le forme di dissenso. Se guardiamo più da vicino ci accorgiamo che l’inclusione è in realtà una forma di inclusione condizionale: il veganismo è accettato se non disturba, se non sfida l’antropocentrismo, se non mette in dubbio l’attuale sistema di produzione e se non mostra solidarietà con altre lotte.

Perché alcuni tipi di veganismo sono ostracizzati o nascosti?
Ecco alcune risposte non-definitive:
– Le rivendicazioni per la liberazione animale o per i diritti radicali degli animali sono più difficili da portare avanti rispetto ad alcune correzioni legate all’impatto ecologico dello stile di vita occidentale
– questi veganismi interrogano il rapporto tra le specie, che è qualcosa di molto più profondamente radicato nel nostro immaginario collettivo rispetto a, per esempio, l’utilizzo di combustibili fossili o della plastica.
– questi veganismi sono connessi a un sistema, la norma sacrificale, che è necessario per mantenere l’ordine sociale capitalistico, e che costituisce lo schema fondamentale per altri sistemi (esempio emblematico è il modo in cui l’animalizzazione venga usata nelle politiche neocoloniali degli stati occidentali)

La Norma Sacrificale
Secondo la definizione di Federico Zappino la norma sacrificale è un processo di ‘naturalizzazione dell’uccisione di vite non-umane che assurge a produttrice di soggettività, desideri, relazioni e altre norme’.
La norma sacrificale produce due tipi di soggetti (umano/animale): soggetti sacrificabili (macellabili, ad esempio) e soggetti che non possono essere sacrificati. È grazie a questa norma che la precarietà e la vulnerabilità degli umani e dei non-umani è trattata in maniera diversa: la minor precarietà dell’umano rispetto all’animale è dovuta al fatto che il primo la attenua sulla base delle tecnologie e degli abusi di potere che servono a massimizzare quella del secondo.
La norma sacrificale, come altri dispositivi di oppressione (per esempio la norma eterosessuale), è pre-esistente al capitalismo, in senso storico e logico. Il modo di produzione capitalistico è caratterizzato precisamente dall’abilità di utilizzare sistemi che lo precedono a suo vantaggio. Inoltre, da un punto di vista strettamente materiale, non dobbiamo dimenticare che il modo di produzione capitalistico si basa sullo sfruttamento dei corpi animali e delle loro capacità riproduttive (non è una coincidenza che la parola capitalismo derivi dal latino ‘caput’, capo di bestiame).

È possibile un capitalismo vegano?
Se pensiamo al veganismo come uno stile di vita, la risposta è sì: le aziende multinazionali possono espandere i loro profitti soddisfacendo un nuovo settore commerciale.
Se pensiamo al veganismo come espressione della solidarietà intraspecie (o come una sfida politica alla strategia di predazione e distruzione del pianeta) è difficile pensare a un capitalismo che possa mai essere antispecista.
Ovviamente c’è una radicale differenza di visione tra la prospettiva ecologica (anche radicale) e quella dei diritti animali. Nel primo caso gli animali non sono pienamente soggetti, e quindi i rischi dell’allevamento intensivo possono essere corretti, anche drasticamente, ma senza rinunciare del tutto allo sfruttamento. Nel secondo caso è invece impossibile non esigere la totale abolizione dello sfruttamento.
Ad ogni modo, anche i movimenti ecologici di ispirazione umanista/antropocentrica dovrebbero seriamente considerare se l’esortazione a ridurre il consumo di carne sia una strategia realistica. Considerando quest’esortazione alla luce della norma sacrificale o suprematismo di specie, potremmo guardare al dibattito sull’uso di corpi animali come una questione binaria: o gli animali vengono mangiati, o non vengono mangiati. In questa prospettiva capiamo perché gli inviti alla riduzione del consumo di carne spesso non producono grandi effetti, anzi servono come scusa per continuare a supportare l’attuale sistema di produzione.

Veganismo e giustizia ambientale
Quale può essere il contributo fondamentale delle lotte per la liberazione animale alla giustizia ambientale (considerata come un’istanza politica, o come una questione da ri-politicizzare)?
Il movimento per la liberazione animale, anche attraverso un veganismo critico, può rendere evidente l’effetto che uno dei pilastri dell’economia globale (lo specismo) ha sulla distruzione del pianeta, tanto da un punto di vista simbolico quanto materiale. Ecco perché il suo contributo è essenziale per radicalizzare le richieste di giustizia ambientale.